2005

A. Gorz, L'immatériel. Connaissance, valeur et capital, Galilée, Paris 2003, trad. it. L'immateriale. Conoscenza, valore e capitale, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 107, ISBN 88-339-1479-8

Cosa succede quando il sapere diventa forza produttiva diretta e centrale nella produzione capitalistica? È questa la domanda centrale da cui prende le mosse André Gorz nel suo ultimo lavoro, dal significativo titolo L'immateriale. Perché è questa, secondo il filosofo austriaco, la principale caratteristica del lavoro di oggi, che sostituisce la centralità della produzione materiale, tramontata nell'ultimo quarto del secolo scorso. Ma se così è, siamo di fronte a qualcosa di ben più importante del semplice venir meno delle grandi fabbriche e dell'affermarsi di nuove forme produttive: saperi e conoscenze sono per loro stessa natura non misurabili in unità di tempo, dunque irriducibili ai parametri classici della valorizzazione capitalistica e del profitto. Si genera insomma una contraddizione fortissima: i tre termini del sottotitolo - conoscenza, valore e capitale - non possono convivere. L'«economia della conoscenza» non rappresenta un nuovo stadio dello sviluppo capitalistico, né un modo di produzione che si affianca a quelli già esistenti: «L'economia dell'abbondanza tende di per sé verso una economia della gratuità e verso forme di produzione, di cooperazione, di scambi e di consumo fondate sulla reciprocità e la messa in comune, nonché su nuove monete. Il "capitalismo cognitivo" è la crisi del capitalismo tout court» (p. 34).

La base di partenza dell'analisi di Gorz riassume i risultati della miglior letteratura su ciò che è stato definito postfordismo. Il cuore del mutato paradigma produttivo è rintracciabile nelle capacità espressive, cooperative e creative che caratterizzano i lavoratori odierni e li differenziano radicalmente da quelli delle manifatture e delle industrie taylorizzate. Costoro, sostiene l'a., dovevano varcare i cancelli delle fabbriche spogliandosi del loro bagaglio culturale e dei saperi acquisiti, che sono invece proprio le risorse indispensabili della produzione immateriale contemporanea. Come osservano Muriel Combes e Bernard Aspe, non sono tanto gli individui che devono interiorizzare la cultura di impresa, come vorrebbero i manuali del buon toyotista; piuttosto è l'impresa che cercherà all'esterno le competenze e le capacità di cui necessita, sussumendole ai fini del profitto. Cambia il quadro rispetto al rapporto salariale, che sanciva la separazione degli interessi tra le parti, tracciando un confine netto tra la sfera del lavoro e quella della vita privata, impedendo altresì un coinvolgimento completo del lavoratore nelle mansioni svolte. In termini jüngeriani, oggi assistiamo invece alla «mobilitazione totale» del lavoro, la messa a valore dell'intera vita, a partire dalla produzione di sé. La classica categoria di sfruttamento in quanto estorsione di pluslavoro non è più, secondo Gorz, applicabile a un processo produttivo in cui sono saltate le tradizionali unità di misura: l'impresa cattura dal «didietro» lo sforzo di un lavoratore che pensa di agire autonomamente. La fonte della ricchezza cessa di essere la fabbrica, che di essa si fa predatrice. L'autosfruttamento diventa fondamentale nel processo di valorizzazione, in modo direttamente proporzionale all'assunzione di centralità della soggettività - e della sua produzione - come terreno di conflitto.

Questo contesto è tutt'altro che pacificato: esistono molteplici pratiche di «dissidenza digitale» messe in atto da chi rifiuta che la propria attività e le proprie forme di cooperazione vengano misurate e ridotte alla forma del valore e della merce, da chi ne rivendica la pubblicità in quanto beni comuni. Chi non accetta, insomma, che i propri saperi, frutto di esperienze e pratiche, siano ridotti a conoscenze, contenuti formalizzati e oggettivati che non possono, per definizione, appartenere alle persone.

