2008

J. Herrera Flores, Los derechos humanos como productos culturales. Crítica del humanismo abstracto, Catarata, Madrid 2005, pp. 304, ISBN: 84-8319-239-X

Il testo sviluppa una riflessione sui diritti umani che si colloca nel solco di un indirizzo critico abbastanza assestato che fa riferimento, tra gli altri, a Boaventura de Sousa Santos, e offre a questa linea di pensiero diverse nuove intuizioni. Anche l'analisi di Herrera Flores è tesa a revocare in dubbio la teoria dei diritti umani, mettendone in chiaro la matrice "occidentale" e borghese, e l'aspirazione egemonica che è sottesa alla proclamazione della loro universalità. A ben vedere le Carte dei diritti mostrano, sia nei contenuti che nel linguaggio, una strategica indifferenza verso sistemi valoriali a esse estranei: lo stesso linguaggio dei diritti umani appare del resto strutturalmente inidoneo a far valere ulteriori visioni del mondo.

In linea con tale critica Herrera Flores revoca in dubbio anche la suddivisione bobbiana dei diritti in "generazioni": lungi dall'essere un semplice strumento pedagogico, essa è il frutto di una metafisica giusnaturalista che vuole l'umanità in un cammino di progressiva evoluzione che conduce al "palazzo dei diritti umani", id est ai diritti individuali.

Secondo l'Autore sono altrettanto discutibili, accanto agli approcci universalisti, sia il culturalismo, che, muovendo da istanze di considerazione e tutela delle specificità dei soggetti di diritto, finisce con il ridurre tali soggetti alla loro cultura, sia "le teorie della post-modernità".

Benché egli intenda superare la concezione dei diritti umani come diritti fondati, e custodi di una giustizia universalizzabile, non intende rinunciare alla creazione di una teoria generale dei diritti umani. Una teoria generale e contestualizzata è dunque il progetto di Herrera Flores, che vuole conciliare questi due caratteri senza però credere alla possibilità di fondare i diritti: anzi, egli si include tra i promotori dello scardinamento di ogni epistemologia fondativa, rifiutando di interpretare già i concetti di cultura, identità, linguaggio, come fondamentali. In ciò si sostanzia proprio la critica a quel culturalismo che, secondo l'Autore, pur muovendo dall'adesione ad un metodo di analisi aperto, in divenire, e da un'istanza pluralista, incorre poi nell'esito paradossale di chiudersi entro le definizioni che assegna ai suddetti concetti: esso tramuta la 'cultura' e l'identità' in monoliti astrattamente individuati, condannati a conservarsi, così come definitivamente definiti, per continuare ad essere riconosciuti e tutelati, non riuscendo così a dar conto dei contesti sociali se non da un punto di vista logico-formale, attraverso le tessere disgiunte di una realtà che non riesce a ricomporre in un pensiero d'insieme.

Una critica analoga è mossa alla teoria post-moderna, che per l'Autore è "l'esempio più chiaro ed attuale di attitudine culturalista" (p. 131). Per tale teoria, infatti, l'epoca contemporanea, dopo la caduta del Muro di Berlino, ha perso la possibilità di scrivere una propria storia, rendendo impraticabile un esame "globale" della società: lo studio dell'attualità non può, allora, che settorializzarsi, raccontando le tante storie che accadono nel suo caleidoscopio. Così facendo, però, tale teoria concepisce i prodotti culturali quali elementi costitutivi delle relazioni sociali, anziché come effetti di un processo di soggettivazione, e finisce col ratificare lo status quo. Al contrario, Herrera Flores, pur concordando con il rifiuto dei filosofi post-moderni delle filosofie della storia, che "tendono a categorizzare il processo storico come un processo lineare" (p. 138) culminante con la fine della storia, non ne condivide la rinuncia ad un pensiero globale, che connetta le differenti sfere della realtà, dando voce a tutte.

