2005

D. Ludden (ed.), Reading Subaltern Studies. Critical History, Contested Meaning and Globalization of South Asia, Anthem South Asian Studies, London 2002, pp. 442, ISBN 1843310589

L'interesse in Italia verso i Subaltern Studies è appena iniziato: grazie alla cura di Sandro Mezzadra è stata pubblicata una selezione di saggi prodotti all'interno di questa scuola (Ranajit Guha, Gayatri Chakravorty Spivak, Subaltern Studies. Modernità e (post)colonialismo, Ombre Corte, Verona 2002), sono apparse alcune recensioni su riviste e giornali, sparuti saggi che alludono all'argomento e poco altro. Ma nonostante sia ancora scarso il materiale scritto o tradotto in Italia, la fama di questa corrente di studi comincia a circolare. Chiunque, infatti, frequenti la letteratura anglofona e latino-americana in materia di post-colonialismo, cultural studies, critica all'orientalismo, storia dal basso, studi d'area dedicati all'Asia meridionale contemporanea, studi sulle evoluzioni del marxismo nell'ultimo trentennio, sulla critica politica all'elitismo e di sociologia della rappresentazione difficilmente non incontrerà qualche riferimento al lavoro degli studiosi della subalternità.

In questa fase di iniziale ricezione, il testo curato da Ludden costituisce uno strumento di estremo valore. Si tratta, infatti, del primo studio diacronico realizzato da autori esterni al gruppo. Esso fornisce un quadro complessivo, critico e documentato dei subaltern studies e del dibattito mondiale da questi generato nelle varie discipline, dando risalto ai fattori di evoluzione endogeni ed esogeni, alla ricezione in ambito indiano e mondiale, nonché ai limiti rilevati e alle contestazioni avanzate. L'introduzione storica del curatore stabilisce la cornice dell'opera, mentre gli scritti successivi, oltre al loro contributo d'analisi, sono in se stessi documenti delle reazioni suscitate dai subaltern studies nei vari momenti del loro sviluppo, dentro e fuori i confini dell'India. Per tanto, per capire il senso dell'intero volume, è necessario ripercorrere sinteticamente le tappe fondamentali della narrazione di Ludden.

Il curatore apre il suo saggio introduttivo sostenendo la tesi della fluidità dei tratti identitari del collettivo di studiosi della subalternità: la loro fisionomia di gruppo si sarebbe modellata nel corso del tempo, spesso non solo in vista di scelte compiute al loro interno, ma in buona parte in relazione a fattori esterni. Gli eventi storici, gli incontri intellettuali, le letture del loro lavoro proposte da osservatori estranei, la migrazione trasformativa - presso nuovi ambiti di studio e in luoghi diversi dall'India - dei concetti e delle terminologie da loro primariamente impiegati, tutto questo avrebbe condizionato e orientato gli sviluppi dei subaltern studies. Questa malleabilità sarebbe spiegata, poi, anche dal fatto che il gruppo iniziale si fosse sentito coeso più da un rapporto di collaborazione personale che da un intento preciso e compiuto, dal condividere una stessa direzione dello sguardo più che una medesima meta. In questo percorso di formazione identitaria, nota Ludden, la metà degli anni '80 fu un momento cruciale. Fin dal 1982, Subaltern Studies. Writings on South Asian History and Society, una pubblicazione collettiva con cadenza quasi annuale, era stata il polo aggregante del consorzio di studiosi e l'organo di diffusione delle loro ricerche (che però avevano avuto inizio già negli anni precedenti). I primi quattro volumi ('82-'86) avevano ospitato ben 20 saggi concernenti le lotte dei contadini, dei lavoratori e dei tribali; i successivi sei volumi ('87-'99) dedicarono allo stesso argomento solo cinque articoli. Ludden commenta così questo dato: «After 1986, the substance of subalternity remained fluid and mixed, but it contained much less material drawn from struggles waged by particular subaltern groups in colonial India and much more literary evidence concerning colonial constructions of culture and power» (p. 18).

Ed effettivamente, il 1986 è il crinale di una svolta, dovuta alla confluenza di molteplici fattori. L'analisi si sposta dall'azione di rivolta dei subalterni allo scontro tra culture ineguali: quella imperialista e modernizzante dei colonizzatori contro quella fragile e indigena dei colonizzati. Inoltre, l'ingresso di Bernard S. Cohn e Gayatri Chakravorty Spivak nel principale organo di pubblicazione dei subalternists, contribuisce ulteriormente allo slittamento tematico; questi autori, infatti, introducono l'approccio foucoltiano, quello decostruzionista e le problematiche di genere, iniziando a mettere in secondo piano il taglio gramsciano e thomsoniano che aveva contraddistinto le prime pubblicazioni.

A ben guardare si può evincere un aspetto più profondo e delicato di questa trasformazione. Agli inizi, i subaltern studies si erano distinti dalle altre scuole storiografiche indiane poiché avevano evidenziato lo scarto tra storia popolare e storia nazionale, mostrando come le rivolte degli strati più bassi della popolazione fossero spesso totalmente autonome dagli intenti indipendentisti. Ora invece «Subalterns in India became fragments of a nation; their identity and consciousness reflected India's colonial subjugation» (p. 19). Così, l'attenzione devoluta allo scontro tra culture sembra appiattire la tensione tra soggetti sociali interni alla popolazione indigena.

