2008

B. de Las Casas, J.G. de Sepúlveda, La controversia sugli indios, a cura e con introduzione di Saverio di Liso, Edizioni di pagina, Bari 2006, pp. 245, ISBN 978-88-7470-039-4

Il dibattito sulla conquista dell'America ebbe il suo culmine nella famosa disputa di Valladolid del 1550-51. L'imperatore Carlo V, tormentato dai dubbi di coscienza circa la legittimità dell'impresa ultramarina, dubbi ai quali non era estranea la pressione costante del Vescovo del Chiapas, il frate domenicano Bartolomé de Las Casas, che godeva di un grande prestigio presso la corte, decise di convocare un'ennesima junta di teologi e giuristi per risolvere "definitivamente" la questione.

A Valladolid si riunirono i principali teologi e giuristi dell'epoca per ascoltare le ragioni delle due parti in disputa, rappresentate da un lato da Juan Ginés de Sepúlveda, apologeta dei conquistadores, e dall'altro da Bartolomé de Las Casas difensore delle ragioni degli indigeni. Non era ancora risuonato il monito di Alberico Gentili, tanto caro a Carl Schmitt, silete theologi in munere alieno e ai teologi-giuristi era demandata una importante funzione di legittimazione dell'impresa ultramarina.

Saverio di Liso ci presenta in questo volume alcuni dei documenti più salienti della controversia, tradotti per la prima volta in italiano, assieme ai testi originali in castigliano o latino, corredati da un'introduzione molto dettagliata, chiara e documentata sui temi, i documenti e i protagonisti della controversia.

Fra i testi riportati spicca per la sua importanza il Sumario di Domingo De Soto, all'epoca successore di Francisco Vitoria nella cattedra di Prima Teologia a Salamanca. Il sumario fu scritto su richiesta dei membri della junta e pubblicato da Las Casas nel 1552 assieme agli altri trattati sulla questione indiana (p. 75). Si tratta di una sintesi dei principali argomenti presentati dai due contendenti durante il dibattito, redatta in modo dettagliato ed equilibrato. Nelle pagine iniziali sono presentati i 4 argomenti di Sepúlveda, mentre la grande parte del trattato è dedicata alla replica di Las Casas. I 4 argomenti sono, in verità, quattro motivi di guerra giusta: i peccati contro natura che questi popoli commettevano, come i sacrifici umani, il cannibalismo, l'idolatria e la sodomia; lo stato di servitù naturale e di inferiorità nel quale gli indios si trovavano, che giustificava la loro sottomissione; la necessità dell'evangelizzazione che richiedeva una previa sottomissione violenta degli indigeni per permettere l'annuncio dell'evangelo; la difesa delle vittime innocenti dei sacrifici umani e di altre pratiche contrarie al diritto naturale e al diritto delle genti. Utilizzando un linguaggio moderno, saremmo tentati di definirli quattro buoni motivi di "intervento umanitario", che potrebbero essere sottoscritti dai neo conservatori occidentali. Basterebbe sostituire "predicazione del vangelo ai popoli infedeli e barbari", con "esportazione della democrazia a civiltà inferiori". Con Sepúlveda ha inizio la lunga storia di giustificazioni ideologiche dell'espansione europea e dell'assoggettamento del mondo.

