2008

R. Gherardi, Il futuro, la pace, la guerra. Problemi della politica moderna, Carocci, Roma 2007, pp. 142 (*)

Nel quadro di un diffuso rinnovato interesse per gli studi sul "problema della guerra e le vie della pace", il volume dell'A propone un'ampia riflessione sul pensiero politico internazionalistico sviluppatosi in Europa lungo gran parte dell'età moderna.

Il volume si apre con un capitolo in cui si prendono in esame le idee sulla guerra e sulla pace elaborate in un ampio arco di tempo: dalla seconda metà del Seicento agli anni immediatamente precedenti la Prima guerra mondiale. L'intento specifico di questa prima parte è quello di mostrare come i più importanti scrittori politici europei abbiano posto in relazione la riflessione sulla pace e sulla guerra con altri temi "classici" del pensiero politico, come quello delle forme di governo e del sistema economico. A proposito del rapporto tra pace e forme di governo, già nel Settecento - basti pensare a Montesquieu, Rousseau, e Kant - viene argomentata la tesi che gli ordinamenti repubblicani facilitino la formazione di un assetto internazionale pacifico. Per quanto riguarda, invece, la relazione tra la pace e l'economia, nel Settecento si sviluppano almeno due correnti di pensiero: la prima, ben nota, è rappresentata dagli economisti seguaci di Smith (Cobden, Say, Bastiat), che inaugurano un fortunato filone di idee sulle virtù pacificatrici del libero commercio. Al contrario, gli esponenti della seconda, tra cui si possono ricordare almeno Rousseau e Fichte, sostengono - sia pure da prospettive differenti - che l'agricoltura e l'economia di sussistenza tendono a impedire l'esplosione di conflitti internazionali; mentre l'espansione del commercio, e dell'industria corrispondono a una politica estera di potenza.

L'analisi delle complesse relazioni che intercorrono tra gli aspetti interni e internazionali della politica assume tratti peculiari nell'Ottocento, con lo sviluppo di correnti filosofiche e politiche come il positivismo, il liberalismo, il socialismo. Tra i socialisti prevale l'idea, secondo cui l'esplodere dei conflitti sul piano internazionale è strettamente collegato al modo di produzione capitalista. La strada maestra verso la pace, quindi, è quella della rivoluzione socialista che, abolendo lo sfruttamento classista, abolirà anche la guerra. Per gli intellettuali positivisti e liberali, invece, non sarà necessario alcun mutamento rivoluzionario del sistema economico per eliminare la guerra tra gli Stati. Al positivista Comte, per esempio, la guerra appare come un retaggio del passato, destinato a scomparire grazie all'avanzata della scienza positiva. A giudizio del liberale Constant, invece, sarà il libero commercio che, favorendo l'omogeneità di «costumi e abitudini», renderà la guerra un «anacronismo grossolano». E, infine, secondo quell'attento osservatore delle dinamiche democratiche che è Tocqueville, la guerra diventerà un fenomeno più raro con l'espandersi del sistema democratico o, meglio, «a mano a mano che le condizioni diverranno più uguali».

Questo ottimismo sul futuro pacifico dei popoli europei e americani, però, non deve essere considerato in modo troppo rigido; anzi, non bisogna incorrere nell'errore di credere che il pensiero dell'Ottocento sia caratterizzato solo da una acritica fiducia nelle virtù pacificatorie della rivoluzione, della scienza, del commercio o della democrazia. I ragionamenti dei socialisti, dei liberali, dei positivisti sulla guerra sono ben più complessi e problematici, come l'A ha cura di mettere in evidenza. Così, per esempio, viene ricordato che, nelle pagine di Constant, accanto alle ottimistiche previsioni sugli effetti del commercio, si trovano anche riflessioni in cui egli mette in guardia dalla possibile associazione della mentalità prettamente acquisitiva, tipica delle società commerciali, con la pratica della violenza. Tale associazione, secondo Constant, produrrebbe una «nuova razza guerriera» di estrema ferocia perché pronta a elevare il possesso di ricchezza «a fine supremo», senza alcun riguardo per considerazioni di ordine etico.

