2011

G. Del Grande, Il mare di mezzo. Al tempo dei respingimenti, Infinito Edizioni, Roma 2010, 220 pp., ISBN 978-88-89602-72-0

Il mare di mezzo è il terzo libro di Gabriele Del Grande, fondatore di Fortress Europe, l'osservatorio sulle vittime dell'emigrazione verso l'Europa. Dal 2006, anno della sua fondazione, Fortress Europe raccoglie e pubblica le prove dei "crimini di pace" commessi contro chi cerca di aggirare le limitazioni alla libertà di movimento imposte dall'Europa. Crimini che dal 1988 a oggi hanno causato la morte di oltre 16.000 persone, per lo più giovani donne e uomini. Molte delle loro salme giacciono ancora sul fondo del Mediterraneo.

Del Grande è andato alla ricerca delle loro storie. Durante i tre anni di inchieste raccontate nel libro ha intervistato le famiglie dei migranti scomparsi, i compagni di viaggio sopravvissuti, i migranti detenuti nelle carceri nordafricane e nei centri di identificazione ed espulsione (CIE) italiani.

Molte storie e molti viaggi si intrecciano in questo libro: quelli dei giovani partiti per l'Europa e quelli dell'autore tra le due sponde del Mediterraneo. Dagli avvincenti racconti di questi viaggi emerge però anche una storia unitaria, un viaggio ideale attraverso le speranze e le difficoltà di chi cerca di "espugnare la fortezza Europa".

Emerge anzitutto il senso di impotenza e di frustrazione dei giovani che decidono di partire dall'Algeria, dalla Tunisia, dal Burkina Faso. Il desiderio di un futuro migliore, di mettersi alla prova, di mettere a frutto le proprie energie e capacità. Il bisogno di sfuggire alla morsa dell'apatia e dell'impotenza di fronte a una classe politica che "ruba il futuro", come dice il padre di uno dei ragazzi scomparsi. Ma tra i motivi che spingono i migranti a partire ci sono anche le repressioni del regime tunisino contro i sindacalisti e i lavoratori di Reydef, il servizio militare a tempo indeterminato cui sono costretti le giovani e i giovani eritrei, la guerra civile che da due decenni imperversa in Somalia.

Partire con un visto regolare, però, non è facile per nessuno: né per chi in Europa ha già una famiglia e magari un fratello con la nazionalità francese, né per chi in Europa ha già vissuto per più di un decennio, e nemmeno per coloro ai quali l'ONU ha già riconosciuto lo status di rifugiato politico. Anche per queste persone le frontiere delle fortezza Europa spesso rimangono chiuse.

Molti non si rassegnano e decidono di "bruciare la frontiera", come si dice in arabo, di partire aggirando restrizioni e controlli, senza aspettare un visto che probabilmente non arriverà mai. Bruciare la frontiera è, afferma uno dei padri dei ragazzi scomparsi, "un atto politico, di rottura con le restrizioni della libertà di circolazione imposte dall'Europa" e fatte proprie dai governi nordafricani. Un atto di rivolta spesso represso con feroce brutalità.

Le inchieste di Del Grande documentano l'affondamento di barche di migranti deliberatamente provocato dalla Guardia Costiera algerina e i depistaggi delle autorità tunisine per coprire le morti dei migranti arrestati vivi e rilasciati cadavere. Del Grande raccoglie le testimonianze delle torture e dei pestaggi nelle prigioni libiche di Gatrun, Ganfuda, Kufrah e Misratah. In esse vengono rinchiusi, talvolta per anni, i migranti rimpatriati dalle navi militari italiane o arrestati dalle autorità libiche mentre transitano sul loro territorio. Racconta dei trasporti dei migranti stipati a centinaia e per giorni in container di ferro, che richiamano sinistramente gli orrori della seconda guerra mondiale. E riporta le storie dei giovani eritrei detenuti nel carcere egiziano di Burg el Arab, o rimpatriati e costretti ai lavori forzati a Gel'alo, sul Mar Rosso.

I centri di detenzione e rimpatri sono finanziati dall'Unione Europea, che incoraggia e sostiene l'attività repressiva dei governi nordafricani. Ma forse l'Europa non sa della brutalità con cui le autorità nordafricane assecondano le richieste europee? Dal 2004, l'Italia organizza corsi di formazione per la polizia libica e i funzionari del ministero dell'Interno italiano hanno visitato i centri di detenzione libici. Lo stesso hanno fatto diverse delegazioni dell'Unione Europea. In tutti i casi, dopo le visite le delegazioni non hanno rilasciato dichiarazioni o si sono limitate a vaghi accenni alle difficili condizioni di detenzione. Difficile credere dunque che gli sponsor delle politiche di repressione dei governi nordafricani non sappiano della brutalità con cui essi trattano i migranti.

Anche perché pestaggi, torture e trattamenti crudeli non sono risparmiati ai migranti nemmeno dalle forze dell'ordine europee.

Ne sono esempi il trattamento che i militari italiani hanno inflitto ai migranti a bordo del pattugliatore Orione nel luglio 2009 durante un respingimento verso la Libia. I migranti, che protestavano per non essere consegnati alle autorità libiche, responsabili dei trasporti in container nel deserto e delle torture nei centri di detenzione, sono stati picchiati con manganelli che danno scariche elettriche. Esempio della brutalità delle autorità europee è anche la deliberata indifferenza delle autorità italiane e maltesi, che nonostante le segnalazioni ricevute, tra luglio e agosto 2009 hanno lasciato alla deriva per tre settimane una barca con a bordo migranti eritrei. Quando finalmente sono arrivati i soccorsi, solo 5 persone erano ancora vive. I loro compagni di viaggio, 77 persone, erano tutte morte.

