2010

J. Griffin, On Human Rights, Oxford University Press, Oxford 2008, ISBN 978-0-19-923878-1

Sostiene James Griffin, professore emerito di filosofia morale a Oxford, in questa che il suo collega oxoniense John Tasioulas ha definito "la più significativa meditazione sui diritti umani dalla Dichiarazione Universale", che i diritti umani sono esposti nel mondo contemporaneo a un rischio di indeterminatezza. Nati come diritti naturali, all'ombra della grande tradizione della legge di natura, i diritti umani si sono emancipati dal legame teologico a partire dall'illuminismo, attraverso la ben nota vicenda delle dichiarazioni rivoluzionarie, della positivizzazione nel corso del diciannovesimo secolo e della successiva internazionalizzazione culminata nella seconda metà del ventesimo secolo nella costruzione dell'attuale regime internazionale. Questo processo di secolarizzazione ha prodotto però una crescente indeterminatezza nel contenuto dei diritti, tanto che oggi non siamo in grado di dire se una determinata posizione soggettiva può qualificarsi come diritto umano o meno (cap. 1).

A questa indeterminatezza si deve rispondere con resoconto sostantivo, vale a dire che faccia leva su valori sottostanti e condivisi, e non meramente strutturale, come quelli di Feinberg ("The Nature and Value of Rights", in Journal of Value Inquiry, 4 (1970), pp. 243-57), Dworkin (Taking Rights Seriously, London, Duckworth, 1977, trad. it. parz. I diritti presi sul serio, Bologna, il Mulino, 1982) e Nozick (Anarchy, State and Utopia, New York, Basic Books, 1974, trad. it Anarchia, stato e utopia, Milano, Il Saggiatore, 2000), o legale-funzionale, come quelli di Rawls (The Law of Peoples, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1999, trad. it. Il diritto dei popoli, Torino, Edizioni di Comu­nità, 2001) e Beitz ("Rawls's Law of Peoples", in Ethics, 110 (2000), pp. 669-96. Vedi anche Ch.R. Beitz, The Idea of Human Rights, Oxford, Oxford University Press, 2009). L'opzione di Griffin, a questo proposito, è in favore di un resoconto che faccia leva sui concetti di "personhood" e di "normative agency": i diritti umani sono dovuti a tutti gli individui in quanto essi possiedono lo status di persone, vale a dire agenti autonomi capaci di decidere quali cose siano dotate di valore e perseguire questi beni. Il ricorso alla nozione di agente normativo garantisce alcuni diritti "astratti", come il diritto alla vita, alla sicurezza, alla libertà di espressione, e così via, che richiedono tuttavia di acquisire una specificazione più concreta attraverso il ricorso a quelle che Griffin chiama "practicalities", cioè considerazioni empiriche intorno alla natura dell'uomo e alle caratteristiche costanti delle società umane (cap. 2).

Un tratto caratteristico della proposta di Griffin è che la sua fondazione dei diritti umani in termini di "personhood" coesiste con la scelta di un'etica teleologica - ma non consequenzialista e tanto meno utilitarista. Secondo Griffin l'attribuzione di diritti rafforza le nostre intuizioni intorno a ciò che possiede valore. I diritti umani proteggono i beni fondamentali per la vita. Da ciò segue però che non esistono diritti assoluti: in certi casi i diritti possono cedere di fronte a considerazioni di natura morale che promettono di perseguire beni ancora più grandi. Per questa strada Griffin ammette la possibilità di conflitti fra diritti, in particolare fra diritti civili e diritti sociali. Ma ammette anche la liceità della detenzione arbitraria di individui sospetti disposta per scongiurare il rischio di un attacco terroristico di vasta portata (cap. 3).

