2006

B. Honig, Democracy and the Foreigner, Princeton University Press, Princeton-Oxford 2001, pp. 204, ISBN 0-0691-11476-5

Mosè è ancora considerato da tutti un principe egizio quando libera gli israeliti dalla schiavitù e offre loro le tavole della legge (solo in seguito si scopriranno le sue vere origini). Ruth migra da Moab a Betlemme e ravviva lo spirito religioso degli israeliti. Edipo arriva da lontano per risolvere l'enigma della Sfinge. Il dialogo sulla giustizia nella Repubblica di Platone si svolge in casa di uno straniero, Cefalo (cfr. p. 3). Dorothy, nel Mago di Oz, lascia la noia e le ingiustizie del Kansas, e, giunta nella terra di Oz, diviene il veicolo per l'emancipazione di quel popolo (cfr. pp. 15-17).

Come ricordano queste e altre figure mitologiche, lo straniero non è solo una minaccia per la nostra identità, ma può, al contrario, aiutarci a rinnovarla ed essere persino una fonte di legittimazione della democrazia. Con questa insolita prospettiva e un approccio incentrato sull'analisi testuale, la Honig si chiede non cosa possiamo fare noi per risolvere il problema dello straniero, non che cosa fare di lui, ma al contrario quali problemi lo straniero risolve per noi; non "How should we solve the problem of foreignness?", ma "What problems does the foreignness solve for us?" (p. 4). A questa domanda l'autrice risponde in modo originale attraverso suggestioni ispirate da autori classici, come Rousseau e Freud, dalla filosofia contemporanea di Girard, Derrida, Kristeva, Walzer e Rorty, ma anche dalla letteratura e dalla filmografia (da The Wizard of Oz, al film western Shane, a Strictly Ballroom), gettando una luce inedita sulle molte facce dello straniero: as founder (cap. 2), as immigrant (cap. 3), as citizen (cap. 4).

Come devono essere interpretate, quale significato simbolico nascondono, le tante storie di fondatori stranieri, chiamati in soccorso da popoli lontani? La domanda si fa particolarmente intrigante quando si pensa alla figura del legislatore introdotta da Rousseau nel Contratto sociale, seguendo un'antica tradizione attestata già da Aristotele. "Perché - si chiede la Honig - Rousseau, per il quale l'unità sociale era il fine più importante, non si preoccupa che l'introduzione di uno straniero nel suo sistema di governo ideale possa essere una minaccia per il suo esperimento di democrazia radicale?" (p. 19). Il testo di Rousseau, lasciato interagire con il saggio di Freud su Mosè e il monoteismo e con la teoria del capro espiatorio di René Girard, sotto la penna letterariamente abile e creativa della Honig rivela lati insospettati e pone interessanti interrogativi sul senso di alienazione del cittadino rispetto alla legge, sui paradossi della democrazia.

Al centro del lavoro della Honig più ancora di Mosè o del legislatore rousseauviano, tuttavia, appare l'affascinante figura biblica di Ruth, con la quale si sono misurate le interpretazioni di molti autori contemporanei. Per Cynthia Ozick - ricorda la Honig - Ruth è l'immigrata modello, che si converte all'ebraismo, che salva l'ordine israelitico dalla decadenza, e segna il passaggio dal governo dei giudici al governo dei re; per la Kristeva, invece, è colei che mette in discussione l'ordine degli israeliti. Ozick e Kristeva si dividono anche nella loro lettura del rapporto che lega Ruth e Naomi: per la prima, la relazione tra le due donne è una relazione incentrata sulla virtù e sulla decisione di Ruth di convertirsi al monoteismo; per la seconda, si tratta invece di una relazione d'amore, in cui l'amicizia, secondo la triplice distinzione aristotelica, non è incentrata né sulla virtù, né sull'utilità, ma sul piacere. La Honig pensa che nell'amicizia tra Ruth e Naomi ci sia anche un bisogno pratico: Ruh vuole essere accolta e per questo rassicura Naomi che la sua presenza non sarà un pericolo per il suo popolo. In ultima analisi, tuttavia, secondo la Honig è probabile che nel discorso di Ruth, si mescolino i tre registri dell'utile, del piacere e della virtù, come avviene, secondo Derrida, nell'amicizia intesa quale relazione politica (cfr. p. 53). E' proprio questo mescolarsi dei tre registri che rende Ruth ambiguamente collocabile tra l'immagine del migrante che mette in crisi l'ordine e quella dello straniero che lo salva consentendone una nuova fondazione.

