2010

V. Giacché, La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea, DeriveApprodi, Roma 2008, ISBN 978-88-89969-51-9

Nella prima parte del suo volume, descrivendo le odierne strategie della comunicazione politica, l'autore di La fabbrica del falso illustra una sorta di mondo orwelliano, in cui la storia si fa come non mai instrumentum regni. Il controllo del passato, in quest'ottica, risponderebbe quindi a diverse esigenze, riconducibili essenzialmente alla necessità da parte di chi detiene il potere di "rintracciare nella storia la conferma dell'immagine che la società attuale intende dare di se stessa e della propria presunta superiorità" (p. 12). Tutte le contraddizioni presenti nel passato vengono quindi semplificate, ridotte alla coppia concettuale buono/cattivo e, di fatto, si assiste alla neutralizzazione della storia stessa, non più luogo del conflitto, ma banalmente teatro di passioni riconducibili alle idee sempre eguali di bene/male. La società contemporanea appare quindi, in questa ricostruzione, come il migliore dei mondi possibili, una società finalmente pacificata grazie al lavoro illuminato dei governanti, in cui non ha senso riproporre le irrazionali diatribe del passato.

Il controllo della storia è dunque importante per il potere mediatico/politico contemporaneo, ma secondo Giacché altrettanto necessario appare il controllo della cronaca, ovvero il racconto degli avvenimenti legati all'attualità. In questo senso numerose sono le tecniche di comunicazione per mascherare la verità su un determinato avvenimento. Si può decontestualizzarlo, rimuoverlo, distorcerlo, imbellettarlo o persino capovolgerlo nel suo significato. Luogo privilegiato in cui si esercitano queste capacità è la guerra, che dopo l'11 settembre è divenuta guerra al terrore, ovvero un gigantesco contenitore in cui è possibile vedere tutto e il contrario di tutto. I luoghi comuni legati a tale idea sono diversi. Il primo di essi è che ogni cosa sia cominciata l'11 settembre e che proprio perciò ogni cosa possa essere giustificata a partire da questo evento traumatico. L'11 settembre è quindi a fondamento di un'idea di mondo quasi mistico-religiosa, in cui si parla di bene contro male e in cui si esalta la cultura occidentale e la superiorità del sistema politico democratico, arrivando alla conclusione che questo stesso sistema può e deve essere esportato. La forza di questa strategia comunicativa sta, secondo Giacché, nella sua "resilienza", ovvero "nella sua capacità di resistere e di tenere nonostante ogni evidenza contraria" (p. 52). Tale capacità è in gran parte spiegabile grazie al fatto che i luoghi comuni legati alla guerra si avvalgono dei vocaboli tipici della retorica comunicativa contemporanea. Da un lato abbiamo infatti i termini positivi: democrazia, mercato, e sicurezza, mentre dall'altro lato ritroviamo i grandi nemici, ovvero terrorismo e totalitarismo.

Queste parole meritano, secondo Giacché, un'ulteriore analisi, a partire dall'idea di democrazia, che si configura oggi come un vero e proprio "grimaldello ideologico", capace di "giustificare le più recenti guerre di aggressione" (p. 54). Proprio la democrazia ha però subito negli ultimi decenni un attacco che si articola in diversi punti. Innanzitutto essa non è più un contenuto/fine, ma un mezzo/metodo. In quest'ottica chi detiene la sovranità, il popolo, finisce per avere sempre meno importanza, limitandosi a decidere solo chi deve decidere. Tale tendenza è aggravata dalla progressiva mancanza di partecipazione, che in nome della pace sociale viene addirittura esaltata da tanti teorici liberaldemocratici. La democrazia oggi è insomma ridotta a procedura elettorale e la stessa rappresentanza è messa in dubbio dal dilagare dei sistemi elettorali maggioritari, che di fatto limitano le possibilità di scelta degli elettori. In questo contesto si assiste inoltre, dopo l'11 settembre, a un vero e proprio stato di eccezione planetario, che sta determinando nelle attuali democrazie un progressivo accentramento del potere negli organi esecutivi, penalizzando il potere legislativo e l'autonomia del potere giudiziario. La sfida proposta da Giacché è quindi quella di recuperare il concetto di democrazia, ponendo di nuovo "all'interno del discorso sulla democrazia e del concetto di democrazia, l'obiettivo dell'eguaglianza" (p. 67).

Altra parola usata e abusata oggi nella comunicazione politica è il termine sicurezza. Soprattutto dopo l'11 settembre in nome della sicurezza si è messa in moto una vera e propria "fabbrica della paura" (p. 73), i cui principali protagonisti sono due: il potere politico e, in secondo luogo, l'industria della notizia stessa. Il concetto di sicurezza usato dai media ha tuttavia connotazioni essenzialmente poliziesco-militari, per cui in esso non sono presenti tutte le insicurezze che probabilmente assillano maggiormente la popolazione planetaria, molto più toccata dall'insicurezza economico-sociale, dall'insicurezza alimentare, sanitaria e ambientale, che da un eventuale attentato terroristico. La costruzione di "false sicurezze securitarie" è insomma "una strada sempre aperta per sopperire alla vera insicurezza del vivere" (p. 80).