In rapporto alla questione di chi siano i titolari dei diritti umani - discussa nel cap. 4 - Griffin assume un atteggiamento aperto. Griffin si affretta a precisare che la fondazione dei diritti in termini di personhood non predetermina una risposta univoca alla domanda se i bambini più piccoli, le persone in stato di coma e quelle afflitte da gravi deficienze mentali - al di là delle obbligazioni morali che sono dovute nei loro confronti - siano da considerarsi titolari di diritti umani, perché l'interrogativo che deve essere sciolto riguarda il contenuto positivo dello status di persona che entra in gioco nell'attribuzione dei diritti. Tuttavia, Griffin ritiene che alla questione in esame possa essere data risposta negativa sulla base di fattori pragmatici e sottolinea che, allo stesso modo in cui lo status di agenti si acquisisce e si perde in vari stadi, così avviene anche per la titolarità dei diritti: non esistono confini rigidi tra i soggetti che sono titolari di diritti umani e quelli che non lo sono, l'attribuzione è sempre contestuale e non può prescindere da una valutazione caso per caso.

Per quanto riguarda il problema tradizionale della correlatività tra diritti e doveri, Griffin distingue, nel cap. 5, tra doveri primari e secondari. I doveri primari formano il contenuto della maggior parte dei diritti tradizionali: così il diritto alla vita comporta il dovere da parte di tutti i soggetti di astenersi dal minacciare la vita degli altri esseri umani e, almeno in alcune situazioni, di attivarsi per salvaguardarla (non quindi un dovere puramente negativo). I doveri secondari invece consistono nell'obbligazione di porre in essere le condizioni al contorno che favoriscono lo stabilirsi della cultura dei diritti. Tuttavia, in rapporto a certe posizioni soggettive, soprattutto per quanto riguarda i cosiddetti diritti sociali, non è sempre sicuro chi sia il soggetto titolare dell'obbligazione a elargire la prestazione che costituisce il diritto né il contenuto del dovere stesso. Per esempio, per quanto riguarda il diritto alla salute non è chiaro chi sia il soggetto obbligato a fornire l'assistenza sanitaria - se nel caso di governi particolarmente indigenti essa non ricada anche sulle grandi potenze industriali o sulle compagnie farmaceutiche che potrebbero fornire gratuitamente o a prezzo ridotto i farmaci necessari a contenere il diffondersi di una grande infezione, come l'AIDS in Africa - né quali prestazioni comportino, in concreto, la soddisfazione del diritto. A questo proposito, Griffin ritiene che non sia necessario che il titolare del dovere e il contenuto della prestazione doverosa siano attualmente esistenti, è sufficiente che essi siano completamente specificabili, e che il contenuto della prestazione doverosa vada precisato in relazione alla soddisfazione dei requisiti che rendono possibile la normative agency.

Il cap. 6 è dedicato all'esplorazione della metafisica dei diritti umani. Riprendendo le linee portanti di un suo testo precedente (Value Judgement: Improving Our Ethical Beliefs, Oxford, Oxford University Press, 1996), Griffin sostiene che rispetto al cosiddetto "taste model", che assimila i giudizi di valore ai giudizi di gusto, introducendo una rigida separazione tra fatti e valori, e al perception model), che assimila i giudizi di valore ai giudizi percettivi, al prezzo però di postulare una spiegazione naturalistica del perché certi fatti appaiono connotati assiologicamente, è preferibile una posizione intermedia, che viene indicata come recognition model, secondo la quale i giudizi di valore costituiscono un asse portante del mondo umano. Essi sono parte del framework linguistico attraverso il quale ci confrontiamo con la realtà ma non sono per questo meno naturali: essi possono essere veri o falsi e fanno leva su proprietà che gli agenti umani "riconoscono" nel momento in cui formulano i propri giudizi. Griffin così, in linea con altri esponenti dell'aristotelismo morale contemporaneo - soprattutto David Wiggins e John McDowell - rigetta la dicotomia tra fatti e valori.

