2007

U. Galimberti, La casa di psiche. Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica, Feltrinelli, Milano 2005, pp. 466, ISBN 88-07-10391-5

Uno dei problemi più gravi della società contemporanea della scienza e della tecnica, dei media e dei consumi, dell'individualismo radicale e del progresso, è certamente, come diagnosticato da numerosi sociologi e filosofi, quello del senso dell'esistenza; nell'apparato sociale attuale l'uomo, solo e "individualizzato" (si veda Bauman, Z., La società individualizzata, Il Mulino, Bologna 2002), soffre per il fatto di sentirsi semplicemente un mezzo nell'universo dei mezzi. Di fronte a questa condizione, sostanziatasi massicciamente nel XX secolo, era stata la psicoanalisi a cercare modalità di aiuto e risoluzione delle difficoltà esistenziali. Ma, nella fase della globalizzazione imperante degli ultimi anni, Galimberti avverte tutta l'impotenza della psicoanalisi in merito al tipo di insensatezza che caratterizza l'età della tecnica: "La psicoanalisi, infatti, conosce il non-senso di una vita tormentata dalla sofferenza, ma non la sofferenza determinata dall'irreperibilità di un senso" (p. 9). Di qui, per Galimberti, l'urgenza di un ritorno alla filosofia, o meglio alla pratica filosofica, come strumento di grandi potenzialità per affrontare concretamente la questione del senso che attanaglia molti individui nella loro vita quotidiana. Di qui, dunque, questo testo in cui l'autore cerca di spiegare, dettagliatamente e con rigore teorico, l'esigenza di passare, come reca il sottotitolo del libro, "dalla psicoanalisi alla pratica filosofica". Ma la pratica filosofica non deve essere considerata una terapia, perché si iscrive in una visione del mondo radicalmente differente dalla psicoanalisi. Pratica filosofica e psicoanalisi percepiscono il dolore, infatti, in modo inconciliabile; mentre la psicoanalisi, collocandosi nel solco "religioso" della tradizione giudaico-cristiana, si pone come forma di medicalizzazione del dolore, la pratica filosofica, collocandosi nel solco della tradizione tragica greca classica, non guarda il dolore come malattia e non considera l'uomo come malato, bensì come tragico. Di conseguenza, la pratica filosofica non chiede la guarigione, almeno non è il suo primo obiettivo, ma chiede piuttosto il contenimento del tragico attraverso il sapere e la virtù.

