2005

F. Mini, La guerra dopo la guerra. Soldati, burocrati e mercenari nell'epoca della pace virtuale, Einaudi, Torino 2003, pp. 294, ISBN 88-06-16671-9

La guerra dopo la guerra offre una serie di spunti analitici originali e utili per tentare di decifrare le dinamiche principali del disordine globale che caratterizza le relazioni internazionali del 'dopomuro'.

Anzitutto va messa in evidenza la scelta del paradigma epistemologico su cui si basa l'analisi che viene presentata dello scenario internazionale post-Guerra Fredda. È certamente rilevante che sia un generale europeo a richiamare l'attenzione sulla necessità di compiere una vera e propria 'rivoluzione copernicana' nell'approccio alla guerra al terrorismo e alle cause che lo provocano. Per affrontare in maniera efficace e sostenibile la questione del global terrorism, secondo Mini, bisognerebbe abbandonare la 'razionalità cartesiana' lineare e riduzionista tipicamente occidentale, e adottare una mentalità e comportamenti a-razionali e a-lineari basati sulle nuove leggi del caos strutturato o della teoria della complessità. Oggi invece, questo approccio alternativo è totalmente sconosciuto e incomprensibile non solo per i governanti, ma per le stesse stars dell'intelligencija occidentale, Walzer ed Ignatieff per citarne alcune.

Ancora più significativo è il fatto che sia proprio un generale, certamente non digiuno di realismo, a insistere sulla necessità di "prevenire" i conflitti, e non solo di rimediare ad essi manu militari. In questa prospettiva, occorre che l'apparato militare recuperi un "ruolo ancillare" nei confronti della politica, ribaltando la tendenza attuale - evidente in Afghanistan ed Iraq- in cui invece è "l'andamento delle operazioni a dirigere la politica" (p. 66).

L'analisi che l'autore propone del "nuovo disordine internazionale", per dirla con Todorov, diventa complessa quando egli afferma che la "vera minaccia emergente non è tanto il terrorismo quanto l'inadeguatezza della leadership occidentale e della comunità della sicurezza ad affrontarlo": "per battere il terrorismo occorrerebbe prima di tutto battere la paura dentro di noi e agire per eliminarne le cause" (p. 188). Gli Stati Uniti di oggi, invece, sono in preda ad una sorta di "pazzia collettiva" e sono dominati da una "nuova generazione di 'terrorizzati' incapaci di agire al di fuori della logica della guerra e degli interessi, specialmente economici, del proprio sistema" (p. 73).

Interessante è la riflessione sulla nozione di 'impero' proposta nell'Introduzione.

Anzitutto, l'a. riconosce che l'avvio del terzo millennio è caratterizzato dalla "smania di impero", che appartiene tanto agli imperi nazionali di tutti e cinque i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, quanto a ciò che Mini chiama i nuovi "imperi trasversali" dell'informazione, della guerra, del terrorismo e del crimine. L'impero viene definito come un "modello di esercizio della potenza che si fonda sull'imposizione, sull'espansione, sullo sfruttamento massimo delle risorse" (p. 3).

Secondo la prospettiva dell'autore, gli imperi trasversali non sono "legati in maniera indissolubile all'interesse nazionale" e per questo non hanno bisogno degli imperi nazionali per vivere. In altri termini, il "capo dell'impero non è l'imperatore, ma l'impero stesso" la cui "legge, imperante ed imperatrice, è l'unificazione" (p. 8). Per questi nuovi imperi "astratti", gli imperi nazionali sono soltanto strumenti da usare quando le circostanze lo richiedono. In quest'ottica, gli Stati Uniti di oggi non sono altro che il sistema secolare preferito da tutti gli imperi trasversali, in quanto sono gli unici dotati della forza necessaria per formulare la "legge" di turno e cercare di imporla agli altri. Ma sarebbe sbagliato pensare il contrario, ossia che gli Usa controllino da soli tali imperi e possano far prevale i loro interessi nazionali sugli interessi degli imperi (pp.6-9).

L'a. non tarda a calare questo discorso teorico nella realtà internazionale odierna. La globalizzazione economica e finanziaria è il modello imperiale che si è imposto a partire dalla fine del secolo scorso in virtù di scelte politiche che hanno adottato il sistema prettamente economico del capitalismo di mercato fondato sull'ideologia della democrazia liberale.

I veri protagonisti di questo impero non sono tanto gli Stati quanto le corporations alle quali gli Stati hanno dovuto garantire diversi servigi, primo fra tutti "la difesa armata dei loro interessi". A questo proposito, l'a. non manca di ricordare come "molti interventi armati di questi ultimi anni hanno avuto come principali beneficiari non gli Stati ma il sistema economico-culturale di riferimento e le singole corporazioni" (p. 15).

Inoltre, la "necessità di omologazione" dell'impero comporta inevitabilmente l'"annullamento dei poteri locali che possono opporsi all'ampliamento del sistema" (p.11).

Tuttavia, "oggi sono molte le parti che intendono resistere, almeno tante quante quelle che hanno ceduto". In un contesto di evidente asimmetria militare ed economica tra le potenze in campo, la resistenza, secondo Mini, ha assunto a fortiori la forma del terrorismo: "l'impero del terrorismo si è sviluppato in contrapposizione all'egemonia nell'impossibilità di opporsi a essa in maniera simmetrica" (p. 9). Così, l'impero della globalizzazione ha finito per connettersi con l'impero 'orientale'del terrorismo e quello 'occidentale' della guerra. Gli Stati Uniti avendo assunto l'incarico di accelerare la "fine della storia" difendendo ed esportando il modello della market democracy secondo un piano fedelmente descritto da Fukuyama, sono divenuti inevitabilmente l'obbiettivo privilegiato del terrorismo dando vita alla lotta asimmetrica tra guerra infinita e terrorismo islamista.

