2009

A. Mubi Brighenti, Territori migranti. Spazio e controllo della mobilità globale, Ombre Corte, Verona 2009, pp. 185, ISBN 978-88-95366-39-5

Lo studio dei processi migratori oscilla comunemente tra un approccio meccanicistico, in cui ricorre spesso un'immagine idraulica delle migrazioni dove le forze economiche e sociali guidano l'azione individuale, e gli approcci che viceversa vogliono richiamare l'attenzione sulla soggettività del migrante e dunque sulla migrazione come rivendicazione di spazi di libertà, manifestazione di un "diritto di fuga", facendo del migrante una sorta di eroe post-coloniale. La ricerca di Andrea Brighenti mette invece a frutto il lascito dell'epistemologia bourdieusiana, tentando un'originale mediazione tra struttura e agency nello studio delle migrazioni. In questo senso le traiettorie individuali dei migranti si svolgono sempre all'interno di un quadro strutturale dato, che è rappresentato dalla territorialità specifica delle migrazioni contemporanee e dal paradigma di controllo adottato dalle principali democrazie occidentali, quadro che tuttavia questi stessi soggetti sono in grado di modificare incessantemente attraverso il processo di ri-territorializzazione che caratterizza le migrazioni e la negoziazione dei quadri normativi chiamate a regolarle.

L'esigenza fondamentale da cui muove la ricerca di Brighenti è quella di "de-eccezionalizzare la migrazione" (p. 7) per provare a superare alcune delle categorie teoriche che hanno guidato lo studio delle migrazioni negli ultimi anni. In particolare, egli evidenzia l'esigenza di superare il nazionalismo metodologico che spinge a pensare le migrazioni all'interno delle categorie giuridico-politiche della modernità, dunque a partire da nozioni come quella di Stato, nazione, cittadinanza. Per operare tale superamento Brighenti propone innanzitutto di guardare le migrazioni a partire da un approccio sistemico, integrandole nel quadro analitico costituito dalla teoria wallersteiniana del sistema-mondo dell'economia capitalistica (cfr. pp. 23-25).

Nell'ottica della teoria del sistema mondo la migrazione risponde ad una domanda relativa alla generazione di lavoro a basso salario che il sistema capitalistico soddisfa attingendo alle risorse umane disponibili alla periferia del sistema-mondo. Tuttavia il rapporto esistente tra centro e periferia nel quadro della teoria è concepito in termini funzionali, più che geografici, cosicché la "produzione" di nuove periferie può passare sia attraverso lo stimolo di processi migratori e l'inserimento di nuova forza lavoro all'interno del mercato nelle aree core, sia attraverso lo spostamento di alcune fasi dei processi produttivi in zone periferiche. Storicamente queste due strategie sono andate di pari passo nella storia del capitalismo e anche nel quadro del regime di accumulazione post-fordista la nuova divisione internazionale del lavoro implica una complessa articolazione tra assorbimento di forza lavoro immigrata e delocalizzazione di fasi del processo produttivo. Come ha illustrato una ormai vasta letteratura, da un lato non tutte le produzioni labour intensive sono state delocalizzate all'estrema periferia del sistema mondo; dall'altro la necessità di servizi a bassa qualificazione per la produzione delle funzioni di controllo e gestione dell'economia capitalistica svolte nei paesi centrali aumenta il fabbisogno di forza lavoro dequalificata. In questo senso c'è una precisa domanda sistemica di immigrazione nei paesi core, legata allo strutturarsi di un mercato del lavoro dualistico e fortemente segmentato.