Il tema della relatività culturale dei diritti umani è pressoché ineludibile nel dibattito accademico contemporaneo, né Griffin cerca di sottrarsi a questo luogo comune. Nel cap. 7 critica in primo luogo la tesi del relativismo morale. Anche senza rifiutare la possibilità di altre forme di vita che seguano standard morali diversi dai nostri, Griffin ritiene che la tesi relativista sia assai poco plausibile, dal momento che le divergenze valutative che sono generalmente chiamate in causa per giustificare la tesi dell'esistenza di sistemi morali alternativi al nostro - per esempio, divergenze nella valutazione dell'infanticidio, dell'aborto e simili - siano più facilmente spiegabili riconducendole ai diversi contesti materiali in cui comunità diverse sono immerse. Per quanto riguarda poi l'argomento del presunto carattere etnocentrico dei diritti umani, vale a dire la tesi secondo la quale i diritti umani non possono essere oggetto di un consenso globale in ragione della loro genesi occidentale, Griffin sostiene che non vi siano reali ostacoli all'apprezzamento da parte di esponenti di culture non occidentali del valore dei diritti umani come tutela della personhood e dello status di agenti degli esseri umani. Per un verso infatti, come Amartya Sen ("Human Rights and Asian Values", The New Republic, 14-21 luglio 1997, pp. 33-40, trad. it. "Diritti umani e valori asiatici", in A.K. Sen, Laicismo indiano, Milano, Feltrinelli, 1998, pp. 147-66) e altri hanno mostrato, alcuni dei valori costituitivi del lessico politico occidentale trovano consonanti enunciazioni nella tradizione di molte culture orientali. D'altra parte, la storia dimostra che indiani, cinesi e musulmani non hanno incontrato nessuna difficoltà nel servirsi del lessico dei diritti umani quando questo si è rivelato utile per portare avanti le loro rivendicazioni. Su questo punto, si potrebbe però obbiettare che sotto l'etichetta di diritti umani si cela una costellazione di teorie, storicamente stratificate e diversificate che non possono essere facilmente ridotte a unità. Rispetto a questa congerie di materiali, spesso politicamente connotati in maniere radicalmente differenti, non è di grande utilità richiamare somiglianze di superficie con enunciazioni estratte da testi storicamente e culturalmente molto lontani e nemmeno appellarsi a principi di azione politica per dimostrare una reale condivisione di contenuti, come Griffin intende fare. D'altra parte, poi, lo stesso personhood account viene presentato inizialmente dallo stesso Griffin come un resoconto esplicativo dell'idea di diritti umani, rivolto principalmente a dissiparne l'indeterminatezza e la vaghezza. Ma se così stanno le cose è quantomeno controintuitivo supporre che esso possa servire da base per un consenso globale intorno ai diritti umani. Sono incline a supporre che gli elementi parziali raccolti da Griffin per dimostrare il carattere non etnocentrico dei diritti umani possano giustificare la fiducia in un fruttuoso dialogo interculturale sulla materia. Solo che il personhood account rappresenta una teoria troppo specifica, esigente ed etnocentrica per costituire un confortevole punto di partenza.

Nei tre capitoli successivi Griffin esplora i tre elementi in cui si decompone il proprio concetto di normative agency e che costituiscono i tre diritti di più alto livello: autonomy, liberty e welfare. Per quanto riguarda il primo elemento, Griffin presenta il concetto di autonomy come una costruzione elaborata a partire soprattutto dal quindicesimo secolo contestualmente all'emersione della soggettività moderna. L'autonomia, nel senso di Griffin, è la capacità di formarsi un'idea consapevole di ciò che possiede valore nella vita e di perseguire quegli obbiettivi. Ma l'autonomia richiede l'assenza di vincoli esterni che limitino l'azione e la disponibilità di alternative valide fra cui scegliere. Perciò l'autonomy presuppone quella che Griffin chiama liberty. Questa nozione non coincide con quella di libertà negativa di Isahia Berlin ("Two Concepts of Liberty", in I. Berlin, Four Essays on Liberty, Oxford, Oxford University Press, 1969, ristampato in I. Berlin, Liberty, a cura di H. Hardy, Oxford, Oxford University Press, 2002, trad. it. "Due concetti di libertà", in I. Berlin, Libertà , Milano, Feltrinelli, 2005, pp. 169-222), perché può comprendere l'assolvimento di doveri positivi, come quello di predisporre un appropriato range di opzioni valide fra le quali esercitare la propria scelta di vita. Non coincide neppure con il principio formulato da John Stuart Mill secondo il quale la libertà si estende fino al punto di non arrecare danno agli altri, perché tale principio è posto a tutela della sfera privata, mentre la liberty di Griffin tutela in primo luogo la personhood degli agenti. Autonomia e libertà richiedono tuttavia la disponibilità di un insieme almeno minimo di beni fondamentali affinché la normative agency delle persone possa esplicarsi. Nel caso dei welfare rights Griffin precisa in primo luogo che la nascita dei diritti sociali è almeno contemporanea a quella dei diritti civili, dal momento che la genesi stessa della nozione di diritto naturale, ad opera dei canonisti medievali è legata all'esigenza di apprestare strumenti di tutela per i più poveri. Argomenta quindi che la disponibilità di un insieme minimo di beni fondamentali è un ingrediente necessario del nostro status di agenti normativi.

