2005

G. Jervis, Contro il relativismo, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 166, ISBN 88-420-7640-6

Esistono almeno due diversi modi - talvolta contrapposti - di attaccare il relativismo: guardandolo dalle altezze della morale (e della religione), oppure forti del presunto oggettivismo delle scienze. Il primo è l'atteggiamento (anche) del pontefice romano, il secondo è stato di recente espresso da Giovanni Jervis nel suo pamphlet dal titolo inequivocabile: Contro il relativismo (Laterza, Roma-Bari 2005). Jervis ha buon gioco a descrivere con icastico sarcasmo i relativisti come una 'tribù' un po' approssimativa, portatrice di "un'ideologia diffusa" più che di una teoria stringente, che spesso - per giustificare ignave affermazioni di uguaglianza tra i popoli o sospensioni del giudizio in ragione della massima 'che ne sappiamo noi alla fine?' - fa appello "a una parolina magica: complessità". Il relativismo nascerebbe da un sano disprezzo per i dati oggettivi, e troverebbe il suo terreno di coltura all'interno dell'antropologia statunitense dei primi del Novecento, la quale asseriva la centralità della cultura e dell'ambiente nella strutturazione dell'io, contro un radicale evoluzionismo tutto giocato sul ruolo dei dati biologici (e per ciò stesso universali). Seguendo questa impostazione culturalista e anti-scientifica i relativisti negano, secondo Jervis, il ruolo della biologia e l'unitarietà delle esperienze psicologiche del genere umano, e affermano che ogni cultura è profondamente diversa dalle altre e che esse non sono tra loro commensurabili.L'esempio tipico dell'atteggiamento scientifico (erroneo, afferma Jervis) dei relativisti è fornito dal 'caso' dei denti della moglie di Aristotele: Bertrand Russell ricorda infatti che Aristotele sosteneva che le donne hanno meno denti degli uomini. Eppure Aristotele non avrebbe fatto meglio a chiedere a sua moglie di andarsi a sedere di fianco a lui e di aprire la bocca?! Insomma, in pagine brillanti Jervis mette alla berlina un atteggiamento pseudo-culturale di cui egli rinviene le tracce anche nel '68 italiano: "l'assenza di una cultura scientifica ha favorito, soprattutto in Italia, l'assimilazione di un orientamento relativistico degradato, consistente nel ritenere che tutte le idee, anche le meno verosimili" - come quella dei denti della moglie di Aristotele - "si equivalgano e abbiano identico diritto a una propria nicchia di credibilità". Da ciò deriverebbe, tra l'altro, il pericoloso abbandono del concetto di 'responsabilità': se tutto è legittimo in quanto diverso, se 'alla fine noi che ne sappiamo?', se ogni scelta può essere giustificata affermando 'è la loro cultura, noi non possiamo giudicare', allora viene meno l'idea che, seppure in un contesto di tollerante comprensione delle ragioni, chi sbaglia debba pagare. In quest'ottica, Jervis critica anche l'antipsichiatria, intesa come un'opzione culturalista e relativista che si fonda sull'opinabilità del concetto di disturbo mentale. Ma la critica del relativismo di Jervis poco ha a che fare con quella proposta ad esempio da Ratzinger, e anzi conduce talvolta a risultati contrapposti. L'idea anti-relativista di una sostanziale unità del genere umano sotto ogni latitudine, e dunque l'idea dell'eguaglianza dei bisogni e dei diritti degli uomini, porta Jervis ad affermare - per esempio - l'eguale dignità delle coppie omosessuali rispetto a quelle etero oppure la libertà di ricerca scientifica, cose che il papa - ça va sans dire - non riconoscerebbe mai.

E tuttavia Jervis, sulla base di un empirismo che ruota attorno all'idea di 'verità' oggettiva e di 'verificazione' e che risulta talvolta poco accorto sul piano epistemologico (egli sembra non considerare gli sviluppi dell'epistemologia post-positivista o anche solo gli ammonimenti contro la hybris scientista di Friedrich Hayek, e si attesta su un verificazionismo ante-popperiano), descrive una corrente, quella relativista, che non esiste nella realtà. O meglio, se e quando esiste così come Jervis (che sicuramente calca la mano) la disegna, è senza dubbio da confutare. Ma se è vero che il relativismo è una posizione criticabile, aporetica, vacua e non sistematica, se esso si offre in pasto a molti come topos ('le culture sono tutte uguali, chi siamo noi per giudicare', 'chi stabilisce cos'è la normalità' etc. etc.) è però un fatto che molte culture da noi lontane non amano guardare alle faccende di casa loro coi nostri occhi. Dar conto di ciò, cercare di comprenderne le ragioni non vuol dire necessariamente essere dei 'relativisti'. Come non vuol dire essere relativisti difendere la natura ipotetica e congetturale della verità scientifica, il che ci metterebbe al riparo da un'epistemologia da 'verità in tasca' che mi sembra quanto mai pericolosa, oltre che erronea (quante volte e per quanti secoli si è creduto a 'verità scientifiche' poi dimostrate false?). Ancora, non è relativista chi afferma la necessità dell'ascolto dell'altro, soprattutto quando l'ascolto si propone come metodo diametralmente opposto alla tendenza missionaria e civilizzatrice di un Occidente che pretende di tracciare autoritativamente le tappe del 'progresso' di popoli non occidentali.

E d'altra parte, non vuol dire essere ottusamente universalisti avere simpatia per Qiu-Ju, il personaggio di quel film cinese che vende i suoi peperoncini per permettere al marito - oltraggiato dal capo villaggio - di avere un avvocato e difendersi in tribunale, sganciandosi così dalle logiche comunitarie asiatiche che tanto piacciono a molti relativisti. Significa soltanto - come peraltro ricorda lo stesso Jervis citando Ernesto De Martino - essere portatori di un etnocentrismo critico: in altri termini, noi siamo quello che siamo e non possiamo uscire da noi stessi, e la simpatia per Qiu-Ju ci deriva dall'essere profondamente, ma criticamente, occidentali.

Francescomaria Tedesco