Come si vede, la riflessione di Herrera Flores intende accordare un approccio antiessenzialista, ed il rifiuto per ogni fondazione definitiva, con la creazione di un linguaggio dei diritti che sia il frutto di una interpretazione globale del mondo. I profili propositivi forniti dall'autore, più che concentrarsi in un unico luogo del testo, prendono spazio già entro i percorsi critici. Emblematiche sono, da questo punto di vista, le pagine dedicate all'analisi del linguaggio, tra le più interessanti del libro.

L'idea che le anima è quella dell'esistenza di una cruciale parentela che lega il linguaggio al potere, nella considerazione del peculiare significato che ha il nominare: nominare conduce ad appropriarsi della realtà, e ciò avviene dai tempi dei tempi: "In principio fu il Verbo". L'incipit biblico esprime l'attribuzione, ideologica e mistificante, di una potestas fondativa alla parola; e in effetti Dio crea attraverso la parola, che è comando alla realtà di plasmarsi, secondo le intenzioni implicite, le modalità, i dettagli che in quella sola parola l'Onnipotente condensa. All'idea di un verbo creativo, poi, si contrappone quella della distruzione della Torre di Babele, reinterpretandola: scalzando il senso didattico classico e tradizionale, dal quale deriva il comando di parlare un'unica lingua (e ad attenersi ad una sola cultura) e il divieto di moltiplicare i linguaggi, egli legge il castigo dell'abbattimento della torre come destino di una proliferazione linguistica (come quella che interessa i diritti umani) che non sia preceduta dalla complessità e plurigenia comunicativa, ovvero da una complicazione della comunicazione.

Il linguaggio di per sé non fonda niente, ma sostituire la realtà con la parola è l'atto di potere primordiale, tanto più richiesto in quei regimi, quali i coloniali, dove inventare nomi risponde anche ad un'esigenza di traduzione nel proprio idioma: è per questa via che si "inferiorizzano i processi culturali colonizzati" (p. 107), ed i 'nominanti' escludono i nominati. Da qui, secondo l'Autore, la necessità di delegittimare formalmente il linguaggio dominante, rifiutando la concezione occidentale, platonica, essenzialista del linguaggio-espressione dell'essenza delle cose, che affida ad alcuni uomini "capaci" l'arte "sacerdotale" di chiamare l'Iperuranio, rendendoli con ciò detentori del potere di esclusione.

Herrera Flores si immedesima allora nell'Ermogene del Cratilo platonico, che ingenuamente sostiene la convenzionalità dei nomi, contro Socrate-Platone il quale, intravedendo le derive di questa concezione, in termini di instabilità sociale e di impossibilità di una conoscenza ferma, riserva appunto la facoltà di nominare le cose a un gruppo ristretto di professionisti. Non risulta difficoltoso pensare a una corrispondenza di coloro che hanno il privilegio di nominare con la classe politica o con i rappresentanti degli interessi dominanti.

A questo punto, Herrera Flores interseca alla riflessione sul linguaggio quella sull'identità, rinvenendo in questo concetto il richiamo ad un'esistenza fissa, limitata, prediscorsiva. Ad essa l'autore preferisce quello che chiama la soggettività o il processo di soggettivazione. Come dire, un'identità in itinere permanente, che si rinomina continuamente, anche e soprattutto a partire dalle sedi "decentrate" e marginalizzate che sempre più si configurano come "nuovi protagonisti nella creazione del valore umano" (p. 176), come soggetti resistenti, quelli che si denominano generalmente i movimenti.

