2007

M. Emiliani (a cura di), La vittoria di Hamas. Prospettive, sviluppi, paure, Il Ponte, Bologna 2006, pp. 125, ISBN 88-89465-08-5

In una fase di estrema confusione mediatica, oltre che politica, il libro curato da Marcella Emiliani rappresenta una guida efficace per comprendere la storia e la strategia di Hamas nel contesto della questione palestinese. Il volume raccoglie i contributi che alcuni ricercatori del Centro per l'Africa e il Medio Oriente hanno presentato lo scorso febbraio ad un convegno, organizzato dal Dipartimento di Politica, Istituzioni e Storia dell'Università di Bologna, sui risultati delle elezioni legislative palestinesi. La vittoria di Hamas tuttavia non è un instant book, sfornato sull'onda del clamore suscitato dall'esito elettorale palestinese, bensì una proposta di lettura del fenomeno Hamas che ci consente di individuare la complessità delle sue questioni di fondo.

Come scrive la Emiliani nel suo saggio introduttivo, per capire cosa sia Hamas, quale sia il suo DNA politico, bisogna porsi degli interrogativi complessi e non cadere preda di troppo facili semplificazioni. Nonostante la brevità dei contributi, gli autori ci forniscono un quadro esauriente delle ragioni che hanno portato Hamas alla guida dell'Autorità palestinese, tanto che, ad un anno di distanza dalla sua pubblicazione, la linea interpretativa proposta rimane ancora sostanzialmente valida ed efficace. Proveremo a sintetizzarne qui i tratti essenziali al di là della scansione dei singoli saggi.

Uno dei primi «interrogativi complessi» affrontato dagli autori è quello che riguarda la dimensione religiosa del movimento Hamas, ed in particolare le questioni dogmatiche che stanno alla base del problema del riconoscimento di Israele. Hamas nasce infatti come movimento essenzialmente religioso, impegnato in un'azione di proselitismo scevra, almeno nella prima fase, da impegni strettamente nazionalistici, e solo al momento dello scoppio della prima Intifada ha avviato un percorso più strettamente politico, inserendosi nel variegato panorama dei partiti e movimenti di liberazione palestinese. La ricostruzione che i saggi propongono di questa lunga vicenda è utile per chiarire in che modo, e fino a che punto, il massimalismo nazionalista di Hamas, alimentato da questioni strettamente religiose, abbia contribuito all'islamizzazione di un conflitto storicamente basato su istanze essenzialmente laiche come quello palestinese.

In questo senso gli autori sottolineano più volte come l'analisi della politica di Hamas vada considerata innanzi tutto all'interno della società palestinese, nel contesto delle lotte intestine alla sua leadership politica e, solo dopo aver colto questa sua dimensione, sia possibile comprendere in modo efficace la sua strategia a livello regionale.

In questo rapporto fra strategia interna e strategia internazionale la seconda Intifada potrebbe aver segnato un cambio di direzione. Se infatti l'Intifada al-Aqsa viene descritta essenzialmente come un'Intra-fada, cioè come una sorta di resa dei conti fra partiti e fazioni palestinesi, non possiamo dimenticare che essa ha segnato anche un mutamento più generale nel contesto mediorientale. L'affermazione internazionale dei gruppi integralisti facenti capo ad al-Qaeda, il deflagrare della seconda guerra del Golfo e la cosiddetta "seconda rivoluzione islamica iraniana" di Ahmadinejad, hanno mutato profondamente il quadro geopolitico della regione. La ricostruzione di questo mutato contesto geopolitico, che il libro propone, ci porta alla questione cruciale determinata dalla vittoria di Hamas alle elezioni palestinesi: in che modo i dirigenti di Hamas vogliono o possono collocarsi in questo mutato spazio politico internazionale e questa loro collocazione sta mutando, o ha già mutato, la natura essenzialmente nazionalista del movimento islamico palestinese per inserirlo, con una diversa versione dottrinale, nel jihad internazionale?

Il secondo aspetto messo in luce dal libro, fra le ragioni dell'affermazione politica ed elettorale di Hamas nei territori occupati palestinesi, è quello legato ai problemi economici e sociali. A partire dagli anni Novanta infatti la strategia di Hamas si è articolata grazie alla rete del suo sistema assistenziale, ha beneficiato di canali finanziari autonomi dall'Autorità palestinese, intrecciandosi alla strategia militare vera e propria. Non è possibile comprendere il successo odierno di Hamas, e il suo forte radicamento nella società palestinese, senza cogliere la sua capacità di fornire beni e servizi ad una popolazione sempre più strangolata dai meccanismi economici inaugurati ad Oslo e dalla corruzione ed incapacità istituzionale dell'Autorità palestinese.

Alla luce di questo complesso intreccio fra questioni geopolitiche, religiose, economiche e sociali la vicenda di Hamas pone alcuni interrogativi più generali sul piano del diritto internazionale, sul ruolo della diplomazia e degli organismi internazionali e, più in generale, sulla strategia politica e militare europea e statunitense.

