2005

T.H. Marshall, Citizenship and Social Class, Pluto Press, London 1992; trad. it. Cittadinanza e classe sociale, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 95, ISBN 88-420-6666-4

Uscito in ristampa per la Biblioteca Universale Laterza, il classico marshalliano sullo statuto sociologico dei diritti di cittadinanza, che condensa gli esiti del ciclo di conferenze tenutosi a Cambridge nel 1949, si segnala per l'estrema attualità del taglio metodologico oltreché tematico. Sul primo versante, colpisce il carattere ibrido di ricerca a metà strada fra la sociologia e l'economia politica, mentre sotto il profilo contenutistico tutto sembra ruotare - come giustamente sottolineato da Sandro Mezzadra nell'Introduzione alla presente edizione dell'opera - attorno all'"urgenza [...] di sicurezza [sociale]", affermatasi con forza fin dalla crisi economico-finanziaria del '29, e ulteriormente rilanciata nel secondo dopoguerra (p. VI). In questo senso Marshall interpreta certamente la temperie culturale e politica del suo tempo, pur fornendo tuttavia una serie di spunti di riflessione e di strumenti di indagine che ben si adattano alla presente stagione di crisi del Walfare State.

Per restare all'Introduzione di Mezzadra - vera novità di questa riproposta editoriale - colpisce il privilegiamento della sfera di vita extra-accademica di un intellettuale votato al "rinnovamento nello studio dell'amministrazione e della politica sociale" (p. X), e che tale rinnovamento deciderà di perseguire in luoghi altri rispetto alle aule universitarie. In quest'ottica vanno lette le sue collaborazioni in veste, ora di alto funzionario del sistema scolastico, ora di consulente scientifico al Ministero degli Esteri inglese e all'Unesco. Pragmatismo, il suo, coltivato all'ombra di varie esperienze di vita comunitaria - alcune volontarie, altre forzate - quali ad esempio l'internamento in un campo di prigionia tedesco durante la Grande Guerra o l'incursione in una dimensione di vita autenticamente operaia, a seguito del proprio personale coinvolgimento alle elezioni politiche del 1922 nelle file dei labours.

C'è poi l'apprendistato teorico della sociologia, disciplina nei cui confronti Marshall non esiterà ad ammettere il proprio ritardo; il che ne farà uno studioso eclettico interessato assai più alle singole strutture sociali che alla società nel suo insieme. Si spiega così la scelta di indagare l'evoluzione sociale, quanto meno quella inglese tra diciottesimo e ventesimo secolo, attraverso le due micro-unità di ricerca costituite dalla cittadinanza, per un verso, e dalla classe sociale, per l'altro. La cittadinanza - sostiene lo studioso - come tutte le forme di appartenenza comunitaria, sancisce un sistema di uguaglianza sociale, mentre il sistema di classe è per definizione un sistema di diseguaglianze, legittime nella misura in cui sono percepite non solo come ineliminabili ma addirittura come indispensabili all'evoluzione sociale stessa. Da ciò il conflitto latente che il capitalismo novecentesco, ormai disancorato dalla dimensione individualistica originaria, non saprà più tenere in ombra fra le ragioni dell'una (cittadinanza) e quelle dell'altra (classe sociale). Che il saggio in esame tratti esaustivamente di entrambi i termini del conflitto è cosa difficilmente sostenibile. Per stessa ammissione dell'autore (pp. 78-9) poco o nulla si dice sulla classe sociale, e il vero oggetto di riflessione appare semmai - con le parole di Mezzadra - il "lungo ciclo storico di espansione [...] e di arricchimento intensivo" (Introduzione, p. XVIII) della cittadinanza democratica alla luce della sua presunta compatibilità con un certo margine di diseguaglianza sociale.

Su questo terreno si innestano i quattro interrogativi che il Marshall sociologo eclettico riprenderà dal suo omonimo, l'economista Alfred Marshall, al quale l'Università di Cambridge dedicava nel '49 il ciclo di conferenze di cui dicevamo in apertura. La prima domanda è se "esista una forma di uguaglianza umana fondamentale, connessa a una piena appartenenza alla comunità" (p. 80), come sembra presupporre il fatto di ammettere il diritto per tutti ad una vita civile, e se tale uguaglianza, "una volta arricchita di sostanza e incorporata nei diritti della cittadinanza" (p. 11), resti perfettamente sintonica con le logiche del libero mercato o non vada piuttosto ad interferire con esse, riconfigurandone la portata - e qui la seconda domanda - in termini di graduale avvicinamento ad un sistema socialista. La risposta, demistificatoria di qualsivoglia lettura armonicistica, è che dall'incontro tra esigenze di giustizia sociale e di sviluppo dell'economia di mercato lo status di cittadinanza, con il suo corollario di diritti civili nel diciottesimo, politici nel diciannovesimo e finalmente sociali nel ventesimo secolo, esca rafforzato nel senso di spostare sempre più in avanti la soglia dell'uguaglianza, attraverso "un arricchimento del materiale di cui è fatto lo status e un aumento del numero delle persone a cui è conferito questo status" (p. 31).