Oltre che per questa variazione nel focus della ricerca, il 1986 fu un anno significativo per i subaltern studies poiché cominciarono a riscuotere interesse oltre i confini dell'India. Rosalind O'Hanlon introdusse il loro lavoro in un seminario sulla cultura popolare, tenutosi a Cambridge. Da quel momento il collettivo indiano divenne un riferimento importante per quel settore di ricerca dell'accademia britannica. Nel 1988, la stessa O'Hanlon firmò il primo articolo sui subaltern studies pubblicato fuori dall'India, che venne ospitato da una prestigiosa rivista della Cambridge School, "Modern Asian Studies". Aspetto rilevante di questa pubblicazione fu il fatto che gli storici della subalternità vennero identificati come parte dei post-colonial studies. Nello stesso anno Edward Said presentò al pubblico mondiale il lavoro dei subalternists, introducendone un fortunato volume antologico (Ranajit Guha, Gayatri Chakravorty Spivak (eds.), Selected Subaltern Studies, Oxford University Press, Delhi).

Ma il vero boom di popolarità avvenne nel 1993, quando Ranajit Guha - il membro più anziano e rappresentativo del collettivo - si legò al progetto culturale di critica al colonialismo promosso da Bernard S. Cohn. L'adesione a questa impresa intellettuale veniva avvertita dai suoi fautori come una lotta effettiva contro la modernità coloniale per assicurare un miglior futuro al popolo dei subalterni, imparando ad ascoltarli, permettendogli di parlare, rievocando il potere che li ha marginalizzati e documentando il loro passato.

Questo sforzo critico investì non solo i contenuti della storia coloniale, ma anche la metodologia della ricerca storiografica. Infatti, la ricostruzione del passato dei subalterni, non potendo contare sullo stesso genere di fonti e sul medesimo approccio ai documenti della storia ufficiale, deve necessariamente passare da un criticismo testuale, usufruire di testimonianze frammentarie, orali e vernacole, destreggiarsi con un tempo non sempre lineare, investito di simboli e costellato di momenti vacanti. Ovviamente, sorge il problema se una storia con tali difficoltà di reperimento e interpretazione delle fonti possa costituire una registrazione autorevole del passato, se dunque le élite alla fine non abbiano davvero avuto la meglio nel cancellare le tracce del passaggio dei subalterni, impedendo definitivamente la scrittura di una storia degli ultimi.

Nonostante le difficoltà e le polemiche, dagli anni '90 fino ad oggi, i subaltern studies hanno visto accrescere la loro fama, incrementare le vendite delle loro pubblicazioni e soprattutto studiosi dei più disparati ambiti di ricerca hanno manifestato l'intenzione di traghettare questo genere di studi nei loro rispettivi campi d'indagine e specialisti di diverse aree geografiche hanno iniziato a produrre altrettante storie locali dei subalterni. Gli studi della subalternità sono diventati così un progetto interdisciplinare e interculturale.

Dato questo spaccato storico, il curatore lascia la parola agli altri autori, raggruppati in tre diverse sezioni. La prima parte raccoglie gli scritti che attestano il modo in cui il consorzio di storici venne accolto in patria: è riportata una nutrita collezione di recensioni ai primi tre volumi della serie, apparse nei periodici del tempo, e due interessanti articoli, di R. Das Gupta e di B.B. Chauduri, che si soffermano sulla specificità del gruppo dei subalternists rispetto alla restante storiografia nazionale.

La seconda parte attesta il processo di assimilazione dei subaltern studies nell'accademia mondiale, il che, come abbiamo visto, ha comportato tanto un inquadramento nelle categorie date, quanto un'espansione dei campi di applicazione. All'interno di questa sezione, sono riportati: il saggio della O'Hanlon, di cui abbiamo parlato; il contributo di J. Masselos che rivolge pesanti critiche alla scuola indiana, identificata come un ramo della storiografia marxista; gli articoli di K. Sivaramakrishnan e di F. Cooper che si ripromettono di estendere gli studi della subalternità, il primo alla ricerca antropologica e il secondo alla storia coloniale dell'Africa; e, poi, uno scritto di H. Schwarz di metodologia storiografica.

La terza parte, raccoglie nuovamente autori dell'accademia indiana, successivi alla svolta dell'86. I tre contributi, accomunati dal carattere critico, comprendono gli articoli di K. Balagopal, V. Bahl e S. Sarkar. Quest'ultimo saggio (The Decline of Subaltern in Subaltern Studies) è particolarmente noto e significativo poiché segna l'uscita del suo autore dal gruppo dei subalternists, con l'accusa che i compagni, con cui aveva condiviso il progetto iniziale, si erano progressivamente distaccati dall'interessamento verso gli oppressi, dandosi alle mode dell'accademia internazionale e dimenticando anche l'imperativo del rigore storico.

Due estese appendici bibliografiche fanno seguito alle sezioni saggistiche. Conclusa la descrizione dell'impianto dell'opera, vale la pena ricordare l'augurio di Ludden, affinché il testo da lui curato possa essere non solo un ausilio alla comprensione di questo interessante fenomeno culturale, ma anche uno stimolo ad approntarne letture nuove e diversificate, oltre il bacino di discorsi nei quali sono stati inclusi e, talvolta, rinchiusi gli studi della subalternità: «We could expect Subaltern Studies to attain authority as an authentic voice of post-colonial East in self-consciously Western academic localities. In years to come, we can expect a continued profusion of reading disparities in diverging local circumstances» (pp. 27-28).

Clelia Bartoli