La diplomazia occidentale - almeno quella ufficiale - ha reagito alla vittoria di Hamas con una chiusura totale, congelando i flussi di finanziamento per l'Autorità palestinese e dando vita ad un vero e proprio embargo, che naturalmente è andato a danno della popolazione civile e ha lasciato ampi spazi di manovra a nuovi finanziatori esterni, primo fra tutti l'Iran. Sul fronte interno Hamas ha fatto ricorso alla retorica dell'assedio senza concessioni, tuttavia questo tipo di strategia non può funzionare se non è sostanziata da un sensibile miglioramento delle condizioni di vita della popolazione civile. L'ultimo rapporto dell'IUED (Institut Universitaire d'études du développement, X Report, Palestinian Public Perceptions, novembre 2006) sulla situazione nei territori occupati mostra, con la drammaticità dei suoi dati su disoccupazione, povertà e sicurezza, che la logica della contrapposizione dura e senza concessioni non può continuare a lungo.

Se utilizziamo la griglia interpretativa suggerita dal libro, ad una anno di distanza, è possibile provare a tracciare un primo bilancio di questa logica di contrapposizione reciproca, i cui tratti essenziali sono dati dal deterioramento sempre più drammatico delle condizioni di vita della popolazione palestinese, dal progressivo avvicinamento di Hamas all'integralismo islamico internazionale, da una lenta ma inesorabile escalation verso la guerra civile nei territori occupati e da una preoccupante deriva oltranzista israeliana. Una situazione che, com'è ovvio, non giova ai palestinesi e alle prospettive di una loro entità statale autonoma e sostenibile.

Sul piano geopolitico più generale la logica della chiusura e della contrapposizione fra la dirigenza di Hamas e la diplomazia israeliana e occidentale non fa che alimentare gli squilibri innescati dalla guerra in Iraq e pone con urgenza la questione dell'autonomia della diplomazia europea da quella statunitense. La strategia statunitense sembra ormai articolarsi attraverso forme di controllo militare garantite attraverso la creazione ed il mantenimento di aree geopolitiche perennemente instabili, in quello che potremo definire «il nuovo disordine mondiale». In questo contesto Palestina ed Israele funzionano, a quanto pare efficacemente, come uno dei cardini della destabilizzazione dell'intera area mediorientale.

In questo scenario internazionale riuscirà la diplomazia europea a promuovere una soluzione alternativa e arginare il rischio crescente di un definitivo tracollo della situazione interna palestinese ed il suo inserimento nel fronte integralista internazionale? Sappiamo che l'unica strada percorribile per scongiurare questo rischio è quella della costituzione di uno stato palestinese autonomo e sostenibile dal punto di vista territoriale ed economico, che possa finalmente avviare un processo di pacificazione e democratizzazione interna e nuove e paritarie relazioni col suo vicino israeliano.

Questo bilancio, a nostro avviso, getta un'ombra anche sulla situazione interna di Israele. La recente guerra in Libano ha portato alla luce contraddizioni e conflitti all'interno del paese non solo sul piano militare ma anche su quello economico e politico-istituzionale, rimandandoci un'immagine di Israele sempre più fragile. In un articolo apparso sul numero di dicembre di «Le Monde Diplomatique», Akiva Eldar, giornalista del quotidiano israeliano «Haaretz», ha sottolineato come una riflessione sulla situazione politica israeliana non possa prescindere da una considerazione sulla morale democratica del paese. Al di là dunque di una valutazione puramente formale delle sue istituzioni democratiche, bisognerebbe indagare fino a che punto in Israele la cultura ed i valori democratici possano arretrare di fronte all'imperativo dettato dalle esigenze di sicurezza sul territorio nazionale e nei territori occupati.

In conclusione dunque vorremmo proporre un'ultima notazione, che esula dalle ragioni del libro curato da Marcella Emiliani ma che è a queste strettamente connesso. Nell'ultimo anno la stampa occidentale si è concentrata sugli aspetti legati all'integralismo religioso ed al massimalismo nazionalista di Hamas. Forse però, per comprendere fino in fondo la situazione odierna, bisognerebbe dedicare la stessa attenzione all'analisi dei processi politici e culturali interni allo stato di Israele, alla tenuta delle sue istituzioni democratiche, ad esempio nelle politiche sulle minoranze, e alle derive integraliste e massimaliste che recentemente si sono manifestate, in modo eclatante, con la nomina a vice primo ministro di Avigdor Lieberman, capo del partito estremista Israel Beytenu. Dovremmo chiederci cioè, oltre a dove sta andando la Palestina guidata da Hamas, dove sta andando Israele, quale futuro si prospetta al paese non solo in funzione della guerra con i palestinesi ma anche alla luce della sua situazione politica interna.

Il futuro di Israele crediamo infatti non derivi esclusivamente dalla soluzione data alla questione palestinese ma coinvolge anche questioni politiche che riguardano l'effettiva democraticità politica e culturale - oltre che istituzionale - del paese, dalla quale dipende la sua capacità di fare fronte ai rischi di una disgregazione interna.

Disgregarsi infatti non è solo rinunciare ad un pezzo di territorio, ad una colonia, o mediare sulla proporzione fra popolazione araba e popolazione israeliana. Disgregarsi è anche smarrire il proprio patrimonio culturale e politico, arroccarsi su posizioni oltranziste, ingiuste ed ingenerose e progettare un futuro perenne di guerra. Dove sta andando la democrazia israeliana ci sembra, in definitiva, un «interrogativo complesso» da aggiungere ai tanti altri della questione israelo-palestinese.

Serena Marcenò