In risposta, Las Casas lesse durante 5 giorni consecutivi la sua Apologia in latino nella quale manifestava il suo totale dissenso dalle posizioni di Sepúlveda, ma anche rispetto al maestro di Salamanca Francisco de Vitoria. Las Casas operò una vera "descostruzione" della teoria aristotelica della schiavitù naturale e della naturale barbarie degli indigeni, sostituendola con una giustificazione dei costumi "barbari" fondata su una distinzione raffinata fra quattro tipi di barbarie, considerata oggi (per esempio da Anthony Pagden e Tvetan Todorov) uno dei primi esempi di antropologia culturale comparata della storia moderna. Si dichiarò inoltre contrario all'uso della violenza e della forza come metodo di evangelizzazione e considerò illegittime tutte le guerre condotte dagli spagnoli anche quelle per salvare vittime innocenti o per vendicare i peccati contro natura. Non solo, ma fu l'unico a considerare legittime e giuste le guerre difensive degli indigeni contro le aggressioni e le atrocità dei conquistadores. Nonostante l'apparente neutralità, Domingo de Soto dimostra di accogliere con approvazione e simpatia la maggior parte delle tesi del frate domenicano, (distanziandosi solo da quelle più radicali, come osserva opportunamente Di Liso, p. 58), il che conferma l'affermazione di Las Casas che la sua dottrina, sebbene non elaborata da un dottore in teologia, era conosciuta, dibattuta e approvata dai maggior teologi e giuristi del tempo. La controprova di ciò fu il parere negativo alla pubblicazione del Democrates Secundusdi Sepúlveda da parte delle Università di Salamanca e di Alcalá di Henares.

L'altro documento famoso è la Bolla pontificia Veritas Ipsa del 1537 di Paolo III, nella quale, anche se tardivamente e su pressione dei missionari domenicani, il Papa per la prima volta afferma la piena umanità degli indios e proibisce la loro riduzione in schiavitù: "deliberiamo e dichiariamo che i predetti indios e tutte le altre popolazioni che potranno essere scoperte dai cristiani, sebbene si trovino al di fuori della fede cristiana, possano valersi della loro libertà ed esercitare il dominio sulle cose proprie [...] né devono essere ridotti in schiavitù." (p. 139). Las Casas utilizzerà ampiamente questa bolla nei suoi trattati a sostegno delle sue tesi di evangelizzazione pacifica. L'intervento di Paolo III è però un'eccezione nella dottrina pontificia sul tema, se pensiamo che solo pochi anni prima, nel 1529, il papa Clemente VII con la Bolla Inter arcana aveva ripreso la famosa e famigerata teoria agostiniana del compelle entrare, tanto utilizzata da Sepúlveda, affermando letteralmente: "Confidiamo in te [Re di Spagna] affinché conduca le nazioni barbare alla conoscenza del Dio autore e creatore di tutte le cose, non solo con discorsi e ammonimenti, ma anche con le armi e la forza (se necessario) affinché le loro anime siano obbligate a far parte del regno celeste".

Il successivo documento è una lettera di Las Casas del 1549 a Domingo de Soto, che all'epoca svolgeva le funzioni di confessore di Carlo V, perché "persuadesse l'Imperatore a porre rimedio al governo delle Indie". È uno degli innumerevoli testi scritti da Las Casas alle autorità civili ed ecclesiastiche del tempo, che mostrano il lavoro incessante che il frate svolgeva presso la Corte e il Papato: saremmo tentati di dire un vero e proprio lavoro di lobbying che ebbe risultati importanti sul piano legislativo, come la promulgazione delle Leyes Nuevas del 1543, che limitavano fortemente la encomienda, ma poca incidenza sul piano pratico. A questo proposito ci sia permessa una divergenza dalla interpretazione della "legislazione indiana" proposta da Saverio di Liso. Scrive infatti il nostro autore, a proposito della efficacia pratica delle posizioni di Las Casas che: "Bisogna attendere le Ordenanzas di Pacificación (1573) di Filippo II per poter riscontrare un risultato di un certo rilievo nella lenta e difficoltosa attuazione delle riforme ecclesiastiche, sociali e politiche intraprese durante al seconda metà del Cinquecento. Le Ordenanzas del Rey, in effetti, sospendono in modo definitivo, attuando lo spirito delle richieste lascasiane, ogni guerra di conquista e favoriscono un sistema di accordi pacifici, anzi proibiscono di utilizzare la stessa parola conquista, preferendovi pacificación e población" (p. 65). Se non ci facciamo ingannare dalle parole nuove, ci sembra, al contrario, che le Ordenanzas non realizzino le proposte lascasiana, ma chiudano definitivamente non solo la possibilità del dibattito pubblico sulle cose delle Indie (che viene proibito dal Re) ma chiudano anche la possibilità di riforme. La conquista, o come viene chiamata, la pacificación, legittima e giustifica lo status quo imposto dai grandi encomenderos e si chiudono le possibilità di un cambiamento reale nelle strutture sociali fondamentali della Conquista ormai consolidate. Su quelle fondamenta si innesterà il lungo processo di colonizzazione che porterà con sé la marca della violenza dei suoi tragici inizi fino ai nostri giorni.

