2016
Limiti della democrazia. A proposito di G.
Preterossi, Ciò che resta della
democrazia, Roma-Bari, Laterza, 2015
Recensione
di Leonardo Marchettoni
Uno dei temi conduttori dell’ultimo libro di Geminello Preterossi[1]
può essere indicato nell’esplorazione delle possibilità di
(ri)attivazione di una sfera sociale intersoggettiva. Secondo
Preterossi il problema principale della democrazia contemporanea (non
solo italiana) riguarda il deficit di partecipazione che apre lo spazio
all’occupazione dello scenario politico da parte dei poteri forti
(soprattutto dell’economia). Messi di fronte a tale impasse occorre reagire ristabilendo la continuità tra democrazia e movimenti emancipativi.
Il discorso si sviluppa in sette saggi che vanno a toccare alcuni
dei nodi chiave del dibattito democratico contemporaneo, intessendo un
persistente dialogo con autori classici (Schmitt, Hegel, Rousseau,
Hobbes) e contemporanei (Habermas, Laclau, Žižek, Butler). In
particolare, Preterossi si sofferma sul rapporto tra democrazia e
nichilismo, sulle vicende dello stato sociale, sull’interpretazione
della traiettoria più recente dell’itinerario di pensiero di Habermas,
su alcuni luoghi dell’interpretazione di Schmitt e di Hegel, su
democrazia, popolo e soggettività e sul rapporto tra diritti e
politica. Nell’impossibilità di seguire tutte le tracce suggerite da
Preterossi, in questo intervento mi concentrerò sull’ultimo saggio, con
occasionali riferimenti agli altri testi.
All’inizio delle “Conclusioni” Preterossi scrive:
Il “politico” democratico ha due livelli: in alto, una dimensione
simbolica, legata alla prospettazione di fini a lungo termine; in
basso, l’agonismo legato ai bisogni, ai diritti e alla spinta a
sentirsi parte di una vita in comune (p. 174).
Questa affermazione riprende un leitmotiv che era stato enunciato
nel primo saggio quando si diceva che le costituzioni democratiche e
sociali del secondo Novecento esprimono una convergenza tra voluntas e ratio
(p. 9) e poi riesposto a più riprese – in particolare nel saggio su
Hegel. Questo tema è centrale anche nel settimo capitolo. Nel caso dei
diritti, però, l’analisi di questo rapporto richiede una particolare
cautela. “L’origine dei diritti è politica, non morale”, esordisce
Preterossi (p. 139). La ragione di questa asserzione è esplicitata
subito: “se la loro radice fosse morale, questo significherebbe
postulare un ‘assoluto’ etico, che in ultima istanza non potrebbe non
essere religioso o, almeno, metafisico” (Ibid.). D’altra parte,
“i discorsi morali, religiosi, metafisici hanno avuto e hanno ancora un
grande peso nel motivare all’azione (ma anche contro) i diritti”.
Tuttavia, “la loro efficacia non è intrinseca […]. Le visioni morali,
religiose, metafisiche sono produttive nella misura in cui entrano
nell’orbita della politica” (Ibid.). Ritroviamo dunque un
assetto organizzato su due livelli: il livello alto è costituito dalla
sfera dei discorsi morali, religiosi, metafisici, dal tentativo di
inseguire un implausibile assoluto; il livello basso dall’ambito della
politica e del conflitto. Ora si può osservare che, nel confronto con
le due dicotomie precedenti – quella tra dimensione simbolica e
agonismo dei bisogni e quella tra ratio e voluntas –, mentre si può registrare la continuità tra la caratterizzazione del livello inferiore – agonismo, voluntas, conflittualità politica – il termine di livello superiore svaria dalla ratio,
a una generica dimensione simbolica preordinata al confezionamento di
fini a lungo termine, all’insieme dei discorsi morali, religiosi e
metafisici. Questa indecisione è sintomo a mio avviso di un nodo
teorico non completamente risolto. Cerco di spiegarmi.