Galimberti considera con grande acume filosofico e critico la vicenda teorica della psicoanalisi, attraverso Freud, Jung e Lacan; egli pone questi autori in un interessante raffronto con Nietzsche e nota come Freud muova dall'idea non della scoperta dell'inconscio, ma "dalle regole per aver ragione dell'inconscio" (p. 46). Nietzsche, invece differenziandosi da Freud, non pensa l'inconscio come il contrario della ragione e veicola un'immagine di ragione per cui essa non va contro la forza delle pulsioni, ma è composizione delle forze pulsionali. Freud e Jung, dice Galimberti, pensavano la filosofia in chiave "eidetica" (cap. 2), ossia "come discorso della ragione assoluta" (p. 61), mentre la loro psicologia del profondo dovrebbe produrre le regole del suo discorso attraverso una filosofia intesa come luogo in cui si controllano le ragioni discorsive, ossia attraverso l'ermeneutica. Questa prospettiva ermeneutica è caratteristica di Lacan che, infatti, ipotizza "una corrispondenza fra la struttura dell'inconscio e quella del linguaggio (p. 67) e pensa la psicoanalisi "in un fitto dialogo con le acquisizioni più avanzate della filosofia (Hegel, Kojève, Heidegger, Merleau-Ponty, Sartre, Foucault), della linguistica (de Saussure, Jakobson), dell'antropologia (Lévi-Strauss e lo strutturalismo), della logica (Gödel), della letteratura (il surrealismo e Joyce), della psichiatria fenomenologia (Clèrambault, Jaspers, Binswanger)" (p. 63). Galimberti considera, quindi, l'itinerario di Lacan profondamente Nietzscheiano e lo vede, a differenza di Freud, come un testimone della nostra epoca, che non crede di poter dominare il mondo con la ragione filosofica, né, tantomeno, con quella scientifica. Il rapporto tra i grandi della psicoanalisi e Nietzsche, delineato nella prima parte del testo, è cruciale ed è giustificato dal fatto che, sottoponendo la ragione allo sguardo genealogico che non chiede "che cose sono le cose" (nella tradizione inaugurata da Platone), ma "come sono venute al mondo", Nietzsche "scioglie l'enigma che intreccia chiarezza delle idee e oscurità dei simboli, lucidità della ragione e abisso della follia, perché trova il loro punto d'incontro, dove si nasconde la necessità del loro prodursi" (p. 94). Si fa così strada una questione essenziale: è ancora possibile pensare nozioni come quelle di individuo, libertà, sofferenza secondo le definizioni fornite da Freud e Jung in un epoca pre-tecnologica, quale quelle che essi hanno vissuto? Non si può non riconoscere, ricordando l'insegnamento, ormai classico, della sociologia critica dei francofortesi, che ora l'identità non è più nell'individuo, ma nel sistema: "mentre prima gli uomini dipendevano l'uno dall'altro, ora dipendono dalle procedure tecniche" (p. 147). La tecnica ha mandato in porto quello che era il progetto della tradizione giudaico-cristiana e dell'idea che il dolore può essere separato dalla vita; la tecnica ha cambiato la natura del dolore: non più, come nella tradizione greca, l'eroe tragico che conosceva il dolore e, sia pure carico di ferite, ne usciva vincitore, ma "l'uomo medio che vive l'ansia del dolore possibile, in condivisibile, da rimuovere ad opera del sofferente stesso" (p. 164). Il rischio delle psicologie del profondo è dunque quello di perdere di vista l'anima e di inserirsi nel gioco (giogo?) funzionalista della società tecnologica, venendo soppiantate delle psicologie dell'adattamento, che rispondono ai nomi di cognitivismo e comportamentismo. Per tale ragione Galimberti guarda con interesse la dimensione del simbolo, che, peraltro, caratterizza in misura cospicua l'opera di Jung. In rapporto alla vita quotidiana, il linguaggio simbolico è passato e futuro, "ha i toni dell'evocazione e dell'allusione che l'universo razionale ha messo a tacere" (p. 212). E l'assenza del simbolo, come ulteriorità di senso, non lascia esistere soluzioni che oltrepassano l'ampiezza del problema, perché il senso è immediatamente costretto nei limiti della formulazione che lo esprime. Così, oggi conosciamo solo anime individuali rese asfittiche dall'incapacità di correlare la loro sofferenza quotidiana con il dolore del mondo. L'abbandono della dimensione simbolica nella cultura contemporanea è, in definitiva, alla base della concezione che intende la vita psichica come la funzione di un apparato: tale concezione si lega, inoltre, all'accettazione acritica e inconsapevole del dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa. Galimberti ritiene necessario allontanarsi da questa visione acritica, bisogna cioè cessare di concepire l'uomo come un'anima che ha un corpo, per vederlo come un corpo che è in relazione con il mondo. E ciò è possibile, utilizzando la fenomenologia di Husserl e l'analitica esistenziale di Heidegger, che possono mostrare come "il malato non ha una malattia, ma è al mondo in una modalità che l'esistenza conosce come suo limite, quando non riesce a esprimersi come esistenza che si trascende in un progetto" (p. 236). Binswanger ha utilizzato nella sua psicologia gli strumenti teorici offerti dalle filosofie di Husserl e Heidegger raggiungendo due obiettivi importanti. In primo luogo, la comprensione che l'alienato di mente e la persona sana appartengono allo stesso mondo: in questo modo l'alienato non è più quello che vive fuori dal mondo, ma "colui che nell'alienazione ha trovato l'unico modo possibile di essere-nel-mondo" (p. 244). In secondo luogo, la psicologia così impostata non ha più a che fare con una concezione astratta dell'uomo e viene rifiutato il carattere normativo della psichiatria. La psicologia si configurerebbe così, nell'impostazione di Galimberti, "come arte" (cap. 14), per la quale si inaugura un nuovo linguaggio, in cui "le parole non sono più segni che rinviano a un quadro di riferimento anticipato che dà loro senso, ma simboli nel senso greco della parola, dove i due sono messi assieme (sym-balein) dalla parola che li convoca e al tempo stesso li trascende" (p. 259). Si comprende, dunque, che il mal-essere di un organismo è anche un'impossibilità a essere, è un di squilibrio dell'esistenza: "ogni volta che l'esistenza non può esprimersi nel mondo come le piace è costretta a trattenersi e a ripiegarsi su di sé. Ciò che si produce (...), è una mancata presenza al mondo" (p. 282).

