2005

S. Žižek, Tredici volte Lenin, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 168

Mentre Marx è oggetto di rinnovate attenzioni e inedite riscoperte, Lenin - rappresentante di ogni fallimentare possibilità di tradurre in pratica la teoria dell'uomo di Treviri - è abbandonato nell'oblio. È proprio dal tentativo di bucare l'immagine troppo convenzionale e semplicistica del leader russo che prende le mosse l'ultima coraggiosa fatica di Slavoj Žižek, il cui sottotitolo recita programmaticamente Per sovvertire il fallimento del presente. Il libro non è una rilettura completa dell'opera e dell'azione di Lenin, né un invito ad un ritorno alla sua prassi politica. Al contrario, «ripetere Lenin significa accettare che 'Lenin è morto', che la soluzione specifica da lui indicata ha fallito, anche in modo mostruoso, ma che dentro c'era una scintilla utopica che vale la pena di tenere accesa. [...] Non vuol dire ripetere ciò che Lenin ha fatto, ma ripetere i suoi tentativi mancati, le sue possibilità perdute» (p. 167).

Per farlo, Žižek ci guida in un complesso e a volte tortuoso percorso di tredici (da cui il titolo) capitoli, non necessariamente conseguenti e lineari. L'a. critica altre rivalutazioni del dirigente bolscevico: ad esempio quella operata da Alain Badiou, basata su un appello alla "pura politica" più giacobina che marxista e sulla conseguente degradazione della sfera economica. Incurante di possibili accuse di economicismo, il teorico sloveno evidenzia anzi la necessità di una riaffermazione della critica dell'economia politica di Marx. D'altro canto, Žižek diffida dell'immagine di un mondo postpolitico, in cui all'amministrazione delle persone subentra l'amministrazione delle cose; è ciò che conduce all'espertocrazia e al determinismo tecnologico. Sta invece nella politica della verità ciò che rende attuale Lenin: non la verità imparziale, ma al contrario una verità che può essere articolata solo da una posizione profondamente di parte. Il partito leninista (come quello del Brecht de La linea di condotta) non è dunque portatore di una conoscenza oggettiva, ma della verità partigiana di un soggetto politico direttamente coinvolto nell'azione. Non dunque la Scienza infusa da intellettuali al di fuori della lotta di classe - come nel modello di Kautskij -, ma una coscienza portata dall'esterno da intellettuali estranei alla lotta economica ma non alla lotta di classe. È la deterministica attesa delle condizioni giuste il principale ostacolo per la rivoluzione. Con audace parallelismo, l'a. ci conduce a Lacan, secondo cui l'atteggiamento umano spontaneo non è affamato di conoscenza, anzi è connotato dal "non ne voglio saper nulla". Perciò, compito dello psicanalista - similmente al partito - non è di portare in superficie una tendenza nascosta, ma invece procedere contro natura. È questo "diritto alla verità" che Žižek contrappone al multiculturalismo democratico e alla tolleranza liberal, in cui tutto è permesso, purché sia compatibile. È ciò che l'a. chiama l'attivismo dell'interpassività, ossia fare cose non per raggiungere un obiettivo ma per evitare che qualcosa cambi sul serio. È come al solito pregnante e in questi tempi nient'affatto scontata la critica di Žižek della democrazia (senza aggettivi, con buona pace di Habermas), ontologicamente segnata dall'inestricabile connubio con la proprietà privata. In alcuni casi, come quello dei postcolonial studies, il teorico sloveno non pare sempre attento alle ambivalenze e alla diversità di prospettive che percorrono questa corrente.

Un anticapitalismo radicale deve anche mettere in discussione l'ipotesi (coltivata dallo stesso Marx) del comunismo come definitivo sprigionarsi delle forze produttive che il vigente sistema ha saputo mettere in moto e che, per sua stessa natura, continua ad ostacolare (il capitale come limite a se stesso). Eliminato infatti l'ostacolo - il capitale -, non finisce proprio per dissolversi il potenziale bloccato da quell'ostacolo e il suo stesso desiderio - il libero sviluppo delle forze produttive?

