2005

P. Joyce, The rule of freedom, Verso, London - New York 2003, pp. 276, ISBN 1 85984 520 7

La globalizzazione è fenomeno complesso, spesso ridotto ai soli flussi transnazionali economici e di potere, come se fosse una sorta di notte mondiale in cui tutte le vacche sono nere. Diversi studi ne avevano analizzato la complessità e la stratificazione, ma nessuno aveva cercato di ricostruirne il sistema, la ramificata rete territoriale di interessi, la sua materia. Si è quindi affermata un'immagine distorta del neoliberismo, secondo cui tra i territori e il livello-mondo non ci sarebbe alcuna mediazione: le imprese globalizzate piomberebbero sui territori per ripartirne con altrettanta velocità una volta esauriti i loro obiettivi di spoliazione. Non che questo non avvenga, ma una visione eccessivamente sbilanciata sullo scenario generale fa perdere di vista il tema essenziale del governo del territorio. La riproduzione dei rapporti di potere globali nasce e si può riprodurre mediante scelte di livello locale, con cui vengono gestite le comunità nei loro aspetti materiali e immateriali. Il libro di Joyce ci aiuta poiché ricostruisce e analizza, anche in termini storici, i sistemi di governo urbani. La città è il contesto in cui il liberismo cerca di attuare il suo disegno complessivo di società, governando il territorio in funzione della proiezione in uno scenario globale di commerci e scambi, acquisendo il mercato e la produzione uno status dialettico, immanente capacità trascendentale di negazione e superamento del dato in due direzioni: una orizzontale di organizzazione della città nelle sue funzioni vitali, l'altra verticale nel senso di una progressiva globale integrazione dei territori in un unica metropoli-mondo. Joyce mostra come il liberismo abbia definito modalità e regole di gestione dei territori consoni ai suoi obiettivi economici e politici. La libertà del liberismo è un disegno politico costruito mediante una tecnica stringente di governo in cui prassi e immaginario sono tutt'uno. Più che regime privativo della funzione di governo, il liberismo in realtà si rivela sovradeterminato da azioni di governo a tutti i livelli.

I presupposti dell'autore sono due: prendendo spunto da Foucault e da una vasta serie di studi sul governo delle metropoli, Joyce indaga la società urbana come complesso, senza distinguere tra fatti neutri esclusivamente amministrativi, fatti politici e fatti sociali. Il governo della città mostra come tra società, tecnica e politica non ci sia distinzione. Il governo è la gestione attiva del territorio per cui ogni cosa viene segnata politicamente, i servizi urbani (acquedotti, macelli, illuminazione pubblica, servizi sociali, ecc.), tanto quanto le istituzioni. Joyce ricostruisce la storia dell'illuminazione pubblica e della costruzione della rete viaria a Londra e Manchester a cavallo tra Ottocento e Novecento per mostrare come provvedimenti apparentemente di pubblica utilità siano in realtà qualificati politicamente, portando nel loro modo di essere e nelle loro funzioni il segno del confronto tra le forze presenti in campo e del loro diverso peso. La ricostruzione delle tendenze in atto nel governo schiudono alla conoscenza il continente della biopolitica.

Secondo presupposto, il governo non è un'astratta funzione regolativa, istituzionale, ma è una delle forme in cui si mostrano e agiscono i conflitti sociali. Il governo è la tecnica con cui si sottomette il territorio ai fini delle forze prevalenti, realizzato con strumenti non solo normativi, ma materiali e immateriali. Un regime di governo è causa ma anche effetto delle tecniche che mette in campo: causa, perché è effettivamente un determinato governo che usa una tecnica di gestione; effetto, in quanto la tecnica stessa, una volta applicata, vive in un certo senso una sua vita autonoma, provocando la nascita di nuovi comportamenti, modi di pensare e fatti sociali che reagiscono sul governo, costringendolo a cambiare ed evolvere. Joyce ricostruisce, dimostrando grandi doti di narratore, come il governo liberale di Manchester, con l'esplodere della seconda rivoluzione industriale e il conseguente cambiamento della composizione sociale e l'evoluzione dei bisogni, attivò istituzioni di ricerca che, attraverso lo strumento della statistica, definirono un nuovo regime di conoscenza "scientifica" dei territori. Le mappe delle città che ne seguirono, che il libro riporta, incisero profondamente l'immaginario di governanti e governati: dalla visione di quelle mappe, ben presto divenute strumenti essenziali di orientamento delle scelte di gestione, furono tratti concreti progetti di governo. Le mappe divennero il codice per decifrare le necessità "reali" della città. L'immagine che ne risulta è quella di un organismo il cui corretto funzionamento è frutto di scelte oculate che, agli occhi dei governanti, sono tanto morali che sanitarie. Il "bene" della città è la corretta applicazione al suo corpo vivo delle prescrizioni tecniche rilasciate dai rappresentanti della scienza. Il governo si interpreta come la medicina e la fisiologia del tessuto urbano.

