2009

G. Montani, L'economia politica dell'integrazione europea, UTET, Torino 2008, pp. 246, ISBN 978-88-6008-243-5

Guido Montani, economista dell'Università di Pavia e impegnato ai vertici del Movimento federalista europeo, ha scritto un libro che intreccia analisi storica, economica e politologica. Collocherò alcuni tratti della sua elaborazione nell'acceso dibattito in corso, esprimendo via via qualche breve commento.

Il processo di costruzione dell'Europa unita è stato animato, fin dall'inizio, dalla costituzione di uno spazio economico integrato. Secondo l'analisi economica, il formarsi di un mercato unico riduce le discriminazioni nazionali di prezzo per lo stesso bene, non giustificate da costi aggiuntivi, e permette di utilizzare grandi economie di scala. La nascita della moneta unica restringe la variabilità dei prezzi relativi di beni e fattori, e quindi rende più attendibili le aspettative sui prezzi futuri e sulle decisioni di investimento; conferisce maggiore credibilità all'orientamento antinflazionistico della politica monetaria; impedisce le svalutazioni competitive nazionali a catena; spinge verso il basso i tassi d'interesse, riducendo il premio al rischio che essi incorporano in previsione del rischio di svalutazione; risparmia le commissioni di cambio; aumenta la trasparenza e la comparabilità dei costi e dei benefici degli interventi pubblici nazionali; riduce la segmentazione dei mercati. Un terzo vantaggio riguarda l'unificazione del sistema fiscale ed è, rimarca Montani, ancora incompiuto. Il Trattato di Maastricht del 1992 vincola la politica fiscale di ciascun paese, che deve presentare un programma di finanza pubblica di medio termine tendente al pareggio o a un avanzo di bilancio. Ciò richiederebbe congiuntamente, come accade negli Stati Uniti, che il governo federale possa effettuare trasferimenti e sussidiazioni dagli Stati in buona salute verso quelli in difficoltà; al contrario, l'UE, con una limitata capacità impositiva e non potendo emettere Union-bonds sul mercato finanziario, ha un ristretto bilancio comunitario con cui compensare la perdita, sul versante delle politiche di stabilizzazione, dovuta ai tassi di cambio fissi.

Gli aspetti richiamati - che procedono dal mercato unico, alla moneta unica, alla più contrastata fiscalità autonoma - sono interpretabili anche in chiave di progettualità politica. Essi rappresentano infatti le tappe lungo cui creare un contesto istituzionale che allinei gli interessi particolari e le rivalità storiche dei singoli paesi europei. Al riguardo ricordo un interessante argomento offerto dalla teoria delle aree valutarie ottimali: i costi e i benefici per un paese dell'adesione a un'area di tassi di cambio fissi dipendono dalla misura in cui la sua economia è integrata con quella dei partner. Ebbene, nel 1999, al momento dell'introduzione dell'euro, la maggior parte dei paesi commerciava intra-UE dal 10 al 20% della propria produzione; una quota assai minore del valore degli scambi tra le regioni degli Stati Uniti. Analoghe considerazioni valevano per il grado di mobilità della forza lavoro europea. Ciò segnala, ritengo, che l'euro fu, in non piccola parte, la scommessa su una leva istituzionale grazie alla quale l'Europa sarebbe diventata un'area ottimale. I federalisti a cui si richiama Montani addirittura suggerirono - evocando il motto di Madison: "federate i loro portafogli, i cuori e le menti seguiranno" - che l'euro fosse la scommessa su un deliberato squilibrio: portando l'unione economica molto al di là di quanto l'UE fosse in grado di spingere l'unione politica, e creando un potere centralizzato (la BCE) di fronte a controparti politiche più deboli, l'euro avrebbe sulla lunga corsa promosso la stessa integrazione politica. Come osservò Albertini nel 1976: «Non si può avere una moneta senza un governo perché solo a questo livello, il livello statuale, si dispone del potere indispensabile per emettere una moneta. Moneta e governo sono in realtà due facce di una stessa cosa, la sovranità: una moneta dunque è nazionale o europea, come un governo è nazionale o europeo» (citato a p.107).