Il paradigma del sistema mondo consente di superare alcune delle assunzioni comuni sulle migrazioni internazionali, liberando il dibattito da alcune delle più grossolane semplificazioni sulla dimensione territoriale e i meccanismi che muovono le migrazioni contemporanee. L'emigrazione non trova le sue cause dirette in fattori quali sovrappopolamento, povertà e stagnazione economica che affliggerebbero il Sud del mondo e spingerebbero una massa di diseredati a "riversarsi" verso il Nord affluente. Questi fattori possono essere considerati al limite come una condizione di possibilità delle migrazioni contemporanee, che risultano piuttosto stimolate dal diverso modello d'inserimento delle zone periferiche nella geografia post-coloniale del sistema mondo dell'economia capitalistica. La migrazione non sarebbe in questo senso l'effetto dell'esclusione di alcune aree del pianeta dai processi economici globali, bensì il portato del loro inserimento in condizioni di subordinazione politico-economica. La geografia delle migrazioni contemporanee ha mostrato come un fattore generico di povertà può trasformarsi in una concreta occasione di emigrazione solo a condizione che esista una complessa serie di relazioni politiche, economiche e sociali in grado di funzionare da ponte non solo per l'afflusso di capitali, informazioni e di personale specializzato dal centro verso la periferia, ma anche per un flusso migratorio in direzione opposta.

Secondo Saskia Sassen, tre in particolare sarebbero le condizioni politico-economiche in grado di creare un vincolo, o un "ponte", tra paesi di provenienza e paesi di destinazione: innanzitutto i vincoli stimolati dal processo d'internazionalizzazione economica, che crea un'agricoltura orientata alle esportazioni o zone produttive manifatturiere devastando le strutture economiche tradizionali ed innescando un vasto processo emigratorio. Questo assume inizialmente carattere di migrazione interna dalla campagna verso la città, ma generalmente costituisce anche il presupposto per tentare l'avventura delle migrazioni internazionali. Parallelamente l'alterazione del mercato dei consumi nei paesi periferici trasforma gli immaginari delle classi medie che possono eventualmente tentar la via delle migrazioni per accedere a forme di consumo più elevate. Generalmente questi flussi migratori si dirigono verso i paesi sviluppati più prossimi geograficamente o che nel tempo più di altri hanno fatto sentire il peso della loro egemonia politico-economica. Un secondo tipo di vincolo è istituito dalle reti di reclutamento di manodopera, più o meno lecite, e dalle reti familiari, parentali e comunitarie, che sovente tendono a sovrapporsi. Fondamentale per il crearsi di tali reti di reclutamento è l'effettiva necessità di manodopera nei paesi sviluppati meta di emigrazione. Infine un terzo tipo di vincolo è costituito dalle vere e proprie esportazioni organizzate di forza lavoro dai paesi in via di sviluppo verso i paesi sviluppati, esportazione che può assumere anche i tratti del traffico illegale di esseri umani (Saskia Sassen, Una sociologia della globalizzazione, Einaudi, Torino 2008, pp. 140ss).

Il paradigma del sistema mondo consente dunque di ripensare la territorialità specifica delle migrazioni contemporanee, legandola allo studio dell'emergere di complesse economie politiche regionali. Ma tale superamento non può restare limitato alla sola geo-economia delle migrazioni, dovendo essere esteso anche alla loro geo-politica. Brighenti invita, infatti, ad un supermanto della concezione naturalistica del territorio in base alla quale specifici aspetti di uno spazio possono determinare tratti giuridici, politici o sociali rilevanti per la comunità che lo abita. Pur essendo un costrutto giuridico-politico storicamente determinato, un certo grado di naturalismo è insito anche nel paradigma territoriale egemonico della modernità costituito dallo Stato nazione. Tale paradigma tende, infatti, ad assumere come naturali i confini giuridici e culturali che segnano lo "spazio" della comunità nazionale, offuscando quella che l'autore definisce "operazione delle frontiere" (p. 36), vale a dire l'effetto di "territorializzazione", ovvero di produzione dello spazio nazionale, associato all'identificazione del confine e, conseguentemente, dell'altro, dello straniero da tenere a distanza.