La strutturale eccedenza del sapere vivo rispetto alla possibilità di una sua appropriazione privata, indica l'inevitabile crisi della misura del valore, la materiale diserzione dalle sue leggi. È allora ancor più stridente il contrasto tra i processi reali e il lessico dei "capitali": «Le parole non sono innocenti quando includono "ingenuamente" nei rapporti sociali del capitale ciò che, solo qualche anno fa, sembrava destinato a sfuggire loro. Penso all'inflazione di "capitali" veicolata ormai dal pensiero dominante: "capitale culturale", "capitale intelligenza", "capitale istruzione", "capitale esperienza", "capitale sociale", "capitale naturale", "capitale simbolico", "capitale umano" e "capitale conoscenza" o "cognitivo", soprattutto, base del "capitalismo cognitivo", ossia della "società cognitiva", capitalistica, evidentemente» (pp. 51-52). Se economia della conoscenza ed economia capitalistica sono incompatibili, il valore di scambio della conoscenza diventa coercitivamente legato alla limitazione della sua libera diffusione, per esempio attraverso l'imposizione di brevetti e copyright. Con le parole dell'a., «la "proprietà intellettuale" ma anche il "segreto aziendale" diventano imperativi. Senza di loro, niente "capitale cognitivo"» (p. 42).

Se la fonte della produttività sta in un'organizzazione che promuove l'autorganizzazione, i mutamenti in atto possono condurre verso una «società dell'intelligenza», in una marcia di cambiamento globale guidata da una coalizione in cui i più oppressi si alleano con i lavoratori della conoscenza, una sorta di nuova avanguardia consapevole della necessità rivoluzionaria. Allo stesso tempo, non è esclusa la speculare ipotesi di una «civiltà postumana», inquietante orizzonte dominato dall'artificializzazione della natura, dalla decorporeizzazione dei rapporti sociali, dalla trasformazione del «mondo in merci di cui il capitale monopolizza la produzione, ponendosi in tal modo come padrone dell'umanità» (p. 85). E tuttavia, per allentare i fantasmi di una simile prospettiva, «l'alleanza tra il capitale e la scienza presenta da qualche tempo delle fessure. Infatti se non si tratta più per il capitale di emanciparsi dalla sua dipendenza dalla scienza, per la scienza si apre la prospettiva di potersi emancipare dal capitalismo» (p. 86).

Sull'importanza della conoscenza nella produzione e nello sviluppo economico, è da poco disponibile la traduzione italiana dell'interessante e documentato volume di Joel Mokyr I doni di Atena (Il Mulino, 2004), Pur da prospettive antitetiche, Gorz sembra condividere con lo storico americano dell'economia una fiducia di fondo nell'inevitabile prevalere della razionalità dello sviluppo. Nell'economia della conoscenza il teorico cresciuto in Francia individua lo stadio di dissoluzione del capitalismo, laddove Mokyr vi legge l'armoniosa affermazione della superiorità del libero mercato rispetto alle forze conservatrici che vorrebbero bloccarne le portentose leve.

Gorz si conferma uno dei più lucidi scienziati sociali della contemporaneità, arricchendo e restituendo in modo chiaro e stimolante le migliori ricerche sulle trasformazioni del lavoro e le possibilità di un'uscita dal capitalismo. Tuttavia, la sua analisi sembra a tratti oscillare tra un incauto ottimismo - come se i brutali rapporti di forza fossero espunti dall'oggettiva dinamica di un capitalismo inequivocabilmente giunto al suo esaurimento - e un eccessivo catastrofismo. Il rischio è dimenticare che nel profetico Frammento sulle macchine, dopo aver descritto il momento in cui il lavoro immediato e la sua quantità scompaiono come principio dominante della produzione, che passa quindi sotto il controllo del general intellect, Marx si affretta a sottolineare come per il capitale diventi question de vie et de mort continuare a misurare il tempo di lavoro. Sarebbe infatti ingenuo pensare che il sistema capitalistico si basi su elementi di pura razionalità: va dunque mantenuta la vigenza della legge del valore, laddove essa ha cessato di essere valida. Insomma, tra «società dell'intelligenza» e «civiltà postumana» il processo non solo non è lineare né dicotomico, ma soprattutto è fortunatamente popolato di soggetti in carne e ossa, con i loro saperi, interessi, obiettivi, contraddizioni, forme di vita e di cooperazione, aggregazioni collettive e conflitti.

Gigi Roggero