2008

M.A. Drumbl, Atrocity, Punishment, and International Law, Cambridge University Press, New York 2007, pp. xi-284

La sentenza del Tribunale Militare Internazionale che condannò i gerarchi nazisti alla fine della seconda guerra mondiale, sanzionò il carattere straordinario dei fatti puniti. Dal punto di vista dei giudici, si trattava non di crimini contro i cittadini di alcuni Stati, ma di crimini talmente atroci da ledere tutta l'umanità. L'atrocità di questi crimini fu definita da Hannah Arendt, facendo uso di una formula coniata molto tempo prima da Immanuel Kant, come "radical evil" (male assoluto), come qualcosa di talmente mostruoso da renderlo inconcepibile dal punto di vista giuridico (p. 3). Tuttavia, sulla base dei principi introdotti dalla sentenza del Tribunale Militare Internazionale, il diritto penale di matrice liberale, pensato ed elaborato per essere applicato a crimini ordinari, diviene lo strumento privilegiato per rispondere alle violazioni straordinarie dei diritti umani durante la seconda metà del secolo scorso ed i primi anni del 2000. Basti ricordare la creazione dei due Tribunali ad hoc per l'ex Jugoslavia (1993) e per il Ruanda (1994), l'approvazione (1998) e l'entrata in vigore (2002) dello Statuto di una Corte penale internazionale permanente, l'istituzione di una Corte Speciale per Sierra Leone (2000), e la serie di corti miste o ibride, le cui responsabilità sono condivise tra le Nazioni Unite e gli Stati direttamente interessati, costituite a partire dalla fine del secolo scorso, come quella ancora in funzioni in Kosovo (pp. 3-7).

Allo stesso tempo, le Nazioni Unite e le istituzioni internazionali create dai loro organi o col loro consenso, premono su tutti gli Stati perché adeguino i loro ordinamenti interni al modello del diritto penale liberale, basato sulla responsabilizzazione individuale e la punizione retributiva dei colpevoli, anche se le tradizioni giuridico-politiche e culturali delle nazioni non occidentali poggiano, in molti casi, su concezioni diverse della giustizia. Basti ricordare la trasformazione in atto del sistema tradizionale di giustizia tribale, riparativa e reintegrativa in Ruanda, noto come gacaca, motivata, inter alia, dalla volontà del governo nazionale di apparire più credibile di fronte alle Nazioni Unite e di facilitare la delega dal Tribunale Internazionale per il Ruanda al sistema di giustizia locale dei casi ancora irrisolti sul genocidio del 1994 (pp. 85-99).

Il processo e la punizione retributiva dei responsabili dei crimini in oggetto, se portati a compimento nel rispetto delle garanzie del "giusto processo" (imparzialità ed indipendenza dell'organo giudicante, garanzia del diritto di difesa, formazione della prova attraverso il contraddittorio, presunzione d'innocenza, ecc.), riflettono, nell'opinione degli ideatori dei processi e dei giudici internazionali, un sentimento di giustizia universale. E la dottrina giuridica praticamente non conosce studi che contestino una tale trasposizione di questo modello di giustizia a società con tradizioni culturali molto lontane da esso. Anzi, se ne celebra l'applicazione indiscriminata (p. 7-9).

E' questo il contesto in cui si colloca l'indagine di Mark Drumbl. Il suo libro cerca di rilevare quali sono le ragioni esposte dagli strumenti di diritto positivo e dalla giurisprudenza delle corti nazionali, internazionali e miste per punire allo stesso modo i responsabili di crimini straordinari, a prescindere dalle peculiarità di ogni caso e dai valori culturali delle società direttamente interessate. In particolare, l'autore analizza i casi del Tribunale Militare Internazionale di Norimberga e del Tribunale per l'Estremo Oriente, dei due Tribunali internazionali ad hoc per l'ex Jugoslavia e per il Ruanda, della Corte penale internazionale, della Corte Speciale per Sierra Leone, e degli East Timor Special Panels (cap. 3); per quanto riguarda, invece, il diritto e la giurisprudenza delle corti nazionali, Drumbl si concentra sui processi tenuti in Ruanda, nell'ex Jugoslavia e in altri paesi europei, contro gli accusati dei crimini commessi durante il genocidio ruandese e il conflitto nei Balcani degli anni Novanta, ma anche studia i processi contro i criminali nazisti celebrati in tutta Europa nella seconda metà del Novecento (cap. 4). In secondo luogo, Drumbl prova a dimostrare come e perché la pena applicata in questi casi è inefficace per raggiungere i fini rilevati come sua giustificazione e quali sono gli interessi politici sottostanti alla diffusione del diritto penale liberale come la risposta adeguata ad ogni caso di crimini di massa (capp. 5 e 6). Infine, conclude il suo lavoro elaborando proposte sui modi in cui i responsabili di questi crimini straordinari dovrebbero essere puniti e gli attuali sistemi di giustizia riformati per diventare più efficaci (capp. 7 e 8).

Per sostenere le sue tesi, Drumbl parte da un tentativo di sviluppo di una criminologia e di una vittimologia riguardanti esclusivamente i crimini internazionali straordinari (crimini di guerra, crimini contro l'umanità e genocidio, secondo la formulazione ex art. 5 dello Statuto di Roma) (cap. 2). La comunità internazionale, afferma l'autore, ha processato i responsabili di crimini internazionali straordinari senza previamente compiere un simile sforzo teorico (p. 44).