Tale concezione naturalistica è stata di recente messa in questione da una ormai vasta letteratura sulla "fluidificazione" del territorio e il progressivo scollamento dei processi economico-sociali dai luoghi politici tipici della modernità. Pur sottolineando come il carattere strutturale delle migrazioni nel quadro del sistema mondo dell'economia capitalistica costituisca una sfida aperta alla dimensione territoriale del moderno, Brighenti evidenzia lucidamente la superficialità con cui si sono formulate alcune previsioni sulla fine del territorio e l'incipiente processo di de-territorializzazione che avrebbe investito il mondo moderno a causa dei processi di globalizzazione. La critica di Brighenti presenta delle forti assonanze con la sociologia della globalizzazione di Saskia Sassen (Territorio, autorità, diritti. Assemblaggi dal Medioevo all'età globale, Bruno Mondadori, Milano 2009), anche se nello specifico si sviluppa in un'articolata teoria costruttivistica e relazionale del territorio che mira ad evidenziare i processi ri-territeriolizzazione in atto. Il territorio non è in quest'ottica un'entità precostituita, il mero ambiente vitale al cui interno una data comunità s'insedia. Al contrario esso è sempre il frutto di un processo di costruzione sociale, una risorsa organizzativa della società volto a definire sempre nuove forme d'identità collettiva.

Utilizzando la nozione relazionale di territorio proposta da Brighenti è possibile rileggere la complessità della mobilità contemporanea svincolandola dalla rigida immagine di un movimento lineare tra un luogo di origine e un luogo di destinazione, mettendo così in piena luce la "pluralità delle dimensioni di scala degli spostamenti migratori" (p. 11). Gli studi sulle migrazioni muovono, infatti, da un'immagine riduttiva della migrazione come attraversamento di una rigida linea di confine che separa due sfere territoriali distinte dal punto di vista giuridico, politico, sociale, culturale. A parere di Brighenti, al contrario, le migrazioni contemporanee si muovono lungo un complesso reticolo di relazioni sociali e vincoli economici che tagliano trasversalmente i confini della territorialità moderna, ricostruendo nuove forme di territorialità attorno alle comunità transanazionali create dai migranti. C'è qualcosa di fuorviante, in questo senso, nell'eccesso di enfasi sull'immagine dello straniero quale soggetto vincolato ad esistere in una dimensione a-topica di privazione identitaria. L'immagine della "doppia assenza" resa celebre da Sayad sarebbe in questo senso legata ad una concezione eccessivamente inspessita del "luogo", inteso sia come luogo d'origine che come luogo d'arrivo del migrante, che non lascia alcuno spazio alla possibilità di intravedere il processo di ridefinizione dei luoghi e delle identità sociali ad essi associate che le migrazioni mettono in gioco. Secondo Brighenti, infatti, le migrazioni aprono i luoghi sociali a una dimensione spaziale che è quella dei reticoli sociali translocali in cui le definizioni identitarie entrano in un gioco di negoziazioni complesso; "la migrazione non riguarda solo il mutamento di distribuzione degli attori nello spazio, ma soprattutto il mutamento degli attori stessi in quanto soggetti, delle loro forme relazionali e della loro agency, attraverso una serie di vincoli ad essi imposti e di possibilità da essi create" (p. 15)