Il terzo concetto ricorrente nella comunicazione contemporanea è quello di mercato, che viene presentato come il vero e proprio luogo naturale dell'ordine economico. Questa idea è favorita, secondo l'analisi di Giacché, da alcuni luoghi comuni facilmente criticabili. Il primo di essi è che nel mercato sovrano sia il consumatore, gli altri dicono invece che il mercato sia razionale, che in esso vige la concorrenza e che l'antitesi del mercato sia lo stato. A questo proposito appare evidente come il consumatore sia guidato nelle sue scelte da precise strategie di mercato, come la presunta razionalità del mercato sia ben diversa dalla razionalità della società nel suo complesso, come di fronte a cartelli e trust sia difficile parlare di concorrenza e come lo stato sia parte integrante del mercato, che spesso si aspetta aiuti proprio da parte del potere politico.

Democrazia, sicurezza, mercato sono quindi oggi l'incarnazione delle forze del bene e a tali idee si oppone il binomio totalitarismo/terrorismo, intendendo in massima parte per totalitarismo ciò che è contrario al modello occidentale e per terrorismo il nemico onnipresente, elusivo e sfuggente che sostituisce efficacemente il vecchio nemico sovietico della guerra fredda. Il terrorismo infatti non è un nemico vero e proprio, ma piuttosto una tattica, per cui la parola terrorismo/terrorista può essere applicata ad un'enorme varietà di avvenimenti, persone e situazioni, dimostrandosi estremamente flessibile ed adattabile alle diverse necessità della comunicazione contemporanea.

L'analisi di Giacché continua nella seconda parte del suo volume prendendo in considerazione le interazioni tra formazione del soggetto e informazione, partendo dal presupposto che il soggetto contemporaneo sia innanzitutto consumatore. Il lavoro oggi è finalizzato al guadagno per il consumo e consumare non è solo un desiderio, ma nel contesto della martellante pubblicità mass-mediatica diviene una sorta di obbligo. Consumare significa infatti portare avanti il circolo vizioso della produzione capitalistica e quindi garantire la sopravvivenza stessa del sistema. Il soggetto consumatore contemporaneo ha poi nella televisione il proprio referente principale, il luogo della propria formazione e, allo stesso tempo, il palcoscenico in cui esibirsi. Proprio tale condizione implica, secondo Giacché, la "rottura completa con il soggetto della modernità. Quel soggetto che pretendeva di legiferare sul mondo...è oggi ridotto al ruolo di un mediocre caratterista che mendica applausi, o anche solo un brandello di attenzione, quindici minuti di notorietà" (p. 164). Parafrasando Debord, insomma, il procedimento di soggettivazione avviene oggi in una vera e propria società dello spettacolo, in cui mediazione e separazione la fanno da padroni e in cui linguaggio e significato vengono appiattiti "sulle forme del linguaggio pubblicitario e televisivo" (p. 189), il cui scopo "non è convincere ma intrattenere, non è confutare, ma distrarre, non è fornire saldi punti di riferimento ma favorire l'annullamento di ogni certezza" (p. 191).

Nella terza e ultima parte del suo volume Giacché si concentra infine sulle possibili strategie di resistenza alla situazione da lui delineata. Il primo passo in questo senso non può che essere sul piano linguistico/concettuale, ovvero la riappropriazione del sé e delle parole che compongono la coscienza individuale. L'altro passo chiama invece "in causa la prassi. É infatti illusorio pensare che la guerra delle parole possa essere vinta solo sul terreno lessicale: soltanto attraverso un cambiamento dei rapporti di forza nella società sarà possibile restituire un senso alle parole oggi svuotate dal potere" (p. 224). Centrale diviene quindi riacquisire prospettiva storica, cominciando a riarticolare tra loro passato, presente e futuro. Pensare e praticare il conflitto oggi è quindi per Giacché fondamentale, poiché questo significa ripensare il passato al di là della vulgata che ne viene data e quindi in qualche modo poter essere istruiti da esso allo scopo di costruire un futuro di cui, a fronte delle drammatiche criticità del presente, si sente decisamente la mancanza.

Giacché riprende elementi di analisi critica da gran parte della sociologia contemporanea, leggendo e riproponendo, tra le altre, argomentazioni di Debord, Bauman e Žižek, cui si aggiungono elementi di analisi provenienti dalla tradizione marxista, con particolare riguardo, soprattutto nell'ultima parte, a Walter Benjamin. Il risultato finale è interessante e il libro è piacevole da leggere, grazie anche allo stile scorrevole e ai numerosi esempi che l'autore, per suffragare le sue tesi, trae dalla cronaca per poi riportarli sul piano dell'interpretazione teoretica.

Valerio Martone