2005

R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002, pp. 212, ISBN 88-06-15326-9

Che cos'hanno in comune la battaglia contro una nuova epidemia, il rafforzamento delle barriere nei confronti dell'immigrazione "clandestina", la guerra al terrorismo, le strategie usate per neutralizzare l'ultimo virus dei computer? Il fatto di fondarsi su una stessa logica, identificata e attentamente descritta nell'ultimo lavoro di Roberto Esposito sotto il nome di immunizzazione. Di fronte alla paura di un contagio planetario (di qualunque genere esso sia), l'esigenza sembra essere quella di una "guerra preventiva" che debelli il morbo ancora prima che esso possa mietere le sue vittime. Acquisire l'immunità nei riguardi di tutto quanto può sconvolgere le abitudini di vita, le logiche politiche, le pratiche sociali ed economiche, è il sogno occidentale contemporaneo. Purtroppo, come è risultato evidente con le politiche di sicurezza successive all'11 settembre, una garanzia pur relativa di immunità non si può avere che a costo di sacrificare gran parte di quelle libertà civili che l'immunizzazione stessa avrebbe il compito di difendere: per evitare il contagio, ci si chiude su se stessi, fino a rischiare di rimanere soffocati nella propria stessa presa.

Alla ricerca di una via d'uscita dal labirinto dell'immunitas, Esposito si confronta con gli autori più importanti della filosofia politica soprattutto novecentesca (da Walter Benjamin e Simone Weil a Foucault e Donna Haraway), ma fa anche i conti con i problemi sollevati da altre discipline, nelle quali è in questione l'immunità: dalla biologia all'antropologia, dalla giurisprudenza alla teologia. Il problema di fondo di questa ricerca - tanto avventurosa e affascinante quanto rigorosa e documentata nei suoi riferimenti teorici e nelle sue analisi specifiche - si può sintetizzare nella maniera seguente: per salvare la vita, che si ritiene venga messa costantemente in pericolo dalla stessa esplosività che la caratterizza, si adottano dei "correttivi", i quali tuttavia, proprio per la loro natura di freni inibitori o immunizzanti, rischiano di disseccare la fonte di vita che erano chiamati a proteggere. E' il caso del diritto, almeno secondo l'interpretazione di Benjamin: allo scopo di controllare la presunta "guerra di tutti contro tutti", cioè allo scopo di fermare una violenza che si crede originaria e connaturata all'essenza dell'uomo, si è creata la gabbia del diritto, il quale immette nel tessuto sociale più violenza di quanta era chiamato ad eliminare. Questa logica, che secondo Benjamin è quella stessa, perversa, dello Stato moderno, si fonda su un'antropologia negativa, che pensa tutte le attività e le creazioni dell'uomo come necessarie compensazioni di una costitutiva mancanza ontologica. E' qui che emerge in tutta chiarezza "il tratto intrinsecamente nichilistico dell'antropologia filosofica: come è tipico di ogni compensazione, la costruzione dell'ordine che essa produce non ha i caratteri di una costruzione positiva, bensì quelli della distruzione di una distruzione, della negazione di un negativo. Ma proprio qui si delinea il possibile esito controfattuale della sua strategia: volendo riparare negativamente il negativo della comunità, essa rischia di consegnarla al niente da cui intende salvarla" (p. 102).

L'antropologia negativa dell'immunitas si rivela dunque come fondamento dell'intera filosofia politica moderna, da Hobbes a Schmitt, come unica legittimazione possibile della costruzione di un "monopolio della violenza". E di nuovo abbiamo da un lato la posizione del "male" come origine della comunità (la guerra di tutti contro tutti), dall'altra abbiamo lo Stato come ordine artificiale che, per tentare di neutralizzare il potenziale di violenza dell'origine, deve assumerlo al suo interno, come condizione della propria stessa esistenza e legittimità. La pretesa di abolire la violenza finisce così per dar luogo ad una posizione della violenza stessa come fattore ineliminabile, ma questa volta ad un livello superiore di virulenza e nocività.

La via d'uscita che Esposito indica è certamente di grande momento, anche se l'Autore la fa passare sottotono, senza la retorica dei grandi proclami. Per uscire da una politica dell'immunitas, cioè dalla politica moderna, o meglio per comprendere sino in fondo il senso di una logica dell'immunità, sarebbe necessario capovolgere l'impostazione dell'antropologia negativa, per dar luogo ad un'idea di identità più aperta e perciò più vitale. Sulla scia di Nietzsche, Esposito osserva, per esempio, che l'istinto di conservazione è il segnale di una vita malata, laddove la vita vera consiste nella capacità e nella volontà di sperimentare l'imprevisto, il rischioso; "si potrebbe addirittura dire che la malattia rappresenta, per l'organismo, il rischio di non poter più affrontare rischi" (p. 172). E' certo, tuttavia, che non si può tornare ad un'idea ingenua dell'uomo, che non faccia i conti con la sua intrinseca "pericolosità" vitale e sociale; è per questo che si rende necessario, secondo Esposito, un ulteriore passo avanti nell'immunizzazione, una sua radicalizzazione che conduca sino alla possibilità di immunizzazione rispetto all'eccesso di immunizzazione, o, altrimenti detto, che renda capaci di creare un sistema di difesa rispetto all'azione degli stessi agenti difensori.

In questa prospettiva, Esposito si confronta da ultimo anche con una delle autrici più interessanti del panorama politico contemporaneo, Donna Haraway, dall'opera della quale trae spunti decisivi per la costruzione di una nuova politica dell'identità e dell'immunità. Se le più diffuse teorie immunologiche tendono a far passare l'idea che vi sia un confine stabile tra l'identità dell'individuo e il "magma minaccioso che preme ai suoi confini esterni" (p. 185), la Haraway, viceversa, indagando l'invasività delle strutture macchiniche e informatiche nei confronti del nostro stesso corpo, afferma che l'alterazione artificiale del corpo è funzionale proprio alla sua conservazione: "il corpo si sospende - si interrompe e si raddoppia - in vista della propria durata. Si espone a ciò che gli sta fuori per salvare ciò che ancora porta dentro. Entra in rapporto problematico con l'altro per proteggersi da se stesso - dalla sua naturale tendenza alla consumazione" (p. 178). In conclusione, è solo aprendosi verso l'esterno, accettando anche il rischio di un contagio e di una crisi irreversibile (per esempio di una crisi da rigetto), che un corpo (individuale o sociale) può aumentare la propria potenza di vita, può riuscire a immunizzarsi dalla malattia mortale della paura.

Paolo Godani