Nel ricostruire la genesi storico-logica della democrazia costituzionale è molto difficile sottrarsi al topos delle
due anime o delle due tradizioni, quella liberal-costituzionale e
quella democratico-rousseauviana. Per quanto astrattamente in tensione
fra di loro – la componente liberal-costituzionale è rivolta alla
predisposizione di limiti al dilagare, potenzialmente eversivo, della
prerogativa regia e successivamente della voluntas democratica
– le due istanze sono state fatte oggetto di autorevoli tentativi di
conciliazione, da Hegel fino a Dworkin. Ora, il problema è che anche le
varianti più deboli di tali tentativi mettono capo ad alcuni
presupposti teorici – epistemologici, metafisici, metaetici –
probabilmente troppo esigenti. Anche l’idea habermasiana di un sistema
dei diritti come precondizione del carattere fattivo e inclusivo della
democrazia – senza parlare del riferimento dworkiniano a un oggettività
quasi giusnaturalistica dei valori – può risultare censurabile, nella
misura in cui presuppone almeno un’universale ragione procedurale che
fornisce le condizioni di una felice interazione comunicativa. Sotto
questo aspetto, condivido in toto le riserve di Preterossi.
Ma se si mette fuori gioco la possibilità di una conciliazione fra
il versante liberal-costituzionale e quello democratico, rimane la
tensione fra i due elementi. Questa tensione esprime un’energia
antagonistica ed emancipativa che però richiede di essere catturata e
incanalata. Il rischio è quello di ipostatizzare il conflitto in quanto
tale, senza ancorarlo ai nessi materiali che lo innescano. Per
Preterossi, infatti, “[n]on basta una conflittualità purchessia, per
avere una conflittualità di segno emancipativo, cioè che sposti in
avanti i rapporti di forza sociali” (p. 123). A questo punto, però,
diventa cruciale capire in che modo è possibile identificare le “radici
reali”, i bisogni da soddisfare, la direzione verso la quale bisogna
sospingere i rapporti sociali. Questo compito non è semplice da
adempiere, in primo luogo perché i soggetti che agiscono dal basso non
parlano con un’unica voce. Anche quando la loro protesta si avvale
dell’impiego di parole chiave o formule canoniche, se si considera una
pluralità di soggetti sufficientemente ampia l’insieme dei significati
comuni tende a svuotarsi. Così avviene per il riferimento al principio
o al valore della dignità,[2] così accade anche ai diritti umani (o fondamentali) che Preterossi immagina come “agiti” dal basso.
Di questo genere di difficoltà Preterossi mostra di essere
consapevole, per esempio quando esprime riserve sulla capacità di
incidere sui rapporti di forza da parte dell’emergenza di forme di
soggettività “eretiche” – il riferimento è alle teorie queer e
alla riflessione di Judith Butler – che però non si mostrino capaci di
legarsi in contesti più ampi e di assicurare una proiezione collettiva
(pp. 162-3). Il fatto è che, come la tradizione politica moderna,
almeno da Hobbes e Rousseau, insegna, la moltitudine degli individui
può unificarsi e diventare popolo soltanto grazie all’istituzione del
sovrano. Solo la relazione con il sovrano illumina il profilo del
soggetto e dà conto della fisionomia del popolo. Quindi il dualismo
costituzione/democrazia da cui siamo partiti rinvia ad un’altra
dicotomia, quella tra sovrano e popolo. Quest’ultima presenta diverse
specificità rispetto alla prima. In particolare, risulta polarizzata
secondo un asse verticale che è anche un asse normativo: il sovrano si
costituisce tramite un’operazione di riduzione della pluralità
sottostante, operazione che però non è mai compiuta, dal momento che le
divisioni interne alla moltitudine possono sempre riemergere – ed entro
certi limiti questa circostanza è positiva, perché questo genere di
tensione, può fungere da riserva di “energia mobilitante”, contro il
rischio della chiusura oligarchica (p. 102).
