2005

A. Joxe, L'Empire du chaos, les Républiques face à la domination américaine dans l'après-guerre froide, La Découverte, Paris 2002, ISBN 2-7071-3733-2 (*)

Di fronte allo smarrimento nella comprensione dello stato attuale delle cose, che caratterizza la riflessione politica del dopo guerra fredda, ci si può trovare di fronte a due alternative: o tirare i remi in barca e lasciarsi andare al fatalismo, oppure tentare di elaborare un nuovo quadro analitico. Come nei suoi precedenti lavori, Alain Joxe mostra inequivocabilmente di aver scelto la seconda di queste alternative, senza però manifestarlo apertamente. Alla richiesta, infatti, di descrivere lo stato del mondo, di spiegare i cambiamenti, risponde che è il lavoro di uno sciamano, magico e letterario, che è tutto, insomma, fuorché un lavoro scientifico. Propone tuttavia un quadro analitico, presentato in tono minore come un bilancio strategico e politico dei dodici anni che hanno seguito la guerra del Golfo (p. 5), ma anche, con un discorso di più ampio respiro, attraverso una definizione dello stato geopolitico del mondo: «il mondo è veramente unito da una nuova forma di caos, un caos imperiale, dominato dall'imperium degli Stati Uniti, ma da loro non diretto» (p. 15).

Magia o no, questa impresa è doppiamente importante. Innanzitutto perché anche altri autori propongono nuove rappresentazioni di questo stato di cose, in forte concorrenza - e forse anche più - tra loro. Alain Joxe attacca esplicitamente una di queste rappresentazioni, che definisce «politologia di Disneyland» (p. 100) e che analizza nei capitoli 4 e 5, attraverso un commentario dell'ideologia ufficiale dei governi Clinton e Bush in materia di relazioni internazionali e di strategie militari. Poi perché queste rappresentazioni non sono solo vettori di comprensione del mondo, ma anche quadri definitori delle loro azioni e delle loro modalità. Se c'è concorrenza tra queste rappresentazioni - e forse anche più - è proprio perché si tratta necessariamente anche di concezioni dell'azione geopolitica e militare su scala mondiale: è una lotta mortale nel senso proprio del termine.

Come propone Alain Joxe di comprendere il mondo nella sua «complessità neo-medievale»? L'espressione impiegata nel titolo - L'empire du chaos - presenta diverse sfaccettature. Avanza un'immagine che l'a. giudica soddisfacente per descrivere lo stato del mondo dopo il 1980. Non si riferisce alla teoria del caos, anche se ciò avrebbe più di un motivo di interesse: non sarebbe inopportuno, infatti, qualificare il mondo come caos, per sostenere che la sua opacità è un elemento insuperabile, che l'imprevedibile non è più l'ignoto o l'insufficientemente conosciuto, ma ha ormai una consistenza indissolubile (cfr. I Prigogine, I. Stengers, Entre le temps et l'éternité, Champs Flammarion, Paris 1988). Alain Joxe, invece, decide di utilizzare la nozione di caos in modo più debole. Nella versione inglese del suo libro ne ha accettato, per esempio, la traduzione con «disorder». Più semplicemente, il mondo è ai suoi occhi segnato dallo scatenamento della violenza a qualsiasi livello - dal continente al quartiere -. E ciò avviene per una strategia degli Stati dominanti che consiste nell'estendere questa violenza nell'emisfero sud. Il mondo è anche preda del neoliberalismo, cioè di un potere esercitato senza alcun controllo da imprese private transnazionali, che fa emergere una nuova classe nobiliare, una specie di elite internazionale separata dai popoli. Tra gli stati dominanti c'è un attore principale: gli Stati Uniti - e forse il titolo riecheggia l'utilizzo, verso la fine degli anni '60, dell'espressione Impero americano usata proprio per qualificare gli Stati Uniti. Questi sono alla testa dell'Impero, senza però volersi assumere la responsabilità delle società che hanno sottomesso. Si contentano, secondo Joxe, di regolare il disordine, attraverso mezzi finanziari e spedizioni militari. Ci troviamo, così, in un Impero senza imperium.

Oggi, il rischio che corre il mondo è quello di una violenza globale, inflitta attraverso una rivoluzione elettronica che consente di uccidere «in colletto bianco», seduti dietro il proprio computer. Fra la guerra del Golfo e quella in Afghanistan, siamo in realtà transitati nell'era della RMA - Revolution in Military Affairs -, che fa dell'elettronica e dell'informatica le armi principali della superiorità militare americana. Questa fredda barbarie è da temere ancora di più perché, fra le due scuole di pensiero imperiale distinte da Joxe, nella presidenza di Bush jr. si impone quella fondata sull'idea dello scontro delle civiltà. Quella che concepisce la protezione esclusiva della comunità nazionale americana come la finalità del potere imperiale, a discapito dell'altra, per cui l'estensione dell'Impero corrisponde ad un allargamento del libero mercato oltre gli Stati Uniti e l'Europa. Questa seconda scuola di pensiero ha senz'altro dei «micro» e «nano» costi in termini di violenza politica e sociale, ma rappresenta il male minore.