Spesso a salvare la vita dei naufraghi sono i pescatori del Canale di Sicilia. Del Grande ha raccolto le loro testimonianze, anche quelle dei pescatori tunisini che nel 2007 sono stati arrestati e processati dal tribunale di Agrigento per aver soccorso 44 naufraghi. Nonostante i giudici abbiano infine riconosciuto che le accuse di favoreggiamento dell'immigrazione illegale fossero infondate, il danno economico per i pescatori dovuto al tempo passato in carcere, al sequestro dei pescherecci e il ritiro delle licenze di pesca è stato enorme. Poco importa che il comandante di uno dei pescherecci coinvolti sostenga che, se tornasse indietro, non esiterebbe a soccorrere nuovamente i naufragi. La loro vicenda è servita da monito ai pescatori del Canale di Sicilia. Alcuni, infatti, da quel momento di fronte ai gommoni alla deriva hanno iniziato a voltarsi dall'altra parte.

Per coloro che sopravvivono alla traversata, l'odissea di violenza e incertezza non finisce una volta toccato il suolo europeo. Accade, infatti, che militari e polizia trattino con inaudita violenza i migranti detenuti nei CIE italiani: come è successo nel CIE di Lampedusa nel febbraio 2009 e in quelli di Gradisca d'Isonzo, Bari e Torino, dove nell'estate del 2009 diverse persone sono state picchiate e torturate.

Accade, inoltre, che l'espulsione arrivi dopo decenni di permanenza sul suolo europeo, anni in cui i migranti si sono stabiliti, hanno formato una famiglia e avuto dei bambini. E accade che l'espulsione arrivi dopo una richiesta di asilo rifiutata perché troppo verosimile. Sono le storie dei tanti "italiani tra virgolette" e degli esuli tunisini che avevano partecipato alle rivolte popolari di Reydef, e che vennero rimpatriati dall'Italia nel marzo 2009. All'arrivo all'aeroporto di Tunisi furono arrestati. Di loro non si è più saputo altro.

Il racconto di Del Grande, come già in Mamdou va a morire (Infinito Edizioni, 2007), è asciutto ma mai distaccato. Rispetto ai testimoni che intervista, l'autore ha sempre un atteggiamento empatico. Durante la visita del centro di detenzione libico di Misratah, Del Grande riesce a parlare con Goitom, un ragazzo detenuto nel centro da due anni. "Due anni. Pensavo ai miei ultimi due anni. A quante cose avevo fatto. Ai miei viaggi. Ai miei amori. Ai miei sogni. Alle mie lotte. Due anni erano lunghi. Soprattutto per qualcuno come me e come Goitom, che non aveva ancora compiuto trent'anni. E per una ragazza incinta quanto potevano essere lunghi due anni? E per un bambino appena nato? E per un marito? E per un padre? Quanto tempo duravano due anni?". Del Grande nei migranti vede ragazzi come lui, che vogliono prendere in mano le loro vite, migliorare la propria condizione, essere protagonisti della storia e non subirla. Persone che talvolta hanno anche provato a cambiare la condizione dei loro paesi e proprio per questo sono costretti a fuggire. Non sono poveracci, non sono affamati, non sono disperati, non sono persone da commiserare e a cui elemosinare semmai un po' di benessere e modernità. Sono persone che hanno deciso di ribellarsi alla mala gestione dei loro paesi, all'oppressione politica, alle assurde restrizioni imposte dall'Europa.

Nonostante l'atteggiamento empatico, Del Grande non accetta acriticamente le notizie e i racconti che gli vengono proposti. Le informazioni sono sempre verificate, le fonti accertate. E alle autorità viene sempre chiesta la loro versione dei fatti.

Il mare di mezzo è un libro potente, la cui forza sta nella semplicità delle domande e del progetto che lo muove. Che cosa fare di fronte alle notizie dei naufragi, alle immagini degli sbarchi, alle notizie delle rivolte nei CIE e agli improbabili allarmi da imminente invasione proposti dai politici e ritrasmessi dalla maggior parte dei media? Andare a veder con i propri occhi e sentire con le proprie orecchie le storie di chi quei viaggi li ha fatti. Una risposta tanto ovvia che ci si aspetterebbe fosse fatta propria da molti più giornalisti.

Una risposta ovvia e apparentemente innocua che però ha destato l'interesse dei servizi segreti tunisini, con tanto di pedinamenti e divieto di ingresso nel paese per cinque anni. Un raro caso in cui le frontiere sono serrate in entrambe le direzioni.

Il mare di mezzo offre anche elementi per comprendere le recenti rivoluzioni in Nord Africa. Esso racconta infatti il volto repressivo della dittatura tunisina, ma anche delle resistenze all'opera da anni e che lette ora aiutano a capire da dove arrivi il terremoto che l'ha travolta. Ma il libro di Del Grande suscita anche radicali interrogativi sul funzionamento dello stato di diritto in Italia. Uno stato in cui la violenza istituzionale rimane impunita, e in cui chi cerca di far luce su quel che accade dietro le mura dei CIE deve fare i conti con una visita della Digos.

Elisa Orrù