2005

AA.VV., L'Italia flessibile, Manifestolibri, Roma 2003, pp. 211, ISBN 88-7285-315-X

Il progetto di questo volume è nato all'interno del Laboratorio di Economia politica (LEP), con il coinvolgimento di alcuni studiosi esterni. Si tratta di una ricerca collettiva, coordinata con notevole rigore e che ha prodotto una serie di saggi fortemente coesi, spesso in reciproca interazione. I sette interventi di cui la raccolta si compone traggono occasione dal dibattito sull'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, sviluppatosi nel nostro paese in occasione del recente referendum, ma la riflessione si allarga a toccare un ampio spettro di problemi. Include, oltre al tema della 'flessibilità' del lavoro, anche quello dei diritti sociali e della cittadinanza, nella prospettiva di un recupero qualitativo della democrazia rappresentativa. L'assunzione metodologica di fondo è la stretta connessione fra i fenomeni economici e quelli istituzionali e normativi.

I primi tre saggi, ad opera di Riccardo Fiorentini, Andrea Fumagalli e Laura Chiesa, sono dedicati al tema specifico della flessibilità del lavoro. La tesi centrale che vi viene sostenuta è che la richiesta da parte degli imprenditori italiani della libertà di assumere e licenziare i lavoratori secondo le proprie convenienze di breve periodo, sembra rispondere ad una logica di impresa del tutto ovvia, mentre un'analisi appena più accurata mostra che non è così.

Certo, è ovvio che la classe imprenditoriale tenti di scaricare sui lavoratori dipendenti i rischi e gli oneri della instabilità che regna nell'economia globale. Dal punto di vista imprenditoriale il mercato del lavoro è, tout court, un mercato come tutti gli altri. Il problema delle 'conseguenze umane' della precarietà del lavoro e del reddito individuale - in termini di crescente insicurezza e disagio sociale - è una 'esternalità' che sarà semmai il sistema politico a dover impostare e risolvere. Rebus sic stantibus, ai fini della massimizzazione del profitto, l'andamento irregolare della domanda non sembra offrire alternative ad una politica di riduzione dei costi del lavoro, che consenta un contenimento dei prezzi e quindi una competitività dei prodotti o dei servizi offerti sul mercato.

Ma, a parte le opposte aspettative dei lavoratori dipendenti, che non sono disposti ad accollarsi la totalità degli svantaggi della contingenza economica, resta che proprio dal punto di vista imprenditoriale - e quindi dello sviluppo economico complessivo e del benessere sociale generale - un eccesso di flessibilità del lavoro presenta rilevanti controindicazioni. L'obiettivo unilateralmente perseguito della compressione dei costi, argomentano in particolare Andrea Fumagalli e Paolo Ramazzotti, è di corto respiro, perché si accompagna ad una gestione di impresa che sottovaluta il problema della qualità dei prodotti e della concorrenza in termini di superiore qualità dell'offerta. Ma per ottenere questo risultato - sostiene in particolare Paolo Ramazzotti - occorre puntare, come fanno le economie più avanzate, sulla innovazione tecnologica e sulla stretta cooperazione fra tutti i soggetti dell'impresa. Ma questo è tanto più difficile quanto più l'attività lavorativa dei singoli operatori è precaria, intermittente, priva di tutele. Oltre a ciò, per raggiungere questi fini è necessario un forte impegno pubblico per la formazione e riqualificazione permanente di una forza-lavoro di alta competenza, che compensi la frammentazione e la volatilità di posizioni lavorative sempre più 'atipiche' e individualizzate. Inoltre, in particolare in Italia, prevale la tendenza alla riduzione delle dimensioni dell'impresa e anche questo elemento concorre alla rinuncia alle dinamiche di ricerca e di apprendimento e conduce quindi all'impoverimento della qualità delle prestazioni produttive.

Al di là di questa problematica interna alle relazioni economiche, ci si può chiedere - se lo chiede in particolare Fumagalli e se lo chiedono, in chiave politologica, Stefano Palombarini, Marco Almagisti e Gianni Riccamboni - se la crescente 'flessibilità' del lavoro non porti alla vanificazione di un diritto sociale costituzionalmente enunciato, il diritto al lavoro. E ci si può chiedere se questo non trascini con sé un indebolimento dell'intero apparato delle tutele sociali garantite sinora dallo Stato sociale ai lavoratori e alle loro famiglie: pensione, liquidazione, malattie, gravidanza, e così via. La tendenza in atto è verso una deregulation del mercato del lavoro e, in generale, dei rapporti sociali tradizionalmente coperti dall'intervento compensativo dello Stato sociale, inclusi i settori dell'istruzione e della sanità, che sono sempre più investiti da una logica di privatizzazione.