Alain Joxe definisce un progetto politico di azione nel mondo. In modo molto generale sostiene che bisogna giungere a concepire ed erigere un ordine, non perché l'ordine sia buono in sé, ma perché in una situazione di caos è l'ordine e non il disordine che è necessario tematizzare. Per precisare questa prospettiva e dargli consistenza politica introduce l'opposizione fra repubblica e impero: bisogna far emergere la repubblica, che fa del popolo il soggetto sovrano e lo protegge. Alain Joxe non intende valorizzare, con questo discorso, lo Stato-nazione sovrano, di cui sottolinea al contrario la fragilità nell'epoca attuale. La repubblica a cui pensa è e deve essere internazionale, come indica il compito che l'a. assegna alle sinistre europee: «le sinistre devono necessariamente inserire nei loro programmi, ormai su scala globale (che è già quella delle destre), la lotta contro l'ineguaglianza e la miseria e per l'estensione della sovranità, della cultura, della responsabilità civile e della pace per tutte le classi popolari» (p. 72).

La realizzazione di questo progetto riserva all'Europa un ruolo particolare. Infatti, per Joxe, è necessario pensare quest'ordine repubblicano a partire dalla possibilità di far emergere un'Europa politica. In virtù delle sue tradizioni politiche, infatti, solo l'Europa è in grado di promuovere, nel caos, l'idea di una repubblica "sociale" basata sulla fraternità. Quest'idea è particolarmente vivace in Francia: «pensare la forma di un "disordine" che sia una libertà compatibile con la fraternità politica senza produrre ineguaglianza non è fuori dall'orizzonte della nostra immaginazione. L'Europa dovrebbe naturalmente essere il crogiolo di questa nuova costruzione della forma del possibile. E, in Europa, la Francia gioca un ruolo che deriva non dalla sua potenza, ma dalla sua storia e dalla sua posizione geografica, dal suo essere un crocevia. Fin dall'interruzione della Rivoluzione, fin dal Termidoro, qui non abbiamo mai smesso di pensare la politica, malgrado lo Stato, contro lo Stato, al di fuori dello Stato» (p. 25). Secondo Joxe, questo ruolo che potrebbe giocare la Francia dipende in particolare dalla Costituzione dell'Anno I (1793), in cui la proprietà privata è considerata solo un diritto di godimento civico definito dalla legge e in cui l'internazionalismo è sostenuto con forza. È la scommessa di un'espressione della solidarietà su scala europea ma anche globale, in particolare per affrontare la questione del debito dei paesi del terzo mondo.

La formulazione di questo progetto politico riserva qualche sorpresa. Si riferisce, per esempio, principalmente a Hobbes (articolando il suo pensiero con quello di Clausewitz). Questo riferimento è inaspettato sotto molti aspetti. Non è infatti, proprio Hobbes, il teorico di un'epoca in cui il mondo (almeno quello considerato dal pensiero occidentale) era strutturato in Stati-nazione sovrani (Cfr. G. Marramao, Dopo il leviatano. Individuo e comunità, Bollati Boringhieri, Torino 2000)? Non era giunto il momento di riporre Hobbes nel paniere delle teorie che testimoniano di una diversa epoca politica? Nella rappresentazione dello stato del mondo proposta da Alain Joxe, tra l'altro, la sovranità degli Stati-nazione non gode di ottima salute. D'altra parte, se il pensiero di Hobbes viene associato alla questione della sovranità popolare, il carattere democratico della sua teoria appare fortemente ambiguo. Il patto è stretto tra uomini che desiderano uscire dallo stato di natura e si impegnano ad abbandonare tutto il loro diritto naturale, eccetto quello di difendere la propria vita, a favore di una persona pubblica che li rappresenta e decide in nome e per conto della loro utilità comune. L'ambiguità di tale concezione, rispetto alla sovranità popolare, dipende dalla forma dell'impegno. Il patto non sembra impegnare il sovrano stesso, disturbando così l'idea della sovranità popolare. Alain Joxe non prende in considerazione questa ambiguità. Legge invece il Leviatano a partire dal Behemoth, cioè dalla costruzione di un ordine sovrano in un contesto di crisi, di guerra, di pericolo. Il Dio mortale si erige quindi contro il disordine estremo, la protezione del popolo contro il caos: «l'idea che la Repubblica moderna nasce essenzialmente con Hobbes può essere messa in discussione, evidentemente. Se scelgo proprio quel momento è perché ammetto che la Repubblica non può nascere senza rivoluzione e che Hobbes, attraverso il proprio metodo di analisi, considera la crisi totale dello Stato come il momento più importante della teoria del potere. Chiamo rivoluzione un tipo di movimento popolare di massa che sfida il pericolo della morte per amore del bene comune, in cui le convinzioni popolari profonde esprimono e rendono possibile il desiderio di rinnovamento della società, dello Stato e della felicità» (pp. 45-6). È un Hobbes seducente, ma per lo meno eterodosso.

