2011

D. Moyo, La carità che uccide, Rizzoli, Milano 2010, ISBN 17039970

Il libro La carità che uccide di Dambisa Moyo, una giovane economista zambiana formatasi ad Oxford e ad Harvard, espone già dal suo titolo il giudizio dell'autrice nei confronti dei flussi di aiuto che l'Africa ha ricevuto a partire dagli anni in cui i paesi del continente hanno raggiunto l'indipendenza politica: non solo, come già ampiamente documentato da vari autori, l'aiuto non è riuscito a promuovere lo sviluppo economico nel continente, ma lo ha frenato. Non solo l'aiuto non ha rappresentato una parte della soluzione alla sfida rappresentata dallo sviluppo economico, ma è stato una delle cause della mancata crescita del continente africano. L'autrice si oppone radicalmente agli impegni internazionali - come quello preso dal G8 durante l'incontro di Gleneagles del 2005 - di aumentare la dimensione dei flussi di aiuto diretti verso i paesi africani, suggerendo, invece, che i paesi donatori si dovrebbero impegnare a cessare completamente ogni flusso nell'arco di un periodo di cinque anni. Dambisa Moyo descrive, nella seconda parte del suo libro, le fonti a cui i paesi africani potrebbero attingere per finanziare il loro sviluppo, argomentando che la sua proposta di porre fine alla dipendenza dall'aiuto non è mossa da un intento provocatorio, ma può essere concretamente messa in pratica.

L'autrice offre una rapida panoramica sulla storia dell'aiuto concesso dai paesi sviluppati ai paesi a basso reddito a partire dal secondo dopoguerra, e quali erano le aspettative che accompagnavano tali trasferimenti di risorse. Questa rassegna ricorda i cambiamenti nel corso del tempo delle priorità perseguite attraverso l'aiuto: dallo sviluppo infrastrutturale e industriale alla lotta alla povertà, e quali condizioni relative alle politiche economiche o al quadro istituzionale del paese ricevente - abbiano accompagnato i flussi di risorse. Nonostante questi cambiamenti, la storia dell'aiuto è stata caratterizzata, secondo Dambisa Moyo, da una costante: l'aiuto ha sempre sistematicamente mancato i propri obiettivi.

Ma l'autrice porta questo argomento un passo oltre: non solo l'aiuto verso l'Africa è stato inefficace, ma è stato in realtà dannoso. Sebbene ci siano vari fattori - geografici, storici, culturali, istituzionali, legati a fattori etnici e religiosi - che Dambisa Moyo riconosce che possano contribuire a spiegare, in parte, il mancato sviluppo di larga parte del continente, nel libro si pone l'evidenza su un solo fattore, ovvero sull'aiuto. E' la dipendenza - che accomuna tutti i paesi africani - dai flussi di aiuto che può spiegare la mancata crescita economica dei paesi africani.

Il quarto capitolo del libro descrive i meccanismi attraverso i quali l'aiuto ha ucciso la crescita dell'Africa, partendo dall'argomento che l'aiuto ha contribuito in modo decisivo alla corruzione del sistema politico, che a sua volta ha compromesso le prospettive di sviluppo economico. Le risorse trasferite dai paesi donatori e dalle istituzioni multilaterali come la Banca Mondiale verso i paesi africani rappresentano una rendita controllata dal potere politico, il cui impiego è sottratto al controllo pubblico, ed è dunque esposto al rischio di essere sottratto ad impieghi produttivi. La disponibilità di ampi trasferimenti dall'estero ha minato alla base gli incentivi dei paesi riceventi di rafforzare la propria capacità di mobilitare risorse domestiche, e di finanziare progetti di sviluppo con i proventi della tassazione. Il basso livello della tassazione non ha messo in moto un meccanismo di controllo, da parte dei contribuenti, di un meccanismo di controllo sull'impiego delle risorse fiscali, che rappresenta l'unico argine possibile contro l'appropriazione privata di fondi pubblici.

Oltre alla corruzione, l'aiuto tende a generare una dinamica inflattiva che porta ad un apprezzamento del cambio reale, indebolendo ulteriormente le già limitate capacità di esportare prodotti da parte dei paesi riceventi. L'aiuto determina anche, secondo l'autrice, un incremento della probabilità di una guerra civile. La letteratura economica - si veda il libro Wars, Guns and Votes di Paul Collier recensito in questa rubrica - rappresenta i ribelli come indistinguibili da un gruppo di banditi, il cui unico obiettivo è quello di assumere l'accesso alle rendite connesse al controllo del potere politico. Dato che l'aiuto aumenta il valore di tali rendite, aumenta anche gli incentivi a tentare di assumere manu militari il controllo del sistema politico.

Dambisa Moyo riconosce che la comunità dei donatori era ben consapevole del fatto che l'aiuto contribuisse alla diffusione della corruzione nei paesi riceventi, ma che questo non ha mai portato i donatari a diminuire i flussi di aiuto. Questo perché esistevano sia incentivi a continuare a fornire aiuto - dato che questo non rispondeva esclusivamente alla volontà di promuovere lo sviluppo economico nei paesi riceventi, e perché si credeva che non esistessero alternative. Si potrebbe dire che i donatori si trovavano alle prese con una sorta di dilemma del Buon Samaritano: ovvero, la consapevolezza dei problemi - anche profondi - connessi alla fornitura dell'aiuto non elimina la convinzione che l'alternativa sarebbe stata senza dubbio peggiore per le popolazione degli stessi paesi riceventi.