Il processo di costruzione dell'UE è stato altresì animato, fin dall'inizio, dalla tensione tra una concezione sovranazionale e una internazionale. Ciò si riverbera nella struttura istituzionale attuale, basata sulla triangolazione ibrida tra il Consiglio, che rappresenta gli esecutivi nazionali, il Parlamento, che rappresenta i cittadini, e la Commissione, organo indipendente e garante degli interessi dell'Unione. Attualmente le politiche dell'UE sono deliberate con il metodo di codecisione che coinvolge sia il Parlamento europeo che il Consiglio dei ministri. Gli Stati membri dell'UE, attraverso la sottoscrizione di trattati, acconsentono a limitazioni della sovranità nazionale, in quanto dai trattati discendono atti normativi (regolamenti, direttive e raccomandazioni) applicati nei singoli Stati. Secondo Montani, si tratta di un assetto instabile; esaminando ad esempio le politiche agricole, annota: «il Consiglio dei Ministri si è arrogato il potere di fissare all'unanimità i prezzi dei prodotti agricoli, privando la Commissione e il Parlamento europeo della possibilità di far valere il punto di vista dei cittadini» (p. 82). L'assetto dovrebbe piuttosto evolvere verso una coerente prospettiva sovranazionale, la quale viene oggi proposta tramite almeno due visioni contrapposte. L'una valorizza il modello della governance poliarchica, nel quale si concordano gli obiettivi strategici (come il 20/20/20 entro il 2020 per la politica dell'energia), le procedure e gli indicatori con cui perseguirli e valutarne il grado di conseguimento. Una pluralità multistratificata e multidimensionale di attori - agenzie di regolazione, autorità indipendenti, imprese, movimenti collettivi, associazioni di rappresentanza di interessi, network intergovernativi funzionali, network transnazionali, organizzazioni multilaterali, reti globali di public policy, governi nazionali, regionali e locali - contribuiscono al raggiungimento degli obiettivi, ma la loro legittimazione democratica avviene non tanto davanti ai cittadini, dai quali non sempre ricevono un mandato, quanto soprattutto riferendo e giustificando periodicamente le strategie adottate davanti ai propri pari. L'altra visione propugna di creare, sulla base di una Costituzione europea, un governo, erede dell'odierna Commissione, eletto dal Parlamento continentale e responsabile di fronte ad esso; ridimensionare il ruolo del Consiglio dei capi di Stato e di governo; sopprimere la regola del voto unanime per le principali decisioni politiche; trasferire al livello sovranazionale la politica estera e di difesa (le quali, nota Montani a p.138, «non compaiono nemmeno tra i capitoli del bilancio europeo perché sono ancora quasi del tutto a carico dei bilanci nazionali»). Entrambe le visioni individuano meccanismi di gestione/controllo del sistema sociale, ma, per dirla con Rosenau, la governance, a differenza del governo, può non scaturire da responsabilità prescritte legalmente, e può non tradursi in attività di comando sanzionate da un'autorità formale. Montani appare più vicino alla visione (classica) del government. Precisa nondimeno che l'UE, anche se si desse una compiuta struttura federale, mai diverrebbe un sovrano assoluto. Mentre infatti «tutte le federazioni del passato sono abitate da popoli nazionali, il popolo delle nazioni europee non si considera una nazione; per questo lo Stato federale europeo sarà uno Stato aperto, con confini territoriali non ben definiti, con un'identità politica che non promuove l'accentramento dei poteri e delle risorse economiche e con una politica estera che si propone di rendere sovrano il cittadino del mondo» (p.217). Una federazione così peculiare, in effetti, somiglierebbe notevolmente alla governance poliarchica, attenuando, a mio parere, l'opposizione che di solito si scorge tra i due modelli teorici.

La particolarità dell'Europa quale futura federazione sovranazionale conduce Montani ad attenuare anche il contrasto con il realismo politico, quale paradigma teorico stato-centrico. Gli Stati nazionali europei sono ormai ampiamente svuotati, poiché non soltanto la maggior parte dei loro poteri economici e monetari sono stati affidati all'Unione, ma perfino la politica estera e della sicurezza viene o coordinata nel quadro della NATO, o si traduce in osservazione impotente dei drammi internazionali (p.224). D'altra parte, su scala planetaria siamo «oggi in una situazione in cui il sovrano statunitense è sempre meno in grado di assolvere i compiti che si era assegnato, [ed in cui] una politica mondiale progressista deve considerare come obiettivo prioritario la fornitura dei grandi beni pubblici globali: la moneta internazionale, un commercio equo per i paesi poveri, uno sviluppo ecologicamente sostenibile, la sicurezza internazionale garantita di istituzioni comuni» (pp.200-01). Questo doppio movimento - svuotamento degli Stati, per un verso, ed esigenza di beni indivisibili globali, per l'altro - non sfugge, afferma Montani, a parte della tradizione realista, dato che Kindleberger propugnava già quarant'anni fa un ordine internazionale multipolare cooperativo, quale alternativa alla crisi del sistema egemonico. La conclusione dell'autore, se ben lo interpretiamo, è che l'epoca delle contrapposizioni esclusive (internazionale vs sovranazionale, confederale vs federale, realismo vs cosmopolitismo) sta tramontando, a favore di una più articolata comprensione di processi evolutivi che sono rapidi, sfumati e complessi. Una posizione che sembra lasciarsi alle spalle certi dogmatici furori ideologici dell'europeismo.

Nicolò Bellanca