Alain Joxe non si pronuncia sulla relazione con il libro di A. Negri e M. Hardt, Impero (Rizzoli, Milano 2002, trad. di A. Pandolfi). Eppure, il confronto è ricco di insegnamenti per la teoria e la pratica politica. Condivide alcuni punti con questo testo di riferimento - non chiamiamolo Bibbia - del movimento anti-globalizzazione: l'ambizione di elaborare una griglia di intelligibilità del mondo, quella di definire un progetto politico transnazionale per questo nuovo stato del mondo, il ruolo particolare assegnato in entrambi i casi agli Stati Uniti e ad una nuova elite internazionale e, per finire, la forma «manifesta» che ad un certo punto entrambe le opere adottano. Queste, però, presentano anche delle vere e proprie divergenze. L'uso della nozione di Impero non è identico nell'uno e nell'altro volume. Alain Joxe insiste sull'idea di imperium, mentre Negri e Hardt rendono conto del loro uso di impero attraverso due nozioni diverse: «in primo luogo [...] il concetto di impero indica un regime che di fatto si estende all'intero pianeta, o che dirige l'intero mondo "civilizzato". Nessun confine territoriale limita il suo regno. In secondo luogo, il concetto di Impero non rimanda a un regime storicamente determinato che trae la propria origine da una conquista ma, piuttosto, a un ordine che, sospendendo la storia, cristallizza l'ordine attuale delle cose per l'eternità». Questa differenza si duplica in un ulteriore scarto: Alain Joxe non assegna alle moltitudini un ruolo particolare in questo progetto di ordinamento del mondo a partire dall'idea di repubblica "sociale" e fraterna, mentre queste hanno invece un ruolo determinante nell'avvento di una costituzione democratica mondiale per Negri e Hardt. Si può misurare, inoltre, una certa distanza rispetto alla valorizzazione delle moltitudini e del ruolo politico emancipatorio che viene assegnato loro. Il confronto delle due opere porta nuovamente Hobbes al centro della scena (l'autore del Leviatano è molto presente nel pensiero politico contemporaneo: si pensi anche alla traduzione di Léviathan dans la doctrine de l'État de Thomas Hobbes - Sens et échec d'un symbole politique di Carl Schmitt, pubblicato da Seuil nel 2002 e alla polemica che l'apparizione di questo volume ha suscitato in Francia). Rispetto alla moltitudine, Hobbes è proprio l'elemento che divide Alain Joxe e Negri-Hardt. Il progetto politico di questi ultimi non potrebbe assolutamente fondarsi su Hobbes, che valorizza la figura del popolo a scapito della moltitudine, respingendo quest'ultima nel non-essere politico: «moltitudine, in quanto termine collettivo, significa molte cose, per cui una moltitudine di uomini è lo stesso che molti uomini. [...] Dunque non deve esserle attribuita un'azione unica, qualunque essa sia» (De Cive, nota 6).

Per sviluppare le proprie analisi ed affermare le proprie idee Alain Joxe assume l'atteggiamento di un condottiero in guerra: si lancia in alcune incursioni su diversi campi teorici, saccheggia le nozioni che possono servire alla sua riflessione, le assimila al proprio regno. Ha disimparato - o non ha mai conosciuto - la divisione disciplinare e la fedeltà al pensiero dell'autore, richiesta da ogni esegesi. Tuttavia i libri, una volta pubblicati, conducono una vita indipendente da quella dei loro autori. Non è quindi proibito al lettore, anche quando Joxe sostiene l'uso libero delle citazioni, di formulare alcune questioni e definire le linee di divisione: si può accogliere in una stessa tradizione repubblicana Machiavelli, Hobbes e Rousseau o è necessario prendere in considerazione diverse tradizioni repubblicane con le loro eventuali divergenze? Machiavelli, anch'egli pensatore di un ordine costituzionale in tempo di crisi e riferimento preciso di numerosi repubblicani, non avrebbe potuto risultare utile nel lavoro di Joxe? D'altra parte, si può tralasciare, nel riferimento a Hobbes, il timore come fondamento dell'ordine? Qual è, quindi, il prezzo inevitabile da pagare che questo elemento introduce? Quale percorso di azione politica è possibile prendere oggi in considerazione: quello che conduce all'emergenza di un popolo sovrano su scala transnazionale, soggetto di un nuovo ordine repubblicano, o quello che porta a una costituzione democratica fondata sul potere costituente delle moltitudini?

Marie Gaille Nikodimov

*. Da Multitudes, 12, printemps 2003 (traduzione dal francese di Filippo Del Lucchese).