Chiaramente, a tutta questa valutazione critica della psicologia, è sottesa la necessità della distinzione epistemologica tra spiegare e comprendere, già nota nel dibattito sulle scienze sociali a partire da Dilthey. E Jaspers è il primo a iscrivere la psicologia nell'indirizzo fenomenologico-ermeneutico sostenuto da Galimberti. L'ultima sezione del testo è, dunque, opportunamente dedicata alle riflessioni di questo medico-filosofo tedesco, che aveva colto con grande acume la crisi epistemologica della cultura occidentale, per cui "la scienza sa, ma non sa il senso del suo sapere" (p. 332). Cogliendo questo punto, Jaspers giunge al momento della chiarificazione dell'esistenza e alla "metafisica delle cifre" (cap. 20): l'essenza dell'uomo non può essere pensata in termini biologici, ma richiede termini ontologici come espressione di "apertura incondizionata" (p. 335).

Nasce da tutto questo la filosofia come terapia della mente, per il miglioramento della condotta umana, dove l'accento non si pone sull'imputabilità della condotta, ma sulle condizioni che rendono una condotta saggia o insipiente, e, quindi, contenuta nella "giusta misura" (cap. 23) o improvvida nella prevaricazione. Nasce da tutto questo anche un'etica, nella quale la virtù è il dar forma alla propria forza e essere virtuosi significa "divenire legge a se stessi" (p. 410). E', naturalmente, un'etica che si lega a una particolare condizione politica, come quella attuale, in cui i confini si sono fatti più incerti e le leggi che li presidiavano sempre più fragili, per la commistione delle culture e delle morali: più i confini territoriali si allentano, più urgente diventa la necessità di dar confini a se stessi. E' questa l'"etica del viandante", come la definisce Galimberti, che "non disponendo di mappe, affronta le difficoltà del percorso a seconda di come di volta in volta esse si presentano e con i mezzi al momento a sua disposizione. Questo è il nostro limite, e in questo limite dobbiamo decidere" (p. 439).

Galimberti struttura e sostiene, con grande ricchezza di riferimenti concettuali e teorici, quella dimensione di pratica filosofica sulla quale ormai da qualche anno ferve un ampio dibattito (si vedano autori come Achenbach, Schuster, Raabe, Lahav, Pollastri, Rovatti), ma il suo contributo contiene anche spunti sociologici, assolutamente non trascurabili, sia in merito alla critica della società e della socialità contemporanea, sia in merito al classico problema di "come possiamo vivere insieme e relazionarci correttamente". Spunti che sono testimoniati dall'uso di una terminologia, nel libro, che nomina "il processo di individuazione", "l'universo simbolico", "il processo di civilizzazione", pur non richiamando esplicitamente gli autori ad essi riferiti (ad es. rispettivamente, Bauman, Berger e Luckmann, Elias).

Ma, soprattutto Galimberti, attraverso questo contributo, ridà alla filosofia quel valore forte e quella dignità che orienta il mondo, per spezzarne la rigidità dell'orientamento tecnico-scientifico e "creare spazi possibili e esistenzialmente abitabili" (p. 330).

Francesco Giacomantonio