Il XXI secolo si è aperto con un evento totalmente asimmetrico e a-lineare che ha confermato come l'impero americano, a differenza di quanto pensano i neocons, non sia poi così "attraente" per tutti. L'attacco dell'11 Settembre ha dimostrato come la legge unificante dell'impero si possa rivelare anche la sua "carnefice". Di fatto, all'origine del terrorismo islamista vi è anzitutto "il tentativo di imporre leggi imperiali occidentali in ambiti culturalmente estranei" (p. 47). Alla "provocazione terrorista", l'Amministrazione Bush ha reagito in maniera lineare con la restaurazione di un "nuovo ordine confessionale" fondato sulla guerra asimmetrica e preventiva contro gli "Stati canaglia". Secondo l'a., questa strategia oltre a correre il "rischio di non colpire gli obbiettivi reali, di provocare destabilizzazioni regionali e di diffondere l'infezione", rischia anche di risultare "blasfema" rispetto ai valori della religione secolare occidentale e di produrre uno "scontro di civiltà tra Europa e Usa".

Dopo aver criticato la "teorizzazione tutta lineare" (p. 106) del terrorismo fatta dall'amministrazione americana, Mini, si spinge fino a mettere in guardia i cittadini dei paesi occidentali non solo dai terroristi ma anche dai "piazzisti del terrorismo". Il terrore, infatti, oltre ad essere la causa della "paranoia occidentale per la sicurezza", è anche il "solo strumento di cui dispongono [gli statunitensi] per fare affari, influenzare decisioni e imporre un modello totale che in ogni caso sanno di non potere controllare pacificamente" (p. 72).

Ma secondo il generale Mini, oltre ai "piazzisti del terrore" sarebbero all'opera anche i "piazzisti della guerra". Affinché l'U.E., o altre potenze, non diventino "il nemico dei sogni americano", gli europei hanno la "responsabilità oggettiva" di non lasciare isolati gli Stati Uniti nella lotta al terrore, di aiutarli a superare la linearità prettamente occidentale della loro logica di "potenza militare" e aiutarli nello sforzo di pensare in termini nuovi, secondo la teoria della complessità e la logica della "potenza civile". Come sostiene l'a., i piazzisti della guerra, in altri termini i neocons di oggi e di domani, "possono fallire soltanto se invece del sospetto e della separazione si stabilisce una nuova intesa fatta di rispetto. Per tutti" (p.117).

Dopo aver descritto come sta cambiando la guerra e aver criticato senza mezzi termini la nuova strategia americana della 'guerra preventiva', l'a. racconta come cambiano i militari. Dopo un'imprevedibile critica alla guerra, Mini si concede un "elogio del guerriero". Tuttavia, il ritratto che fa della figura cangiante del soldato contemporaneo è tutt'altro che lineare e scontata.

Il mito del soldato-cittadino oggi è sostituito dal mito del soldato di pace, che è diventato il nuovo protagonista nell'epoca della "finzione della negazione della guerra", delle guerre virtuali e delle operazioni militari trasformate in operazioni di pace. Tuttavia, agli occhi di un generale, "asserire che si fa la guerra per ottenere la pace è una bestialità concettuale o una semplice mistificazione strumentale a qualche altro scopo" e "basta vedere quante multinazionali e quanti istituti finanziari si celano dietro gli interventi militari di questi anni per capire quale tipo di interesse sia perseguito" (p.141). Indubbiamente, "la pace è diventata oggi la madre di tutti gli alibi". Contro la trasformazione del guerriero in samaritano, contro l'elusione della morte come elemento essenziale della guerra, contro la finzione della fine della guerra e contro l'ipocrisia delle operazioni di pace, il generale sostiene la necessità di riscoprire la figura del guerriero, che lui dice abitare "dentro ciascuno di noi".

L'analisi non cessa di essere sorprendente neppure quando si concentra sui dopoguerra, realtà che Mini in veste di comandante dell'operazione di peace-keeping in Kosovo conosce dall'interno.

La sequenza di denuncie ben documentate dei fallimenti, delle speculazioni internazionali e delle connivenze tra criminalità locali e autorità internazionale che hanno caratterizzato gli interventi umanitari e le guerre d'occupazione degli ultimi anni, sono inserite in un quadro teorico lucido e disincantato. Nel dopoguerra, scrive Mini, si realizza "l'intreccio tra l'impero della guerra e quello dell'economia" (p.169). Se le guerre classiche miravano a ristabilire lo status quo ante, gli interventi armati contemporanei mirano alla "distruzione strutturale": "maggiore è la distruzione e migliori sono le possibilità di investimenti [occidentali] e di movimenti di capitali" (p. 171). Nell'era della globalizzazione, "la fase postbellica è diventata il vero business della guerra" (p.170).

In conclusione, La guerra dopo la guerra è un libro che si contraddistingue in virtù della sua analisi 'complessa' dei cambiamenti della guerra e dei dopoguerra, e dell'interessante approccio proposto per compiere un passo dalla logica della guerra infinita verso quella, se non della pace, almeno dell'uso contenuto e legale della forza.

Alessandro Calbucci