I capitoli che compongono la terza parte di On Human Rights - che, per motivi di spazio, esaminerò più rapidamente - sono dedicati ad esplorare alcune applicazioni della teoria. Il cap. 11 esamina alcune discrepanze tra la lista di diritti generata dal personhood account e quelli riconosciuti nelle principali dichiarazioni internazionali, concludendo che i due elenchi hanno finalità e ragioni di essere diverse. Il cap. 12 esplora il contenuto del diritto alla vita e argomenta a favore di un corrispondente diritto alla morte - non solo diritto a scegliere di morire, nel caso di irreversibile e gravosa infermità, ma anche diritto a ricevere un aiuto materiale a determinare la propria morte nel caso che la malattia o altri impedimenti precludano di assumere questa risoluzione autonomamente. Il cap. 13 analizza il contenuto del diritto alla privacy attraverso un interessante confronto con la giurisprudenza statunitense. La conclusione è che secondo Griffin il diritto alla privacy si riduce alla protezione da indebita diffusione di notizie concernenti la propria vita privata. Il cap. 14 si sofferma sul problema del rapporto tra democrazia e diritti umani. È possibile una società non democratica in cui tuttavia sia garantito il rispetto dei diritti umani? Griffin risponde affermativamente per le società del passato mentre ritiene che nel mondo attuale sia più verosimile ritenere che i due elementi non possano venire separati. Il cap. 15, infine è dedicato al tema dei diritti collettivi. L'autore vi sostiene che le rivendicazioni avanzate da gruppi coinvolgono più questioni di giustizia che situazioni pertinenti a diritti.

Nel vasto panorama dei testi contemporanei dedicati ai diritti umani, il libro di James Griffin spicca per completezza delle tematiche trattate, per la chiarezza e l'eleganza dell'esposizione - l'inglese di Griffin è ben diverso da quello della maggior parte della saggistica filosofica - e per la capacità di sviluppare una tesi chiara e semplice, utilizzandola come una guida per rispondere agli interrogativi che i diritti umani sollevano - unico neo, a questo proposito, è il numero limitato di autori contemporanei con i quali Griffin si confronta: sorprende, per esempio l'assenza di riferimenti ad un autore peraltro vicino a Griffin come Martha Nussbaum (vedi soprattutto Women and Human Development: The Capabilities Approach, Cambridge, Cambridge University Press, 2000, trad. it. Diventare persone. Donne e universalità dei diritti, Bologna, il Mulino, 2001). Restano alcune perplessità legate al personhood account di Griffin. Ho già cercato di mettere in luce le difficoltà legate al suo malcelato etnocentrismo. Vorrei aggiungere ora che tali difficoltà sono un sintomo di un problema più generale. Griffin, nel suo tentativo di perseguire un'etica teleologica ma non consequenzialista fa leva frequentemente su intuizioni comuni riguardo al bilanciamento fra beni diversi. Per esempio, nel caso dei conflitti fra diritti, quando asserisce che la detenzione immotivata di alcuni sospetti può essere giustificata dalla necessità di scongiurare un attacco terroristico di vaste proporzioni, sulla base della comparazione dei beni coinvolti. Questo modo di procedere non è capace, a mio avviso, di fronteggiare il rischio del dissenso, sempre presente nelle nostre società pluraliste e minaccia di frantumare la riflessione in una discussione, tutto sommato sterile, di singoli casi. La posizione di Griffin allude a una dimensione unitaria dello spazio sociale che probabilmente è perduta per sempre.

Leonardo Marchettoni