Ma esiste un limite massimo di espansione soggettiva e di intensificazione oggettiva della cittadinanza? Ecco il terzo interrogativo, rispetto al quale Marshall esclude che l'Europa del ventesimo secolo - ed a maggior ragione, ci pare, del secolo presente - persegua, e sia con ciò destinata a conseguire, uno standard di eguaglianza assoluta. Il rapporto di tensione fra contrattazione capitalistica e status di cittadino, di cui egli pure ammette l'irriducibilità, gli appare mediabile attraverso singoli interventi di aggiustamento sostenuti dalla keynesiana fiducia nelle capacità regolative dello Stato sociale del benessere. Ed è proprio a quest'ultimo che l'autore dedica alcune delle considerazioni più pregnanti dell'intero saggio, quando allude al passaggio di fine Ottocento dagli "sforz[i] legislativ[i] e [...] volontari [per] ridurre l'inconveniente della povertà senza turbare la struttura della disuguaglianza di cui la povertà era la conseguenza spiacevole più ovvia" alla "crea[zione di] un diritto universale a un reddito reale non misurato sul valore di mercato del soggetto" (pp. 49-50).

È questo un espediente per introdurre il tema dei diritti sociali, cogliendo più in generale la dinamica diritti-doveri nelle democrazie contemporanee. Una volta rilevato lo sbilanciamento a favore del linguaggio dei diritti rispetto a quello dei doveri, Marshall passa a trattare delle nuove fedeltà generate dal moderno processo di fusione geografica su base nazionale e di differenziazione funzionale dei diritti e delle istituzioni preposte a tutela di questi. Scrive che: "[...] la comunità nazionale è [ormai] troppo grande e remota per mobilitare [una] fedeltà [unica]. [...] la soluzione al nostro problema [sta] nello sviluppo di fedeltà più ristrette, verso la comunità locale e specialmente verso il gruppo di lavoro" (p. 84). Da tale allentamento dei vincoli di appartenenza alla comunità politica nel suo complesso e dalla moltiplicazione delle fedeltà parziali risulterebbe che, mentre un catalogo dei diritti si è via via precisato, lo stesso non è avvenuto sull'opposto versante dei doveri, restando "il senso di obbligazione personale [pressoché estraneo] allo status della cittadinanza" (p. 83). Da ciò la perdita di un "forte senso di responsabilità rispetto al benessere della comunità" (p. 74), con conseguente stigmatizzazione da parte di Marshall di quelle forme di rivendicazione e di lotta sindacale comunemente legittimate - alla stessa stregua del ricorso massiccio allo sciopero selvaggio - in forza della cosiddetta cittadinanza industriale. Qui il conflitto sociale nei luoghi di lavoro è ridotto a poca cosa, prevalendo su tutto l'invito alla cooperazione tra le parti che, se giustificato in epoca di faticosa ricostruzione post-bellica, suona inquietantemente premonitorio delle attuali pratiche di concertazione sindacale.

Il quarto punto di domanda su quanto la grammatica dei diritti abbia fagocitato quella dei doveri scandaglia, in conclusione, sul fronte propriamente giuridico, l'endiadi universalismo-particolarismo dei diritti e, su quello sociologico, l'interazione complessa tra i meccanismi di inclusione e di esclusione legati alla cittadinanza democratica. A tale ultimo proposito, sembra da condividere la preoccupazione che Mezzadra ha mutuato da Luigi Ferrajoli ed espresso nel suo intervento su Cittadinanza e immigrazione. Il dibattito filosofico-politico al Seminario MURST del 18 dicembre 1999, presso il Dipartimento di Teoria e Storia del Diritto di Firenze, circa "il rischio che la cittadinanza, negando[ne] la storia, si trasformi nell'"ultimo privilegio di status rimasto nel diritto moderno"".

Una storia della cittadinanza che trovi in Marshall il suo punto di partenza mantiene dunque la propria ragion d'essere, a patto che di Marshall si accantoni la prospettiva angustamente nazionale e fin troppo lineare da cui il processo di costituzione e costituzionalizzazione dei diritti viene ripercorso. È indubbio essersi trattato di un processo emancipativo sul piano individuale e collettivo, il che non implica che debba tacersene la permanente oscillatorietà fra apertura e chiusura, inclusione ed esclusione, eguaglianza e gerarchia. Vanno in direzione di tale rischiaramento lavori di semantica storica come la straordinaria ricerca di Pietro Costa sulle origini della cittadinanza europea, ma anche dibattiti pubblici come quello occasionato nel 1998 sulle pagine di "Teoria Politica" dalle "quattro tesi [...] essenziali a una teoria [...] dei diritti fondamentali [...] e della democrazia costituzionale", mediante le quali Ferrajoli riduce la cittadinanza a mero paradigma escludente, auspicandone il superamento in termini cosmopolitici.

Solo allargando la discussione sul tema ai più diversi apporti critici si lavorerà "a riaprire teoricamente e praticamente il movimento costitutivo" della cittadinanza ed a farne a tutti gli effetti un'identità politica mobile e sempre costituenda (S. Mezzadra, Cittadinanza e immigrazione cit.).

Paola Persano