Questa difesa dell'aiuto è contestata dall'autrice, la quale sostiene che i paesi Africani trarrebbero benefici dalla decisione dei paesi donatori di porre fine ai flussi di aiuto. Non è vero, come sostenuto nel 2002 dalla Conferenza di Monterrey delle Nazioni Unite su Financing for Development, che l'aiuto rappresenti l'unica credibile fonte di finanziamento per i paesi meno sviluppati. Anche questi paesi, scrive Moyo, potrebbero attingere a fonti alternative per finanziare la propria crescita economica. Queste fonti sono rappresentate dai mercati internazionali del credito, dove sarebbe possibile collocare emissioni consistenti di titoli del debito pubblico, dal commercio internazionale, in particolar modo con la Cina, e dagli investimenti diretti dall'estero. Perché risorse ottenute da queste fonti non sarebbero sprecate, nutrendo la corruzione? Perché, a differenza dei donatori, creditori e investitori esteri cesserebbero immediatamente di fornire risorse se queste fossero destinate ad usi non produttivi, e questa possibilità rappresenterebbe un forte elemento disciplinante dell'azione pubblica. Oltre alla disponibilità di fonti alternative di finanziamento, che potrebbero sostituire i flussi di aiuto, Dambisa Moyo suggerisce anche che i paesi africani potrebbero ispirarsi ad esperienze di istituzioni di microcredito, come la Grameen Bank di Mohammed Yunus, per fornire accesso a fonti di investimento alle famiglie e alle piccole imprese.

Questa è, decisamente, la parte di La carità che uccide che appare meno convincente: mentre la parte di critica degli effetti dell'aiuto poggia sul riferimento ad un ampio numero di lavori accademici, e riesce efficacemente a ricordare quanto l'esperienza passata dell'aiuto diretto verso i paesi africani sia stata insoddisfacente, la seconda parte del libro non poggia su basi altrettanto solide.

E' davvero credibile che i paesi africani - non solo quelli emergenti come il Sud Africa, il Botswana o le Mauritius - possano nell'orizzonte di cinque anni proposto dall'autrice riuscire a sostituire l'aiuto con un simile ammontare di risorse ottenute dal settore privato? Probabilmente, il libro - che è uscito nel 2008 con il titolo originale di Dead Aid - soffre dal fatto di essere stato pubblicato in un momento in cui la fiducia riguardo alla capacità del sistema finanziario di allocare in modo efficiente le risorse non è certamente al suo apice.

Inoltre, i lettori possono trovare molto forte il cambio di registro fra la prima e la seconda parte del libro. Nella prima parte, Dambisa Moyo è netta nell'escludere la possibilità che altri fattori possano essere stati maggiormente rilevanti dell'aiuto nel ritardare lo sviluppo dell'Africa, e nel negare qualunque possibile effetto benefico dell'aiuto. A questo riguardo, è emblematico il brano relativo al Botswana, un paese che è stato capace di crescere ad un passo ben superiore a quello del resto del continente: "[Il Botswana] ha ricevuto ampi flussi di aiuto (pari a circa il 20 percento del reddito del paese) nel corso degli anni Sessanta. E' vero che il reddito pro capita del paese è cresciuto in media del 6,8 percento all'anno fra il 1968 e il 2001, uno dei tassi di crescita più elevati al mondo. Ciò nonostante, l'aiuto non è responsabile per questo successo" (nostra traduzione dalla versione originale). Questa interpretazione di questa storia africana di grande successo non è argomentata ulteriormente, se non facendo riferimento alla bontà delle politiche economiche messe in atto dal paese, evidentemente indenne dagli effetti negativi dell'aiuto sulla corruzione del sistema politico.

La condanna, senza appello e senza eccezioni, dell'aiuto verso l'Africa, lascia il passo ad un'apertura senza riserve verso i flussi privati di risorse. Nessuna menzione ai problemi connessi agli investimenti diretti esteri nel settore primario - si pensi, ad esempio, alle compagnie petrolifere operanti nel Delta del fiume Niger - o ai possibili effetti di spiazzamento sui produttori domestici legati ad un incremento dei flussi commerciali con la Cina. E' certamente vero che flussi privati di risorse - come sostenuto a Monterrey - possono contribuire allo sviluppo economico, ma è tutt'altro che certo che questi flussi possano rappresentare un'affidabile risorsa per i paesi Africani, soprattutto in un periodo di forte instabilità economica e finanziaria.

In conclusione, sebbene Dambisa Moyo fornisca in questo libro una chiara analisi dei problemi legati all'aiuto verso i paesi africani nel corso degli ultimi decenni, non riesce a convincere il lettore che la sua proposta di una completa cessazione dei flussi di aiuto sia preferibile rispetto al faticoso tentativo in atto, da parte dei paesi donatori e riceventi, di migliorare l'efficace dell'aiuto stesso.

Simone Bertoli