In sostanza, il binomio sovrano/popolo fornisce uno strumento
diagnostico per caratterizzare il connotato emancipativo delle istanze
emergenti dal basso: sono autenticamente emancipative quelle forme di
conflitto che sono rivolte a correggere il meccanismo tramite il quale
il sovrano rappresenta/opera la rappresentazione del popolo,
prevenendone la chiusura oligarchica. Si comprende allora perché il
piano simbolico proprio della rappresentazione operata dal sovrano sia
accostato al polo della ratio istituzionale e sia associato a essa nella contrapposizione al polo della volontà agonistica.
Contro questo esito si possono muovere, tuttavia, due tipi di
riserve. In primo luogo, la proiezione normativa che investe l’asse
sovrano/popolo sembra gratuita: in che senso si può sostenere che le
tensioni che potrebbero dissolvere la compattezza del popolo realizzano
istanze emancipative? Forse bisogna supporre un fallimento del
meccanismo rappresentativo? Ma quando si parla di muovere i rapporti
sociali si fa riferimento a un sistema di relazioni diverso e
presumibilmente anteriore rispetto a quello dei rapporti che
istituiscono la rappresentanza/rappresentazione del popolo da parte del
sovrano. È ragionevole pensare che questi due sistemi di relazioni
siano fra loro correlati – di modo che il carattere parziale della
rappresentanza/rappresentazione verrebbe a sancire la diseguaglianza
dei rapporti sociali sottostanti – ma non è immediato capire dove si
situi l’anello che li collega. Per renderne conto si dovrebbe
presumibilmente integrare il resoconto della genesi politica della
sovranità con una teoria che lo mettesse in rapporto con l’evoluzione
dei nessi economico-sociali.
L’altra riserva è di carattere metateorico. Il fatto è che nel
momento in cui si ricorre all’asse sovrano/popolo come strumento
diagnostico per saggiare il connotato emancipativo dei conflitti e
quindi, in ultima analisi, per unificare la moltitudine in senso
antagonistico, se ne ratifica il carattere subalterno rispetto al polo
del sovrano: nel senso che è soltanto la sovranità che tramite il suo
intervento rappresentativo e simbolico unifica la moltitudine e,
d’altra parte, il soggetto guadagna la propria identità solo nella
contestazione del meccanismo rappresentativo messo in atto dal sovrano.
Per un verso o per un altro, queste due obiezioni sembrano puntare
in una medesima direzione: quella della costruzione di quadri di
riferimento generali che possano servire per orientare le scelte
valoriali; in definitiva, la direzione dei “discorsi metafisici, morali
o religiosi”. Questa è anche la direzione verso la quale si è sempre
mossa la tradizione liberal-costituzionale. Ma il problema è che questa
direzione sembra compromessa con la dimensione dell’assoluto. Diventa
allora necessario, per rendere praticabile questa soluzione, cercare di
definire una nozione di quadro o di limite che sia immune da tentazioni
assolutistiche.
Possiamo cominciare a delineare un’alternativa, pensando al modo in
cui entro la tradizione anglosassone si è definita l’opposizione tra il
polo del potere del sovrano, il gubernaculum, e quello della iurisdictio, che rispetto al primo dovrebbe rivestire il ruolo di limite. Sullo sfondo di questa vicenda[3] si situa lo sviluppo della common law che
configura un orizzonte normativo “artificiale”, non riducibile alla
positivizzazione di una supposta ragione naturale, correlato
all’evoluzione della società nel suo complesso ma sovraordinato
rispetto ai singolo episodi di conflitto, e quindi, in senso debole,
“oggettivo”.[4] Entro questo
contesto, anche l’attivismo del potere giudiziario – che Preterossi
decodifica come supplenza rispetto alla politica – può essere letto nei
termini di un tentativo di costruire principi di respiro più ampio,
sovraordinati rispetto alla contingenza, che si proiettino nel futuro,
recuperando, al tempo stesso, la tradizione storica che li ha espressi.
Ovviamente, tali regole non sono assolute, sono rivedibili nel tempo,
ma sino a che non vengono soppiantate da nuove regole e nuovi principi,
possono rappresentare un quadro di riferimento oggettivo.
