2005

H. Münkler, Die neuen Kriege, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 2003, pp. 285, ISBN 3-498-04487-7

Gli eventi susseguitisi al crollo del Socialismo reale hanno visto non solo un sempre piú ampio e frequente uso della forza bellica, ma, in particolare, la nascita di una nuova tipologia di guerra: dal conflitto del 1991 in Kuwait alle guerre "in difesa dei diritti umani" a quelle "umanitarie", fino alle più recenti guerre "contro il terrorismo" e alle "guerre preventive". Di fronte a questa nuova fenomenologia della guerra non poteva mancare uno sforzo teorico teso alla concettualizzazione di queste nuove tipologie conflittuali, specialmente là dove non solo organizzazioni come l'ONU e la NATO rischiano di apparire del tutto obsolete, ma anche i concetti tradizionali del diritto internazionale sembrano sottoposti a tensioni che difficilmente ne lasceranno immutata natura ed essenza. Si tenga solo presente che le distinzioni classiche di civile/militare, interno/esterno, guerra/pace, sulle quali si fondava ogni parvenza di un diritto bellico, sono oggi radicalmente in crisi. Di fronte a questo vuoto della concettualità politica si cercano nuove definizioni, tentativi più o meno azzardati di nominare l'oggetto che ci sta di fronte. Si è parlato così di guerra globale e imperiale o, abbandonando del tutto il lemma guerra, di polizia globale. Ma proprio la varietà delle definizioni mostra il problema: la difficoltà di afferrare l'intera realtà di un fenomeno che si sta dispiegando sotto i nostri occhi e che, ben lungi dal trovare belli e pronti i concetti per comprenderlo, erode alla radice i concetti politici comunemente impiegati nella teoria e nella pratica della guerra. Ciascuna definizione è quindi in sé vera, ma solo ed esclusivamente in quanto coglie una porzione del fenomeno. Del resto molti degli autori che hanno promosso e si servono delle definizioni sopra accennate ne sono più che consapevoli.

Herfried Münkler, dopo aver passato in rassegna diversi tentativi per denominare le nuove fattispecie belliche, sceglie, seguendo in ciò la Kaldor (New and Old Wars: Organized Violence in a Global Era, Polity Press, 1999), di parlare di nuove guerre senza alcun'altra specificazione, proprio a rimarcare la difficoltà concettuale di afferrare questo nuovo oggetto. Oltretutto, sottolinea Münkler, si tratta di capire se esse siano proprio così nuove come l'aggettivo lascerebbe supporre. Ad uno sguardo anche solo superficiale sull'epoca della statalizzazione della guerra emerge subito come essa abbia prodotto la determinazione di confini territoriali riconosciuti, rendendo così possibile la differenziazione tra interno ed esterno; una chiara distinzione tra guerra e pace, con l'esclusione di ogni terzo tra questi due termini; il diritto dello Stato di determinare politicamente la distinzione tra amico e nemico; la distinzione tra combattente e non combattente; una chiara linea di demarcazione tra azioni di guerra e violenza criminale; la distinzione tra ambito economico ed esercizio del potere in seguito all'istituzione di eserciti permanenti statali pagati attraverso le tasse (pp. 68-73). Come si vede, si tratta di una serie di distinzioni che la statalizzazione della guerra mise in forma e che la sua attuale destatalizzazione sta mettendo in crisi. Qui Münkler, riconoscendo certo l'indubitabile elemento di novità racchiuso nelle nuove forme di guerra, mostra una meno evidente analogia tra nuove e vecchie forme di guerra. Il parallelo, in particolare, è con la guerra dei Trent'anni. Non solo perché nella guerra combattuta tra il 1618 e il 1648 la violenza fu scatenata anche nei confronti della popolazione civile, ma soprattutto per la ragione che in essa il processo di statalizzazione non era ancora compiuto, cosicché gli attori del conflitto non erano solo gli Stati, ma anche entità non statali e private. Così come avviene in molte delle più recenti guerre (p. 88). Insomma, Münkler ci suggerisce che la costellazione nella quale si iscrivono le nuove guerre, espressione della crisi dello Stato-nazione, presenta molti paralleli con le guerre che hanno accompagnato il processo di formazione della statualità europea (p. 9). Infatti, se la guerra dei Trent'anni può essere intesa come una guerra di formazione della statualità, analogamente le guerre che hanno portato alla dissoluzione della ex-Jugoslavia sono non tanto espressione della crisi dello Stato-nazione, quanto piuttosto processi che hanno accompagnato la patogenesi di nuovi Stati.

Ma la delineazione di questi paralleli, più che essere un tentativo di cercare nel passato immagini e modelli per l'interpretazione del presente, sembra voler essere un modo per meglio porre in evidenza gli elementi di rottura, e quindi di radicale novità delle nuove guerre. La statalizzazione della guerra, e il monopolio statale della guerra come suo corollario, diede luogo ad un sistema di equilibrio, nel quale solo gli Stati sovrani erano soggetti competenti a dichiarare guerra, a condurre guerra e a stipulare la pace, cosicché le «guerre interstatali dell'Europa moderna furono condotte - salvo poche eccezioni - come guerre simmetriche» (p. 110), rendendo in tal modo possibile da un lato la giuridicizzazione della guerra, e dall'altro il tramonto della "guerra giusta".