Nel successivo documento, una lettera di Sepúlveda a Martin de Oliva (1551), suo amico e inquisitore, il retore di Cordova si vanta di essere stato il vincitore della contesa, concludendo che "tutti furono concordi nell'accettare come prova convincente quella per la quale 'siamo obbligati a impedire il culto idolatrico e a sorvegliare per l'osservanza della legge naturale' " (p.157). Il che è smentito però dal documento successivo, una lettera del 1554 indirizzata da alcuni membri del Consejo de Indias al Re Filippo II, nella quale si fa riferimento ai risultati della disputa di Valladolid in questi termini: "Nella commissione che Sua Maestà ordinò di tenere nell'anno 1550 in questa città di Valladolid, formata da persone dotte e religiose e da membri dei suoi Consigli [si deliberò] che le suddette conquiste fossero ritenute pericolose per la coscienza di sua Maestà, a motivo di molte cause e ragioni che in quella sede furono discusse, e principalmente per la difficoltà di poter perdonare i danni e i gravi peccati che si fanno in tali conquiste". Il documento è significativo perché non ci sono pervenuti tutti i pareceres dei membri della junta e nemmeno sappiamo se ci siano state delle conclusioni. Questa lettera, di poco posteriore al dibattito, sembrerebbe dar ragione a Las Casas, il quale aveva sempre vantato la vittoria nel dibattito, infatti i riferimenti ai "danni e ai peccati" sono di chiara ispirazione lascasiana.

Di Liso, dopo aver presentato i principali temi, documenti e protagonisti del dibattito, propone alcune chiavi di lettura. Una di esse è la relazione fra l'etica dell'intenzione e l'etica della responsabilità (p. 66); relazione resa più tesa perché a quel tempo ne andava di mezzo la "salvezza eterna dell'anima" di tutti i protagonisti, inclusi i sovrani. Di Liso ci presenta la figura drammatica di un Carlo V dilacerato fra l'etica dei principi, rappresentata da Las Casas e quella della responsabilità, invocata da Sepúlveda e dai conquistadores. Scrive: "Las Casas incarna la coscienza profetica, in grado di scuotere i potenti e di farsi voce del diritto degli oppressi alla giustizia" (p. 66), Carlo V invece "addita la drammatica distanza che intercorre tra etica delle intenzioni e etica della responsabilità, tra giustizia ideale e ragion di Stato" (p. 66). Pur rispettando questa chiave di lettura, che contrappone weberianamente il profetismo politico di Las Casas al realismo politico di Carlo V, ci permettiamo di osservare che essa ci appare riduttiva. Las Casas, infatti, non si limitò alla denuncia profetica del dixi et salvavi animam meam, ma cercò con tutti i mezzi di ottenere dei risultati pratici che ponessero fine alla destrucción de las Indias¸ e indicassero dei cammini alternativi.

Las Casas sapeva che, al di là dei dubbi di coscienza, Carlo V e poi soprattutto Filippo II, erano interessati all'oro, all'argento, alle spezie e alle tasse provenienti dalle Indie, senza le quali non avrebbero potuto finanziare le loro imprese nel teatro europeo. Per questo il Vescovo del Chiapas promette al sovrano una somma di tributi superiore a quella dei conquistadores e encomenderos, nel caso in cui il sovrano avesse garantito la ricostruzione del tessuto sociale e politico indigeno e con ciò la ripresa delle attività economiche, non più in un contesto di schiavitù ma di autonomia di quelli che "formalmente" fin dai tempi della regina Isabella erano "liberi sudditi di sua maestà".