Joyce, ricostruendo i processi storici di governo, mostra come la città sia innervata in ogni suo elemento dallo scontro tra forze che la lacerano. L'ambiente diventa "territorio" perché reca in sé la cifra delle contrapposte strategie di affermazione. In esso tutto è significante, tutto parla delle vicenda peculiare di una comunità divisa in diverse componenti, in diversi fronti. La storia di un territorio è senza copione, una successione di congiunture in cui viene trattato, gestito e reso produttivo. La metropoli liberista, principale contesto di direzione e produzione sociale, è l'ambito dove maggiormente è stata estesa la qualifica di territorio anche a frontiere prima impensate. Joyce illustra come nasca il concetto di "mondo interno" nel liberismo, in un senso molto diverso da quello cristiano. La mappatura della città arrivava fino alle soglie della proprietà privata. L'interno delle case non era "mappato", mentre ospedali, carceri e work-house erano descritti anche internamente. L'universo dell'oggettività (l'uniformità unilineare stabilita della statistica matematica) si arrestava alle prerogative dell'individualità, ossia di fronte a ciò che era acquisito dai singoli come bene di consumo attuale o possibile.

Joyce prosegue mostrando quale tipo di indirizzo della vita urbana ne seguisse. La gestione della città accentuava al massimo la capacità di controllo degli spazi pubblici (uomini, relazioni, idee e produzione), in funzione di "libertà" non astratte: libertà ed espansione dei commerci, libertà di consumo, libertà di rappresentanza individuale degli interessi. Le fasce popolari, rinchiuse in una dimensione marginale, erano semplicemente rimosse nella totalizzante asetticità della conoscenza oggettiva garantita delle mappe. La linearità geometrica e razionale del disegno delle strade commerciali, che sembra protendersi verso una ulteriore razionalizzazione di ambienti non mappati, grava sulle anguste e labirintiche vie dei quartieri popolari, sterilizzandoli forzosamente nella serialità dei segni grafici netti e ordinati; come anche nelle mappe dell'Irlanda conquistata - di cui Joyce parla a lungo - scalzando dalle vie, con la nettezza dei nomi inglesi, la barbarie dei nomi tradizionali irlandesi.

Il libro di Joyce è molto utile per decostruire alcuni miti. In questo senso è un libro "cinico", nel senso di Sloterdijk: innanzitutto, la presunta neutralità dell'amministrazione del governo locale. Grazie a una errata concezione dello Stato, che perdura tutt'oggi, si è visto nella gestione dei territori un puro atto "tecnico" di "competenza". Joyce ribadisce invece con dovizia di esempi come il governo del territorio sia lo snodo politico fondamentale, in cui i rapporti di forza generali si traducono immediatamente in azioni impresse sui corpi vivi delle popolazioni.

Secondo mito sfatato dal libro è quello dello Stato come insieme di istituzioni di garanzia generale, in cui si eserciti una funzione di mediazione progressiva. Lo Stato è la forma fenomenica di un conflitto in corso. Lo Stato non è definibile come "patto" da cui si legittima l'esercizio di un governo mediante la delega. Lo Stato è la forza in atto di un esito asimmetrico del conflitto sociale. Non c'è dunque una storia "politica" dello Stato distinta da una storia "sociale" piuttosto che da quella "economica" o "culturale". È la morfologia e geografia dei conflitti che rende conto delle evoluzioni di quella macchina di potere che è lo Stato. Quindi, il mito delle legge come pura istanza regolativi a priori, norma astratta dotata di validità intrinseca. Il diritto è l'indice di rapporti di forza, la norma è un'incisione nella carne viva della città, un marchio che imprime il segno di un ordine. Joyce così prende il meglio dei cultural studies eliminandone le derive relativiste e postmoderniste, ponendo i termini di un'epistemologia della storia della metropoli, luogo in cui cultura e produzione, azione e significato, in altre parole la storia stessa, raggiungono la massima intensità.

Aldo Pardi