Così, ripensando i concetti tipici di identità e cultura come categorie aperte, L'Autore riscopre in questo nuovo contesto di significati il valore dei diritti "umani", attribuendo loro un ruolo determinante: essi possono svolgere una funzione sociale di conoscenza, proprio in quanto referenti di un processo non finito, ma in perpetuo divenire, di consapevolizzazione delle esigenze della società e degli assetti reali delle relazioni sociali, non celando, come fanno attualmente, ma svelando, marxianamente, le strutture sulle quali poggiano. E proprio in Marx, Herrera Flores vede l'emblema di quell'analisi contestualizzata da cui le teorie dei diritti dovrebbero prendere spunto. Tale tipologia di analisi dei rapporti economici e di potere può ben costituire, infatti, il filo di quel pensiero globale che egli auspica: se i diritti umani sono risposte simboliche alla contingenza sociale, politica e, in primo luogo, economica (ciò che li rende productos culturales), è tenendo a mente questo loro carattere dinamico che vanno capiti e innovati. Nella struttura economica l'Autore individua il motivo di "riunificazione" e di coesione di una contemporaneità che appariva irrimediabilmente frammentata: "il capitale è una forza che costruisce la struttura immanente del mondo sociale" (p. 220). Così la storia deve essere suddivisa in base alle differenti tipologie di accumulazione del capitale: la fase attuale, iniziata dalla metà degli anni novanta del secolo scorso, è la fase del lavoro immateriale (il richiamo a Impero di Hardt e Negri è dichiarato), e realizza un'appropriazione globale ed ancora più pregnante dell'agire umano. Mano a mano che le lobbies economiche travalicano i limiti normativi nazionali, muovono capitali da un paese all'altro, informatizzano i processi di produzione, esse acquistano indipendenza dal 'lavoro produttivo' come creatore di valore, rendendo meno palpabili le nuove forme dello sfruttamento che, di contro, è sempre più insidioso: cambia e si amplia la dominazione, da materiale a immateriale.

Chiarire queste dinamiche e farne la chiave di lettura della realtà rende anche più evidente e più spiccata la necessità, e la possibilità, di un impiego sociale dei diritti umani, come strumenti di difesa della dignità dell'uomo: si tratta di recuperare quel ruolo che i diritti hanno avuto, negli anni settanta, nell'ostacolare le conseguenze sociali ed economiche del mercato capitalista, prima di iniziare ad essere percepiti, invece, come "costi sociali" (p. 141). L'Autore ritiene che il recupero di quella funzione sia già in atto: nell'epoca attuale è già constatabile un mutamento nella natura dei diritti umani, "un cambiamento nella [loro] retorica" (p. 145). I diritti diventano ora funzionali ad arginare le "conseguenze intenzionali e perverse di un sistema capitalista e globale antidemocratico" (ibid.). Nel Settecento essi furono creati come alternativa ai rapporti di produzione governati delle monarchie assolutiste, ed assunsero veste generale ed astratta. Oggi, con il medesimo intento di reagire alla forma di relazione sociale dominante, devono invece individuare pratiche sociali concrete e contestualizzate a difesa della dignità dell'uomo. In entrambi i casi i diritti umani si configurano come norme di potere, ma in un diverso senso: se le dichiarazioni dei diritti, pur affondando la propria origine in un antagonismo al potere egemonico, sono risultate mezzi di perpetuazione di quella egemonia, convertendo i dominati a loro volta in dominanti di classi a loro inferiori, i diritti umani della "terza fase" devono invertire tale logica. Devono concepirsi come "processi che diano potere ai deboli ed a coloro che sono pregiudicati dalle relazioni di violenza strutturale" (p. 240). Un potere che, però, non coincide più con lo sfruttamento e si traduce in capacità partecipativa alla democrazia ed rivendicare contenuti di dignità.

La riflessione di Herrera Flores considera necessario attribuire alle Carte dei diritti un contenuto diverso: egli pensa a diritti umani i cui titolari non siano astrattamente evocati, ma che indichino già essi stessi, precisamente, "le differenti posizioni sociali che occupano gli individui ed i gruppi nel momento in cui si trovano, effettivamente, ad accedere ai contenuti di quei diritti" (p. 196), mostrando con ciò le possibilità reali di fruizione dei vantaggi proclamati: in tal modo, nella misura in cui i diritti sono il presupposto per una redistribuzione delle risorse, si assottiglia la distanza che separa la politica e l'economia. La contestualizzazione, il materialismo e l'immanenza, le relazioni socio-economiche, che per un verso consentono la costruzione diuna teoria dei diritti, dall'altro non possono che condurre a formulazioni meno generali e più collocate, più precise e programmatiche, più vicine forse ad una produzione normativa di tipo secondario ed esecutivo, che attui già essa stessa le istanze di "riappropriazione" della realtà che la moltitudine resistente reclama.

Chiara Magneschi