È chiaro che le tecniche, sempre più sofisticate, di flessibilizzazione del lavoro costringono il lavoratore dipendente in una dimensione di puro diritto privato: il carattere sempre più precario e 'atipico' del suo rapporto di lavoro dissocia la sua posizione da qualsiasi dimensione collettiva, sino alla completa individualizzazione della sua figura sociale e giuridica. In prospettiva decade l'efficacia della tutela sindacale del lavoro e, al limite, la stessa possibilità di una normazione pubblica - di uno 'Statuto' generale e astratto - dei rapporti di lavoro. "Il terminale della flessibilità è la contrattazione individuale", scrive lapidariamente Marco Rangone.

Questa tendenza alla deregolazione e alla privatizzazione sta investendo anche gli altri diritti soggettivi nel contesto della generale 'riforma' del Welfare State. Emerge qui un tema di grande rilievo che Almagisti e Riccamboni impostano lucidamente nel saggio che chiude il volume: è quello del rapporto fra la tutela dei diritti sociali e la protezione degli altri 'diritti di cittadinanza', in particolare i diritti civili e politici, senza trascurare i cosiddetti 'nuovi diritti', come il diritto all'informazione, il diritto all'ambiente e i diritti degli stranieri migranti. È possibile un recupero della qualità della vita democratica se il complesso dei 'diritti di cittadinanza' non viene posto al centro della vita politica? Come rivitalizzare la 'sfera pubblica' se non grazie ad uno slancio rivendicativo della società civile che ripari all'eclissi dei partiti e alla perversione videocratica della rappresentanza parlamentare? Il processo di integrazione europea può essere visto - sull'onda della Carta di Nizza e della ormai prossima Costituzione - come l'occasione per questa riqualificazione della vita democratica?

Sono interrogativi cruciali. A parere di chi scrive nessuno di questi problemi può essere oggi impostato con sufficiente realismo se non nel quadro di una analisi degli squilibri che i processi di globalizzazione stanno producendo nella distribuzione internazionale del potere e della ricchezza fra gli Stati, fra le regioni del pianeta e all'interno dei singoli paesi. Basti pensare che oggi la civilissima e ricchissima Europa può vantare cinquanta milioni di poveri, venti milioni di disoccupati e cinque milioni di senza tetto. Al considerevole aumento della produzione mondiale corrispondono veri e propri processi di 'brasilizzazione' del mondo. E a questa divaricazione internazionale del potere economico si accompagnano un'ulteriore gerarchizzazione delle relazioni internazionali, la caduta degli standard di legittimazione del potere politico, l'erosione della sovranità degli Stati periferici (che sono la grande maggioranza), l'appiattimento delle diversità culturali, la turbolenza dei flussi migratori, l'infiltrazione transnazionale delle organizzazioni criminali. E si accompagna, last but not least, la 'guerra preventiva' e il global terrorism.

Le crescenti diversità in ricchezza, informazione, potere scientifico-tecnologico, opportunità di lavoro dipendono ormai, in larghissima proporzione, dalle decisioni di alcune potenze politiche ed economiche del pianeta, in primis, ovviamente, degli Stati Uniti, delle istituzioni economiche internazionali da essi controllate e delle corporations di riferimento. Rischierebbe perciò di non produrre risultati apprezzabili un tentativo di rivitalizzare localmente i valori della cittadinanza in presenza di politiche globali che vanno nella direzione dello smantellamento delle sovranità nazionali e, quindi, dello svuotamento dei 'diritti di cittadinanza: questi diritti hanno senso soltanto entro l'ambito culturale, giuridico, demografico di uno 'Stato di diritto' nazionale e territoriale. La priorità andrebbe dunque accordata, contro le diffuse velleità 'cosmopolitiche', ad una ricostruzione dello Stato di diritto, della sua sovranità, autonomia e identità politica.

E può essere illusorio sostenere - come in questo libro sostiene con enfasi Andrea Fumagalli - che il diritto al lavoro può trovare nel 'reddito di cittadinanza' un valido equivalente funzionale. L'elargizione da parte di un singolo Stato di una somma di denaro a favore di tutti i suoi cittadini non solo non ha nulla a che fare con il diritto al lavoro, ma non può proporsi neppure un'attenuazione delle diseguaglianze sociali interne. Può proporsi, al più, un marginale miglioramento delle condizioni economiche di alcune fasce di soggetti più svantaggiati, in concorrenza con le associazioni di volontariato. Il reddito di cittadinanza è in realtà l'alternativa monetaria al Welfare State e ai suoi servizi sociali. Si oppone proprio all'idea di una comunità civile nella quale l'esasperazione della logica mercantile sia sostituita dalla logica della cittadinanza: e questo comporta, assieme alla rivendicazione conflittuale dei diritti, la costruzione di una rete di servizi sociali nei quali si esprima il senso di solidarietà e la volontà di cooperazione dei cittadini.

Danilo Zolo