Le peculiarità ma anche la problematicità del pensiero ottocentesco sulla pace e sulla guerra vengono restituiti anche dall'analisi del pensiero dell'economista e uomo politico Marco Minghetti, e di quello del ricco banchiere polacco Jan Bloch. Per quanto riguarda Minghetti, l'A si concentra soprattutto sull'opera del 1859 Della economia pubblica e delle sue attinenze colla morale e col diritto, il cui impianto generale è fortemente debitore del pensiero di Constant. Del filosofo francese si ritrova la fiducia nella funzione pacificatrice dell'esprit de commerce, per cui alla sua espansione corrisponderanno guerre sempre più «rare e brevi, e non dispietate oltre necessità». Ma si ritrova anche un profondo senso della realtà - peraltro presente anche nelle opere di Constant - per cui, per esempio, Minghetti non concede nulla ai progetti, a suo giudizio utopici, di «pace universale» attraverso l'arbitrato internazionale. A questo proposito, anzi, egli resta convinto che, malgrado gli effetti del libero commercio, rimarrà sempre un residuo ineliminabile di conflittualità nelle relazioni internazionali; e che, perciò, occorre che i governanti restino ben pronti a ricorrere alla forza delle armi.

Di altro tenore è l'analisi del problema della guerra compiuta da Bloch nelle oltre tremila pagine che compongono La guerre. La guerre future aux points de vue technique, économique et politique, pubblicato per la prima volta in russo a San Pietroburgo nel 1898. Bloch si preoccupa, in primo luogo, di chiarire che la guerra non sparirà da sola e che la corsa agli armamenti innescatasi tra le potenze europee potrebbe concretamente portare a un disastro bellico senza precedenti nella storia; ciò a causa dell'accresciuta capacità distruttiva delle armi e del coinvolgimento delle masse nella politica e, quindi, nella guerra. Di fronte a questo possibile scenario, a giudizio di Bloch, è necessaria una mobilitazione volta a prevenire l'esplosione di qualsiasi conflitto. A tale scopo, l'intellettuale polacco indica almeno tre strategie. La prima è di carattere educativo: si tratta di rendere consapevoli le masse e i governanti del pericolo enorme che rappresenta «lo spettro di una grande guerra europea (...) sospeso sulle nostre teste come una sinistra cometa». In secondo luogo, Bloch insiste sull'importanza di interrompere la corsa agli armamenti che, da un lato, è di per sé motivo di conflitto tra gli Stati; e dall'altro, sottrae risorse che potrebbero essere utilizzate per migliorare le condizioni di vita delle classi meno abbienti, togliendo così terreno alle velleità rivoluzionarie di anarchici e socialisti. Infine, parallelamente al disarmo, si dovrebbe istituire un tribunale internazionale con il «compito di regolare le controversie» tra gli Stati.

Il Novecento inaugura altri ordini di riflessioni che si sovrappongono alle prospettive settecentesche e ottocentesche sui rapporti tra pace, forme di governo ed economia. Si tratta, certamente, del lungo e complesso dibattito sull'imperialismo di autori diversi tra loro come, per esempio, Hobson, Lenin, Hilferding e Weber. Ma si tratta anche della non meno importante riflessione sul rapporto tra guerra, emotività delle masse, e potere del leader carismatico. Un tema che, ben prima delle profonde osservazioni svolte da Elias Canetti nella seconda metà del secolo, viene affrontato da Weber e da quanti - come per esempio Norman Angell - sentono l'esigenza di ricercare i fondamenti sicuri della pace, non solo nelle riforme istituzionali o economiche, ma anche in un'opera volta a creare un'opinione pubblica consapevole, matura e non disposta a seguire le seduzioni belliche veicolate dal carisma di capi senza scrupoli.

La notevole complessità del dibattito novecentesco sul problema della guerra emerge dall'analisi che l'A propone del pensiero di due intellettuali italiani: Adolfo Ravà e Francesco Carnelutti.

Secondo Ravà, che nel 1932 pubblica Il problema della guerra e della pace, il primo movente della guerra è di origine economica: la guerra scoppia per la volontà acquisitiva di beni e risorse o, come scrive egli stesso, per «il desiderio di preda». Sostenere questa tesi, però, non significa per Ravà affermare che le ragioni economiche possano spiegare l'esplosione di ogni conflitto. Anzi, come dimostra Norman Angell, autore di cui Ravà è attento lettore, la scelta di intraprendere una guerra può essere decisamente antieconomica. Bisogna concludere, quindi, che la guerra trova le sue cause anche in fattori strettamente politici e per nulla collegati all'economia. Sono, in particolare, i fattori demografici e legati a differenze di potenza e di ricchezza tra i popoli che spesso, secondo Ravà, inducono gli Stati a muovere guerra.