In Nation without Nationalism, Julia Kristeva è tornata sulla figura di Ruth proponendola come esempio di un cosmopolitismo su cui dovrebbero meditare sia i nazionalisti francesi sia quelle donne magrebine che vorrebbero indossare il velo a scuola. Secondo la Kristeva un'idea di nazione incentrata sulla dimensione contrattualista dovrebbe essere salvata collocandola nella sua possibile funzione di oggetto transizionale: non un luogo ultimo di affiliazione, ma un mezzo per la proiezione verso una dimensione postnazionale e cosmopolitica. L'astratto universalismo della nazione francese, per la Kristeva, è più promettente delle richieste di riconoscimento identitario delle fautrici del velo: mentre il primo può funzionare come oggetto transizionale, il secondo sembra presentarsi piuttosto come un "feticcio", che impedisce un distacco dalla tradizione, dalla madre e dalla madre patria (cfr. p. 64). Un'interpretazione questa che la Honig non condivide, perché trascura il processo di riappropriazione e trasformazione del significato a cui il velo è stato sottoposto dalle donne islamiche, e sottovaluta il fatto che qualsiasi oggetto transizionale riesce a svolgere la propria funzione di ponte e passaggio solo se opera in un contesto che non impone separazioni traumatiche, che possono portare o a una feticizzazione dell'oggetto o a una sua perdita completa di significato che lascia il soggetto in un'assenza di parole autistica (cfr. p. 65).

La figura dello straniero as citizen ha svolto un ruolo fondamentale nella storia americana. Tutta la letteratura eccezionalista, da Tocqueville a Hartz a Walzer, vede nel migrante l'agente di un processo di rinnovamento della cittadinanza che ne riconferma periodicamente la natura consensualista e individualista, contrapponendosi al modello di un'appartenenza ascrittiva e organica (cfr. pp. 73-74). Esistono, in realtà, secondo la Honig, almeno quattro diverse versioni del mito dell'immigrazione come fattore che tiene vivo lo spirito della nazione americana. Nella versione "comunitaria" l'immigrato porta con sé i valori della tradizione, e in questo senso rappresenta una risorsa per far fronte ai processi di sradicamento in atto nella società americana, con il suo alto tasso di mobilità. In quella "familistica", l'immigrato è ancora un esempio della vecchia famiglia patriarcale con i suoi forti legami affettivi, e la sua indiscussa gerarchia tra i generi, che viene in qualche modo a controbilanciare quello che alcuni considerano lo sconquasso della famiglia moderna e la confusione tra i ruoli maschili e femminili. Nella versione "capitalista" il mito del migrante rassicura i lavoratori sul credo americano nella possibilità per tutti di ascendere nella scala sociale. Nella declinazione "liberale", infine, il mito degli Stati Uniti come società di migranti ha una funzione legittimante: il consenso della democrazia americana è prima di tutto il consenso che i migranti esprimono aderendo alle istituzioni e giurando loro fedeltà nel momento in cui divengono cittadini. La cerimonia di naturalizzazione con cui il migrante celebra il suo ingresso nella cittadinanza e pronuncia il suo giuramento di fedeltà è un atto simbolicamente quasi tanto importante per le istituzioni democratiche americane quanto il voto (cfr. p. 75).