Di Liso riassume in modo sintetico ma efficace le posizioni di Las Casas come appaiono nel Sumario e soprattutto nella Apologia: "[quello di Las Casas] è un pensiero davvero radicale che tende ad affermare, per un verso, la eguaglianza naturale di tutti gli uomini e di tutti i popoli e l'unità del genere umano e, per un altro verso, la libertà (civile, economica, culturale, religiosa e politica) e la piena sovranità delle comunidades e dei "regni" indigeni all'interno di una organizzazione federativa e sopranazionale." (p. 64). Di questa Federazione il potere temporale ultimo sarebbe stato depositato nelle mani dell'Imperatore, sovrano e garante della libertà dei suoi sudditi; e il potere spirituale sarebbe rimasto nella mani del pontefice, però "nel quadro di una teocrazia pontifica radicalmente svuotata di poteri temporali e riconvertita alle pure esigenze evangeliche, che garantisca la libertà di coscienza, di religione e di culto degli indios, anche di fronte ai predicatori e alla Chiesa evangelizzatrice". (p. 65). Un progetto ancora, per certi versi, "arcaico", vincolato alle due massime autorità medievali ormai definitivamente in crisi, rispetto alle più moderne proposte di Francisco de Vitoria, sullo jus peregrinandi et degendi, e sullo jus commercii, il quale aveva chiaramente percepito gli indizi del nuovo sistema mercantile e capitalista in movimento.

Un disegno chiaramente utopico, anche se condotto con molta abilità diplomatica e con argomenti convincenti che ebbero presa sul Re, in un momento in cui negli ambienti della corte si vagheggiava una nuova Monarchia Universalis, ma si tratta anche di una alternativa possibile alla destrucción de las Indias. É il "massimo di coscienza possibile" nel riconoscimento della reciprocità e della alterità, come ha scritto, utilizzando un linguaggio luckacsiano, il filosofo della liberazione Enrique Dussel. Se, come afferma Todorov, "la scoperta dell'America è l'incontro più straordinario della nostra storia", la comprensione che Las Casas ha di questo incontro è certamente fra le più straordinarie della nostra storia. In essa si manifesta uno dei punti più alti della "scoperta che l'io fa dell'altro", che solo tardivamente sarà raggiunto nei tempi moderni e contemporanei: infatti la teoria, tanto combattuta da Las Casas, della superiorità di una civiltà sulle altre non farà che consolidarsi nei secoli seguenti, attraverso le varie forme di eurocentrismo, alimentate dall'ideologia del progresso, dal razzismo, fino alle attuali teorie dello sviluppo economico, che accompagnano il lungo processo, che inizia proprio qui, attraverso il quale la storia d'Europa tende a identificarsi con la Storia del mondo.

Che l'utopia di Las Casas fosse possibile è testimoniato dall'esperienza storica delle reducciones e misiones gesuitiche che, nei due secoli successivi, tentarono di realizzare in grande scala le proposte di evangelizzazione pacifica di Las Casas. Un progetto polemico che permette varie letture, ma che indubbiamente proponeva un'alternativa pratica alla distruzione dei popoli indigeni e che fu percepito come una seria minaccia dalla classe dominante dell'epoca, tanto ecclesiastica come civile, e fu duramene represso nel sangue.

Sono queste ed altre possibili le riflessioni che ci vengono dalla lettura dello stimolante libro di Saverio di Liso e che ci convincono sempre di più della necessità di conoscere meglio altri documenti essenziali di questo dibattito avvenuto 500 anni fa, ma che purtroppo è ancora attuale.

Giuseppe Tosi