2005

A. Nannicini (a cura di), Le parole per farlo. Donne al lavoro nel post-fordismo, DeriveApprodi, Roma 2002, pp. 138, ISBN 88-87423-92-X

«Abbiamo bisogno di una nuova antropologia su noi stessi, su noi stesse ... Un ordine antropologico moderno, che si chiamava sintomaticamente "mondo del lavoro" è caduto sotto picconate di provenienza ancora incerta, il suo popolo di donne e uomini si industria (neanche tanto metaforicamente) in mezzo alle macerie. E ha bisogno di raccontarsi». Queste parole della bella prefazione di Lidia Campagnano presentano in maniera efficace il lavoro di Adriana Nannicini e ne colgono immediatamente lo sforzo più prezioso, quello di raccontare.

Profondamente radicato nella cultura del femminismo (come il titolo rende esplicito nel gioco di rimandi con il libro di Marie Cardinal Le parole per dirlo), Le parole per farlo. Donne al lavoro nel post-fordismo è un testo composito che indaga il legame contemporaneo fra le donne e il lavoro, alternando spunti di riflessione e racconti di esperienza vissuta. Un'alternanza che non presenta fratture, ma che restituisce, nella densità dei racconti, materiali incandescenti per l'elaborazione teorica.

Il libro si apre con un capitolo dedicato alla questione lessicale: «non disponiamo - scrive Nannicini - di un lessico capace di dire la soggettività del rapporto con il lavoro/i», da qui l'esigenza di ripercorrere alcune parole chiave del lessico femminile-femminista sul lavoro rideclinandole al presente, parole come autonomia, casa-città, ma anche corpo e solitudine. Rinnovare, anzi inventare un lessico non significa non attribuirgli memoria: rielaborare alla luce delle esperienze di oggi parole storiche del movimento delle donne, porta non soltanto a fare pratica del "pensiero situato" di cui parla il femminismo contemporaneo, ma a volersi riappropriare del metodo teorico felicemente sintetizzato nella formula del «partire da sé».

Il lavoro di Adriana Nannicini incoraggia e valorizza la presa di parola costruendo la cornice di un racconto corale. Nella seconda parte del libro si racconta di un'esperienza-laboratorio in cui altre parole vengono dette, scambiate, ripensate, in un processo in cui si cerca di costruire piccole sponde collettive al tema del lavoro flessibile delle donne e in cui le dimensioni del personale e del pubblico vengono tenute in equilibrio dalla tensione conoscitiva che anima un contesto inusuale fra corso-laboratorio-inchiesta.

La raccolta di storie che costituisce la terza parte del libro, oltre a mostrare da vicino contesti professionali diversi, alcuni insoliti e "atipici" altri più noti, descrive, nell'invenzione dei perscorsi individuali, tutte le contraddizioni in cui alle donne (più che agli uomini) capita di imbattersi nell'epoca del lavoro immateriale. La duttilità nel suo facile confondersi con instabilità e marginalizzazione, la chance (o miraggio?) del lavoro autonomo. "Strumenti di lavoro" preziosi e fortemente invocati, relazioni, saperi, affetti sono spesso investiti in situazioni fragili o marginali, condannati più alla frammentazione e alla ripetizione che alla messa in valore. La richiesta di soggettività resta astratta, le qualità "femminili" sottopagate.

Eppure non è la rabbia la cifra di questi racconti, né la retorica ideologica, semmai un ritmo vitale (e vissuto!) di fatica e passione. Fatica e sofferenza, costi inevitabili in un mondo del lavoro che frantumandosi chiede ai singoli lo sforzo incessante - fisico e mentale - di tenere insieme i pezzi e i frammenti, e passione, l'incoffessabile ambizione, la voglia di esserci, di lasciare una traccia.

Il pregio maggiore di questo libro è di evitare la tentazione dell'astratto in cui molti discorsi intorno alla femminilizzazione del lavoro rischiano di cadere. Non è infatti il lavoro femminile o femminilizzato il suo oggetto, ma il concreto venire al mondo del lavoro di molte donne.

Sandra Burchi