2005

W. Kymlicka, M. Opalski (eds), Can Liberal Pluralism be Exported? Western Political Theory and Ethnic Relations in Eastern Europe, Oxford University Press, Oxford 2002, pp. xvii-439, trad. it. Il pluralismo liberale può essere esportato? Teoria politica occidentale e relazioni etniche nell'Europa dell'Est, Il Mulino, Bologna 2003

Will Kymlicka è autore noto agli studiosi del multiculturalismo. Al suo nome si associa infatti la corrente del pluralismo liberale, ovvero quella specifica posizione che si può definire «l'approccio liberale ai diritti delle minoranze». In che misura e a quali condizioni, si chiede Kymlicka, i diritti collettivi delle minoranze culturali risultano compatibili coi diritti individuali di libertà? Come conciliare la dottrina del «pluralismo liberale» con l'approccio liberale standard al problema, per cui allo stato si richiede solo una «benigna noncuranza» verso le culture minoritarie, analogamente a quanto accade per le culture religiose?

La sola benigna noncuranza dello stato, affermava Kymlicka nel suo La cittadinanza multiculturale, non basta a riparare ed evitare i torti verso le minoranze discriminate in quanto, a differenza che con la religione, lo stato non può evitare di legittimare una cultura quando decide di usare la sua lingua nelle pubbliche istituzioni o nei pubblici uffici: ciò significa che un esercizio significativo della libertà individuale è legato necessariamente all'appartenenza a una cultura.

Se queste erano le domande degli anni '90 dello scorso secolo, quelle dei primi anni del secolo presente recitano: sono le opere dei teorici liberali dell'occidente dedicate al pluralismo e ai diritti delle minoranze utilizzabili anche per comprendere e valutare i conflitti etnici dei paesi post-Comunisti dell'Europa dell'Est e dell'ex-Unione Sovietica (ECE=Eastern and Central Europe)? La comprensione di tale punto è lo scopo dichiarato del nuovo studio condotto da Will Kymlicka e Magda Opalski, sua collega all'Università di Ottawa, nel Dipartimento di Studi sull'Europa dell'Est. Il nuovo modello occidentale di pluralismo liberale può assistere governanti e governati nel processo di democratizzazione e stabilizzazione dell'Europa post-comunista? La teoria dei diritti minoritari in relazione a giustizia e democrazia è in grado di suggerire un contesto alternativo per pensare al conflitto etnico nei paesi ECE?

L'analisi inizia con un lungo saggio di Kymlicka, cui seguono quindici repliche e commenti di altrettanti studiosi, attivi per la maggior parte nei paesi ECE, e un commento conclusivo dello stesso Kymlicka.

Collateralmente, il volume vorrebbe offrire anche qualche spunto a chi si interessa del problema dell'esportazione/imposizione della democrazia occidentale nel mondo. Ed è il realtà il motivo per il quale ho preso in mano questo libro, rimanendone, da questa prospettiva, ampiamente delusa. Il problema della democrazia imposta (magari con le bombe) è assai marginale all'economia del volume; anzi, si dà per scontato che gli stati ECE abbiano da adottare procedure e metodi politici degli stati occidentali: l'unico punto in discussione è se vadano consolidati prima la democrazia e i diritti liberali individuali, e una volta affermati questi si possa e debba pensare ai nuovi diritti collettivi multiculturali, oppure se non sarebbe meglio procedere parallelamente- è la tesi di Kymlicka - per non ripetere gli errori commessi dalle democrazie della «vecchia» Europa. L'impressione, non felice, è che le nazioni ECE siano chiamate a consumare la filosofia politica liberaldemocratica piuttosto che partecipare alla formazione di nuove strutture concettuali. E qui desidero far notare, senza particolari commenti, la preponderanza della lingua inglese, paradossale per una dottrina che insiste sulla protezione delle lingue di minoranza. Con un'asserzione sconcertante Kymlicka dichiara che discuterà le opere più interessanti in merito al discorso normativo su secessione, nazionalismo, immigrazione, multiculturalismo, diritti indigeni di teorici occidentali in lingua inglese (p. 14 e p. 85 nota 1).

Gli argomenti e i temi addotti da Kymlicka nella sua introduzione ricalcano quelli delle sue precedenti opere. Cambiano un po` gli esempi, giacché ai casi classici di Canada-Svizzera-Belgio-Finlandia-Spagna si aggiungono Kosovo, Georgia, Russia, Azerbajan ecc.

Un punto nuovo e importante è invece quello della dialettica tra diritti delle minoranze e formazione della nazione (Nation Building): le minoranze nazionali devono godere degli stessi diritti della maggioranza nel processo di formazione dell'ideale e della struttura nazionale dedito a formare e diffondere sul territorio dello stato una cultura societaria comune?

Le risposte di Kymlicka contengono comunque un progetto di filosofia politica, astratto e normativo. Cui però i commentatori rispondono quasi unanimemente con progetti e proposte empiriche e applicate: noi in Romania, in Estonia, in Uzbekistan facciamo così. Questo procedimento su piani sfasati crea disagio al lettore, costretto a passare senza mediazioni dall'argomento normativo astratto alla descrizione empirica. Sembra quasi che i commentatori non siano abituati, o non siano in grado o semplicemente non vogliano seguire l'argomento normativo e lo facciano slittare deliberatamente sul piano concreto e descrittivo. In questo spirito, le principali obiezioni non possono che riguardare l'applicabilità ai singoli paesi delle assunzioni di base di Kymlicka: a questioni di principio si chiede di trasformarsi tout court in questioni di fatto.

Tra le principali obiezioni che Kymlicka riprende e critica nelle conclusioni la più ricorrente riguarda, come si è detto, il problema della priorità del consolidamento del processo democratico rispetto ai diritti delle minoranze. Kymlicka ribadisce che norme democratiche, tolleranza e diritti non sono né alternativi né confliggenti coi diritti delle minoranze e invita a integrare questi ultimi nelle legislazioni già nei primi momenti di affermazione di pratiche di federalismo multinazionale e pluralismo liberale. Il riconoscimento delle minoranze può costituire addirittura una precondizione alla modernizzazione dello stato perché questo si troverebbe a formare la comune cultura nazionale accompagnato dal consenso e dalla partecipazione di tutti i gruppi che lo compongono. Ricorderò infine l'obiezione di alcuni critici che fanno notare che spesso alcune componenti elitarie dei gruppi minoritari preferiscono l'integrazione con la società dominante al mantenimento della propria lingua e cultura. Si tratta del noto fenomeno, che Kymlicka pare ignorare, secondo il quale molti membri di minoranze, soprattutto delle generazioni più giovani, preferiscono l'integrazione alla differenziazione, la quale rischia di trasformarsi in una nuova emarginazione che spinge i giovani nel ghetto di un riconoscimento minoritario imposto.

Francesca Rigotti