Inoltre, la costruzione di questi quadri di riferimento normativo è
importante anche sotto il profilo identitario. Infatti, nel momento in
cui le nuove forme di soggettività “eretica” sono condannate
all’emarginazione e non riescono neppure ad accedere ai contesti di
conflitto, mentre la rappresentanza democratica tradizionale appare
sempre più intasata da forme di deriva plebiscitaria – uno dei
riferimenti più immediati è alla situazione dei paesi dell’Est europeo,
dove operazioni di chiusura oligarchica e di riscrittura delle regole
costituzionali sono rese possibili da una fortissima legittimazione
democratica –, l’unico strumento che può consentire l’emersione di
identità alternative è rappresentato dal riconoscimento operato dai
giudici.[5] Questo punto merita
un approfondimento. Il carattere distintivo dell’attività giudiziale è
quello di fornire ragioni a supporto dell’esito prescelto. Tali ragioni
non sono assimilabili a un tentativo di fondazione ma forniscono una
giustificazione razionale che impegna anche le autorità in nome delle
quali quelle decisioni sono emanate. Questo comporta che la prestazione
di riconoscimento offerta dalle corti incorpori una pretesa di
razionalità[6] che la
legittimazione democratica non può possedere, a meno di non caricare la
procedura democratica di ipoteche particolarmente esigenti.
Per queste ragioni ritengo che la concezione politica dei diritti,
del ruolo dei giudici e dell’interpretazione giudiziale sostenuta da
Preterossi sia unilaterale.[7]
Per queste stesse ragioni ho sostenuto che il suo resoconto debba
essere confrontato con un approccio alternativo che tenga conto della
radice razionalistica e tecnica del linguaggio dei diritti. [8]
Leonardo Marchettoni
Università degli Studi di Parma
Dipartimento di Giurisprudenza
leonardo.marchettoni@unipr.it
[1] G. Preterossi, Ciò che resta della democrazia, Roma-Bari, Laterza, 2015. Ove non altrimenti indicato i numeri di pagina si riferiscono a questo testo.
[2] Cfr. Christopher. McCrudden, “Human dignity and judicial interpretation of human rights”, The European Journal of International Law, 19 (2008), pp. 655-724.
[3] Ricostruita classicamente da Charles McIlwain e rivisitata più recentemente da Gianluigi Palombella.
[4] Cfr. G. Palombella, È possibile una legalità globale?, Bologna, Il Mulino, 2012, cap. 1.
[5] In questi termini si può
leggere anche la vicenda ricostruita recentemente da Gianfrancesco
Zanetti relativa al dibattito anglosassone intorno all'orientamento
sessuale. In particolare, Zanetti mostra, con grande acume a mio
avviso, come le istanze provenienti dal basso hanno potuto coagularsi e
ispessirsi, “fare massa critica”, per utilizzare le parole di
Preterossi, soltanto grazie ad alcuni grandi landmark court rulings. Cfr. G. Zanetti, L’orientamento sessuale. Cinque domande tra diritto e filosofia, Bologna, Il Mulino, 2015.
[6] Ovviamente, questa
pretesa di razionalità non è assoluta: è sempre possibile mostrare che
le ragioni addotte dai giudici sono le ragioni di una parte. Questo
genere di distanziamento può essere sempre attuato ma non compromette
in generale l’investitura razionale della parte contro la quale viene
messo in atto.
[7] Senza contare che
l’assunto teorico che lega alla modernità il linguaggio dei diritti –
Preterossi parla a questo proposito di “modello hobbesiano” – sfida le
acquisizioni storiche apportate da Brian Tierney e da altri. Per un
quadro riassuntivo di questo dibattito mi sia consentito rinviare a L.
Marchettoni, I diritti umani tra universalismo e particolarismo, Torino, Giappichelli, 2012, cap. 1.
[8] Una precedente versione
di questo testo è stata presentata il 15 aprile 2016 nel contesto di un
incontro seminariale organizzato dal “Centro Jura Gentium” su Ciò che resta della democrazia.
L’autore ringrazia Nello Preterossi per i suoi commenti in quella
occasione. L’autore ringrazia anche Gianluigi Palombella, Gianfrancesco
Zanetti e Maria Zanichelli per i loro commenti.