L'evento leninista trae dalla catastrofe la possibilità di tradurre la potenza in atto, di articolare la verità appunto, scavalcando la nomenclatura del suo partito e trovando al suo appello un'eco nella micropolitica rivoluzionaria che agitava la società russa in quella fase. Non certo seguendo alla lettera Marx, anzi forse riuscì nel suo tentativo proprio in quanto non capì del tutto l'autore de Il capitale. O meglio, il leader bolscevico ha "formalizzato" Marx, ossia l'ha tradotto in possibilità concreta di intervento attraverso il partito come forma politica. Per Žižek la forma non è la cornice neutra, ma - in senso dialettico - il principio che concretizza, «lo 'strano fattore di attrazione' che distorce, pregiudica e conferisce uno specifico colore a ogni elemento della totalità» (p. 37). Rendendo impraticabile il formalismo, tale nozione di forma «rappresenta il nucleo traumatico del Reale, l'antagonismo che 'colora' l'intero campo in questione» (p. 37).

Da più angoli prospettici Žižek mette in evidenza la dirimente differenza tra materialismo e idealismo, da cui non è immune lo stesso Lenin di Materialismo e empiriocentrismo - testo, sia detto en passant, di non precipuo valore teorico, che rispondeva soprattutto a necessità immediate di battaglia politica contro un altro bolscevico, Bogdanov. È proprio tra materialismo e idealismo che oscilla il pensiero di Kant, tra l'affermazione dell'inesistenza del mondo come totalità e la rivendicazione di un dominio altro (noumenico) della libertà che va oltre i fenomeni. La figura ultima di tale differenza, suggerisce l'a., è forse quella che scaturisce dallo scarto tra due concezioni del Reale: «La religione è il Reale in quanto Cosa impossibile al di là dei fenomeni, la Cosa che 'risplende attraverso' i fenomeni in esperienze sublimi; l'ateismo è il Reale come effetto derisorio, beffa della realtà, solo in quanto Scarto, come principio di incongruenza della realtà» (p. 156). Il materialismo ha origine dall'esperienza del Vuoto della realtà, che l'idealismo cerca di riempire attraverso un contenuto religioso. Tale spostamento, secondo Žižek, rispecchia quello che porta da Kant ad Hegel, «dalla tensione tra il fenomeno e la Cosa in sé (il noumeno) alla discrepanza e allo scarto tra i fenomeni stessi» (p. 157). In questo percorso il limite è portato dall'esterno all'interno: la Realtà esiste in quanto il Concetto è discrepante, non coincide con se stesso.

Gli esiti catastrofici della "passione del Reale" (secondo Badiou tratto distintivo del XX secolo), potrebbero indurre a posizione conservatrici, al ritorno alle apparenze. Non certo per Žižek, che ne mette invece in evidenza le due facce: quella della purificazione, che tenta di isolare il nocciolo duro del Reale attraverso la scarnificazione - l'esperimento stalinista di forgiare l'uomo nuovo -, e quella della sottrazione, che parte dalla consapevolezza del Vuoto, cercando di «stabilire una differenza minima tra questo Vuoto e un elemento che agisca come suo sostituto, come ciò che 'sta per'» (p. 147). La politica si configura quindi come un cortocircuito tra universale e particolare, con l'identificazione della "parte che non ha parte" con l'intero, l'azione che destabilizza l'ordine della realtà sociale, ne svela la non naturalità, il carattere di pura apparenza. In un affascinante volo dal Merlau-Ponty di Umanesimo e terrore all'hollywoodiano Fight Club, Žižek arriva ad indicare la rottura rivoluzionaria in un'irripetibile sospensione della temporalità, in un'utopia messa in atto attraverso un cortocircuito tra presente e futuro: non un sacrificio per una lontana promessa di libertà, ma l'azione come se il futuro utopico, pur non realizzato, vivesse già nel qui e ora.

Per ripetere la politica di purificazione nella forma di una politica di sottrazione, è secondo l'a. il significante Lenin che mantiene per intero la sua presa sovversiva sull'oggi. In ciò è rafforzato persino dai tentativi di rimozione di un presente che, nel tentativo di far apparire Lenin "fuori tempo", conducono Žižek ad un'ultima provocatoria domanda: e se fosse invece il nostro tempo postmoderno ad essere "fuori tempo"?

Gigi Roggero