Il dispositivo giuridico politico di controllo delle migrazioni è uno dei fattori strutturali che delineano il contesto all'interno del quale la migrazione si svolge. Le politiche migratorie dei paesi occidentali sembrano tuttavia afflitte da un profondo paradosso poiché da un lato tendono a giustificare la necessità di chiusura richiamando l'immagine della migrazione come un processo sociale meccanico in grado di riversare gli squilibri economici e demografici del pianeta nelle zone più ricche del globo, dall'altro aspirano a frenare tale processo attraverso misure punitive di chiusura che si suppone dovrebbero funzionare da deterrente nei confronti dei potenziali migranti (p. 101). Il paradosso si riflette in una certa impotenza da parte delle politiche migratorie contemporanee a regolare il fenomeno migratorio secondo i dettami della politica di esplicita chiusura. In realtà tale apparente paradosso si risolve "in altri tipi di forme regolatorie attive ed efficaci nel campo della disposizione spaziale e del controllo dei migranti – forme che mirano non a eliminare il numero dei soggetti mobili tout court, ma a ridurne in saldo il grado complessivo di libertà di movimento" (p. 85, 86). In questo senso l'immagine della fortezza Europa che molti hanno sovente evocato per riferirsi alla tendenza alla chiusura dei paesi europei rispetto ai flussi migratori che provengono dalle loro periferie apparirebbe in parte fuorviante. Da un lato questa chiusura non appare in grado di impedire l'afflusso di immigrati irregolari, dall'altro il modello regolatorio sembra privilegiare la gestione differenziale dell'accesso allo status giuridico e ai diritti di chi è comunque fisicamente presente sul territorio europeo. "La fortezza dell'esclusione di status crea una cittadinanza blindata, difesa con le armi come se si trattasse di un privilegio originatosi in un atto predatorio o vergognoso. Le barriere vengono costruite non solo e non tanto intorno ai confini fisici, quanto attorno a quelli giuridici, che delineano nuove territorialità ritagliate ad personam" (p. 133).

Come illustra Brighenti, tra le politiche di chiusura e di controllo dello status giuridico dei migranti e la progressiva informalizzazione del mercato del lavoro, soprattutto nei suoi segmenti meno qualificati, si crea una saldatura strategica che rende legittima la domanda se l'immigrazione illegale sia una forma di parassitismo sociale che s'incunea tra le maglie larghe dei sistemi di controllo sociale, o al contrario un elemento funzionale alle economie dei paesi centrali (p. 136-139). Brighenti sostiene che il governo delle migrazioni e la gestione differenziale dello status giuridico dei migranti che questo consente sia effettuato attraverso una forma di potere discrezionale dai connotati esplicitamente polizieschi. In questo senso egli concorda con molta della letteratura esistente sulle politiche migratorie, che tende ad identificare il migrante irregolare come homo sacer sottoposto ad un potere discrezionale che funziona in uno spazio politico di perenne eccezionalità e sospensione delle garanzie giuridiche vigenti negli ordinamenti degli Stati di diritto moderni (p. 144). Tuttavia troviamo il ricorso al modello dello stato d'eccezione per interpretare la natura delle politiche migratorie contemporanee solo in parte persuasivo, tanto più che la ricerca di Brighenti muove dall'intenzione di de-eccezionalizare la migrazione, reiterpretandola nel quadro delle necessità sistemiche poste dal sistema mondo dell'economia capitalistica. Tale riferimento costringe, infatti, Brighenti a tornare dentro i paradigmi politico-giuridici della modernità, effettuando un riferimento al potere sovrano supremo di sospensione degli ordinamenti che tipicamente caratterizza il marchio originario della statualità moderna. In questo senso egli finisce per avallare l'opinione di quanti sostengono che la sovranità dello Stato, che per altri versi appare in profondo declino, trovi nel campo della regolazione delle migrazioni un terreno di manifestazione e rafforzamento, laddove sarebbe stato sicuramente più proficuo seguire la strada di coloro che ritengono di guardare al progressivo processo di transnazionalizzazione della politica migratoria, suggerendo di gettare lo sguardo sui modelli di regolazione delle migrazioni che si vanno formando nelle diverse regioni, o aree geo-economiche di migrazione. In questo senso ci pare che la ricerca di Brighenti contenga già tutte le premesse per sviluppare un'interpretazione delle politiche migratorie che non ricorra esclusivamente alla canonica immagine dello stato di necessità e dell'alta polizia, ma guardi anche alle funzioni economico-politiche della bassa polizia ed al contributo che questa fornisce nella creazione e nel governo di mercati regionali della manodopera segmentati su base etnico-nazionale.

Giuseppe Campesi