La novità delle nuove guerre consiste nell'aver spezzato quella simmetria. Le guerre asimmetriche, principio che è alla base della Revolution in military affaire, non sono solamente l'espressione di una superiorità assoluta di una delle parti, in modo tale da costringere l'altra alla resa incondizionata in un confronto militare privo di incertezze, esse si iscrivono all'interno di un rivoluzionamento totale dell'economia politica della guerra.

Il processo di asimmetrizzazione (Asymmetrisierung) della guerra inizia con il crollo dell'URSS, cioè da quando nessuna potenza o coalizione di Stati fu realmente in grado di contrastare gli USA nella forma di una guerra simmetrica. Ma ciò che sembra demarcare specificamente il nuovo scenario e il complesso di azione-reazione messo in moto dalle nuove guerre asimmetriche, le quali hanno prodotto, come risposta, una asimetrizzazione delle strategie (p. 195). In questo nuovo contesto il fondamentalismo religioso non è da ascrivere a un residuo culturale irrazionale, dal quale sarebbe stata riesumata l'idea di "guerra santa", ma, al contrario, la "guerra santa" si configurerebbe come risposta alla nuova asimetrizzazione della guerra e al suo più genuino prodotto ideologico: la "guerra giusta". La pretesa stessa di condurre una guerra giusta, in nome dei diritti umani o dell'umanità, rende fin da subito il conflitto asimmetrico, delegittimando ineluttabilmente l'avversario che, di fronte al diritto assoluto dell'avversario, ha solo torto. Questa logica, nella misura in cui fa ricadere il nemico nella fattispecie penalistica del criminale, riconfigura la guerra come «azione di polizia». Così quella legittimità che una parte trova in nome dell'umanità, l'altra la ritrova nell'appello religioso alla guerra Santa. «Guerra giusta e guerra Santa si riflettono l'una nell'altra. Insieme costituiscono una simmetria delle asimmetrie» (p. 57).

Con lo stesso gesto con il quale l'Occidente scansa da sé la "guerra santa" come un prodotto del fondamentalismo religioso di fanatici mediorientali, senza comprenderla invece come parte di quella asimmetrizzazione della guerra da esso stesso messa in essere, allo stesso modo cerca di spiegare con motivazioni irrazionali, ad esempio con ataviche rivalità "etniche" o tribali, le cause delle nuove guerre. Scrive l'a. che il fatto «che le spiegazioni etniche e religiose delle nuove guerre siano così attrattive potrebbe dipendere innanzitutto dal fatto che, con ciò, quelle guerre possono, quanto meno implicitamente, essere dichiarate come irrazionali» (p. 160). Ma, osserva ancora Münkler, il velo di quella presunta irrazionalità cade non appena si punti lo sguardo sulla specifica razionalità economica delle nuove guerre: non solo a quella degli oleodotti e delle risorse petrolifere, ma anche a quella più immediata dei warlords che, nel vuoto di potere lasciato dal declino della sovranità statale, possono usare il loro per garantirsi profitti e guadagni straordinari attraverso la rapina e il dirottamento di merci, non ultime quelle degli aiuti umanitari, divenuti sempre di più una risorsa per l'autofinanziamento delle nuove guerre (pp. 161 ss.).

Non solo. Nel quadro delle nuove guerre asimmetriche anche il terrorismo presenta una sua perversa razionalità verso lo scopo. Esso è infatti la strategia con la quale piccoli gruppi, militarmente deboli, tentano di attaccare una Superpotenza, utilizzando anche i media come armi per dare il massimo risalto ai loro attacchi: «Nella guerra asimmetrica i media stessi sono diventati una mezzo per condurre la guerra» (p. 196). Il terrorismo si delinea quindi non solo come reazione ad un'asimmetria «culturale, militare, economica e tecnologica» (p. 194), ma come risposta attraverso la «strategia dell'asimmetria a questa costellazione asimmetrica» (p. 195).

Se dunque la Revolution in military affaire e la guerra asimmetrica producono il terrorismo come unica modalità di contrapposizione, anche il concetto di neutralità viene, in questa nuova compagine logico-concettuale, messo in discussione. Là dove l'ordinamento giuridico internazionale è sospeso, se non radicalmente obliterato, dal perseguimento della giustizia in una nuova guerra fatta in nome dell'umanità, qualsiasi dichiarazione di neutralità rischia di trovarsi in una posizione sospetta. Scrive l'a. che «la guerra odierna contro il terrorismo non conosce nessuna neutralità: chi, in tale guerra, non sta dalla parte degli Usa, come afferma il Presidente americano, è contro di essi» (p. 114). Qui un passaggio importante. Nel quale non si deve semplicemente leggere l'arroganza del potere USA. Con questo tipo di letture non si va lontano. Piuttosto, come sottolinea Münkler, la fine della neutralità va letta in relazione al suo carattere in ultima istanza storicamente contingente, in quanto legato all'epoca della statualità e della guerra simmetrica. Proprio la crescente asimmetria della guerra farebbe collassare anche l'idea di neutralità.

Massimiliano Tomba