Riguardo alle scelte utili a evitare le guerre, Ravà sottolinea l'importanza che queste siano coerenti con le possibili cause delle guerre stesse. Tali cause, come si è accennato, sono di ordine economico e politico; di conseguenza, i conflitti che esse generano possono venire risolti solo attraverso misure economiche e politiche. Spetta, insomma, «all'oculatezza dei governanti» porre le basi di una pace duratura attraverso opportune alleanze e trattati commerciali. Da queste osservazioni potrebbe sembrare che, per Ravà, non ci sia posto per il diritto, l'arbitrato internazionale e, in generale, gli strumenti di ordine giuridico tra i mezzi utili a mantenere la pace. E' certamente vero che, secondo Ravà, da tali strumenti non ci si può attendere che riescano a evitare quelle guerre che trovano le loro origini in profonde motivazioni politiche; è però anche convinto che essi possano contribuire in modo efficace a evitare i conflitti che dipendono dalla «inettitudine dei governanti o dai loro errori o dalla loro leggerezza». Per questo, Ravà ha parole di stima e di elogio per il progetto kantiano e per gli obiettivi e le funzioni della Società delle Nazioni.

Ben altra centralità gode il diritto in relazione alla ricerca della pace nel pensiero di Francesco Carnelutti, grande giurista che, nel 1945, pubblica a Roma in lingua francese un breve ma molto denso volume intitolato La guerre et la paix. L'A ha cura di ricordare sia la stretta relazione tra il pensiero di Carnelutti e quello di due protagonisti della cultura giuridica e politica tedesca come Hans Kelsen e Rudolf von Jhering; sia l'interesse che, fin dagli anni '40, Norberto Bobbio ha dimostrato per i lavori di Carnelutti. Questi riferimenti sono importanti perché consentono già di collocare la figura intellettuale di Carnelutti all'interno di quella tradizione filosofica e giuridica che si propone di costruire un assetto internazionale pacifico attraverso il diritto. Si tratta, in estrema sintesi, di istituire un giudice capace di regolare le relazioni internazionali e di dirimere i conflitti tra gli Stati, mettendo finalmente al bando la guerra. Questo progetto, naturalmente, richiede l'istituzione di un'autorità internazionale in grado di far rispettare le decisioni del giudice; tale autorità, tuttavia, di per sè non sarebbe sufficiente. Affinché il progetto di pacifismo giuridico sia efficace è anche necessario che si associ ad un assetto politico giusto. La giustizia, cioè, risulta essere il presupposto necessario per ottenere la pace attraverso il diritto; o, come scrive l'A, «il diritto può raggiungere il suo scopo principale, l'eliminazione della guerra, soltanto divenendo perno della giustizia».

Una riflessione esauriente sul problema della guerra e della pace nel Novecento non può tralasciare l'analisi dei problemi teorici apertisi negli ultimi anni, dopo il crollo dell'Unione Sovietica, la fine dell'assetto internazionale bipolare, e il sorgere dei fenomeni politici, economici e culturali legati alla globalizzazione. Per questo, il volume si conclude con un saggio che ricostruisce parte del dibattito italiano sulla guerra della Nato contro la Repubblica Federale di Jugoslavia del 1999. Guerra giustificata con l'obiettivo di difendere i diritti degli albanesi del Kosovo violati dal governo di Milosevic. La scelta di rendere conto del dibattito del 1999 risulta particolarmente opportuna perché, in esso, emerge con chiarezza il mutamento, la crisi, di alcuni concetti politici tradizionali di fronte alle caratteristiche assunte di recente dalla politica internazionale.

In particolare, è il concetto di sovranità, così come era stato formulato da Bodin, ad entrare in crisi di fronte ai fatti del 1999. Le riflessioni di autori come Havel, Vargas Llosa, Glucksmann, Habermas e altri, sulla guerra della Nato nei Balcani, pur nelle loro differenze e singolarità, testimoniano tutte della crisi dell'idea che la sovranità di uno Stato debba essere considerata inviolabile e del fatto che esistono valori (diritti) superiori, in nome dei quali è lecito muovere guerra violando la sovranità statale. Si profila, così, l'esigenza di nuova centralità dell'individuo, fino al punto di auspicare, come vuole Habermas, uno «stato di cittadinanza universale». Ma si profila anche l'esigenza di una sovranità nuova, che non dovrà più appartenere allo Stato, ma al pensiero e alla coscienza, rendendo quest'ultima, come scrive Amos Oz, «finalmente indipendente dalle nostre identità tribali, dalle nostre simpatie genetiche».

Alberto Castelli

*. Da "Nuova antologia", fasc. 2243, luglio - settembre 2007, pp. 263-366.