Il resoconto eccezionalista della storia americana racconta molto di vero, ma rimuove anche molte cose. Dimentica che gli Stati Uniti furono fondati anche sulla conquista (degli indigeni), sulla schiavitù dei neri, e nel periodo successivo alla fondazione sull'espansione coloniale (Hawaii, Alaska, Porto Rico, ecc.) e sull'annessione di alcuni territori (i territori coloniali francesi in Illinois, St. Louis, New Orleans, e alcuni territori del sud abitati da popolazioni di lingua spagnola, conquistate in seguito alla guerra col Messico). Trascura che nella storia americana il migrante non è stato visto solo come fonte di rigenerazione, ma anche come una minaccia. Nasconde che la storia americana è caratterizzata da un "gioco di xenofobia e xenofilia", un gioco le cui dinamiche non sono dettate solo dalle esigenze del mercato del lavoro o dalle ondate di nativismo.

Se Walzer ritiene che in questa ambivalenza della nazione americana verso lo straniero si rispecchino le posizioni di diversi partiti e Rogers Smith di diverse tradizioni politiche, la Honig con Behdad, vede in quest'ambiguità uno spazio che consente e ha consentito di riarticolare e contestare i concetti di cittadinanza, sovranità e nazione. Per Honig si dovrebbe invertire la tendenza che vede lo straniero asservito ad un processo di continuo rinnovamento della nazione. L'inclusione del foreigner dovrebbe portare piuttosto a una denazionalizzazione della democrazia, per esempio mediante un allargamento del suffragio o progetti quali lo Workplace Project, "un'organizzazione che fornisce rappresentanza e consulenza legale alle persone prive di documenti e che al tempo stesso le aiuta ad organizzarsi e a difendere se stesse, mediante propri rappresentanti presso i padroni, i proprietari, gli amministratori scolastici o i funzionari statali" (p. 102), estendendo così le pratiche di cittadinanza anche ai non cittadini. Una spinta importante in direzione di una denazionalizzazione della democrazia viene anche, secondo la Honig, dal ruolo che in essa possono svolgere e svolgono organizzazioni non governative internazionali, come Women Living Under Muslim Law, Amnesty International e Greenpeace, che sono sempre attente a ricordarci che gli stati possono essere anche fattori di ingiustizia, soprattutto nei confronti dei gruppi più deboli e vulnerabili.

Nelle conclusioni, la Honig si chiede: se la figura dello straniero è così pervasiva nella storia della democrazia, perché è rimasta tanto a lungo sommersa? La risposta è che storie come quelle di Ruth devono essere lette con lenti particolari: è necessario leggerle come farebbe il lettore del romanzo gotico o gotico femminile, come farebbe cioè il lettore di un genere letterario in cui le questioni oscure e problematiche non vengono mai sciolte totalmente dalla loro ambiguità (cfr. 110), "il problema dell'esclusione non viene risolto, ma diviene visibile" (p. 114). I personaggi femminili del romanzo gotico (da Jane Eyre a Rebecca) non hanno potere, non si aspettano di vederselo riconosciuto e sanno di doverselo prendere, di dover lottare; essi vedono nella legge del marito, del padre, qualcosa di estraneo, imposto loro, ma al tempo stesso "un orizzonte di promessa" (p. 115). Le lenti del romanzo gotico femminile dovrebbero aiutarci ad abbandonare le visioni paranoiche suscitate dall'idea di uno straniero visto come una sorta di forza mostruosa al di fuori del nostro controllo e ad adottare un atteggiamento di cauto sospetto verso chi crede di sapere cos'è bene per noi. Le eroine del gotico femminile prendono o cercano di prendere la loro vita nelle loro mani, ma rimangono pur sempre vulnerabili, scoprono alcuni, ma non tutti i misteri, la loro attenzione all'ambiguità è in fondo la loro forza. Attraverso le lenti di questo genere letterario, secondo la Honig, il cittadino democratico potrebbe imparare che il finale delle storie non è mai scontato, che lo straniero potrebbe essere il buono e il vicino di casa il cattivo, o il buono e il cattivo essere la stessa persona (cfr. 119), che si può amare la patria, credere che una forma di attaccamento non strumentale alle istituzioni sia essenziale al funzionamento della democrazia, e tuttavia avere buone ragioni per rimanere sospettosi verso l'idea di nazione.

Brunella Casalini

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