Nel terzo e quarto capitolo del suo lavoro, Drumbl compie un analisi ampiamente documentata dei fini della pena negli strumenti di diritto positivo e nella giurisprudenza delle corti nazionali, internazionali e miste. Egli si impegna a dimostrare l'influenza uniformante delle istituzioni internazionali nei sistemi di amministrazione di giustizia nazionali e locali. E rileva come le ragioni invocate per punire, sempre in modo più consono ai dettami del diritto penale liberale, sono la retribuzione, la prevenzione generale negativa (deterrence) e la prevenzione generale positiva (expressivism). Tuttavia, Drumbl sostiene, da una parte, che il diritto penale liberale presenta gravi difficoltà per raggiungere questi fini nei casi di crimini straordinari, mentre, d'altra parte, la trasposizione di questo modello è consumata in modo da aggravare tali difficoltà.

Successivamente, l'autore rileva le difficoltà del diritto internazionale penale per raggiungere i fini che vengono presentati come la sua giustificazione (cap. 6).

Per quanto riguarda la retribuzione, Drumbl assume che la giurisprudenza oggetto della sua analisi, nella quale questa giustificazione è prevalente, intende la retribuzione in questi termini: il responsabile deve essere punito perché merita il castigo, e la gravità del castigo deve essere proporzionale alla gravità del crimine commesso (p. 150). Drumbl individua quindi quattro caratteristiche del modello di giustizia penale prevalente a livello internazionale che ostacolano il raggiungimento di questo fine: la selettività, la severità della sanzione, la discrezionalità dei giudici nella determinazione della pena, e l'istituto del "plea bargaining" (imputazione negoziata tra il pubblico ministero e l'accusato in cambio dell'ammissione di responsabilità di quest'ultimo).

La prevenzione dei crimini attraverso la dissuasione generale causata dal timore al castigo è una tesi difficilmente sostenibile, per Drumbl, nell'ambito dei crimini straordinari. L'autore sostiene come non possa aspettarsi che gli individui prendano la decisione razionale di non commettere atti criminali in contesti in cui prevale l'isteria collettiva, il caos sociale e la coercizione di un governo o di un gruppo di potere che li esorta alla violenza massiva. Gli autori ed i complici dei crimini appartengono al gruppo di potere promotore delle atrocità, e sono spesso convinti della necessità di commettere questi crimini per tutelare i diritti o gli interessi dei membri dello stesso gruppo. E se non prendono la decisione di commettere o agevolare la commissione dei crimini sulla base di questa convinzione, agiscono motivati dalla necessità di sopravvivere, di non essere considerati dei traditori o dei paria. D'altra parte, il diritto penale liberale non comprende nel suo raggio d'attuazione le condotte dei bystanders e dei soggetti esterni alle società direttamente interessate, ma queste condotte portano alla costituzione del contesto necessario per la commissione dei crimini (pp. 169-173).

La prevenzione generale positiva, sostiene Drumbl, è forse il fine più plausibile del processo penale (p. 173). In particolare, egli crede che i processi internazionali possano svolgere una funzione efficace per quanto riguarda l'affermazione del valore della legge, la stigmatizzazione degli offensori e il riconoscimento convalidante delle narrazioni delle vittime (p. 175). Tuttavia, il modello di giustizia prevalente nell'ambito internazionale presenta diversi problemi per adempiere questa funzione. In primo luogo, Drumbl sostiene come sia difficile promuovere l'affermazione di valori all'interno di una società attraverso un'istituzione non rappresentativa della società stessa. E qualcosa di simile afferma per quanto riguarda la stigmatizzazione degli offensori. L'esperienza del Tribunale di Tokyo ne rappresenta un ottimo esempio: alcuni dei condannati da questo Tribunale ricoprirono, dopo la condanna, cariche di governo in Giappone (pp. 49 e 176). D'altra parte, ponendo ancora una volta in evidenza le sue tesi sull'unicità dei crimini in oggetto, Drumbl osserva le caratteristiche del processo penale che rendono difficile considerarlo uno strumento adeguato per la ricostruzione della verità (pp. 176-180).

Nel penultimo capitolo (pp. 181-205) l'autore elabora due proposte. Esse sono finalizzate a sostituire il modello del diritto penale liberale come risposta adeguata ad ogni caso di violenza massiva. In questo senso, Drumbl considera le sue proposte come riforme, le quali sono rivolte a rimediare i due grandi difetti del modello di giustizia in questione: il fenomeno dell'esternalizzazione della giustizia e il deficit di democraticità, da una parte, e le difficoltà del processo penale per raggiungere i fini giustificativi della pena, dall'altra. Nell'ultimo capitolo propone i modi d'implementazione delle sue riforme all'interno delle istituzioni internazionali già esistenti.

Drumbl definisce una riforma verticale e l'altra orizzontale. La prima costituisce un nuovo modo di determinare la competenza delle istituzioni internazionali e delle nazionali o locali di fronte ai crimini in oggetto: si deve concedere la priorità a queste ultime, mentre le istituzioni internazionali dovrebbero sostituirle solo in presenza di circostanze specifiche che l'autore elenca e definisce come criteri di decisione sul punto, ipotizzando anche la loro applicazione ai casi del Ruanda e dell'Uganda (pp. 187-194). Da rilevare che Drumbl non ritiene la punizione detentiva né qualsiasi altra forma di responsabilizzazione a livello interno come condizione necessaria per evitare l'intervento sostitutivo delle istituzioni internazionali. La riforma che egli propone è cosmopolitan pluralist: i crimini internazionali straordinari costituiscono fatti universalmente condannabili, e quindi vanno sanzionati, ma i meccanismi di responsabilizzazione possono variare in ogni singolo caso a seconda delle esigenze delle società direttamente interessate. La risposta da dare ai crimini in oggetto, di conseguenza, va cercata dal basso verso l'alto. Drumbl punta in questo modo a garantire non solo una maggior democraticità del processo di responsabilizzazione e il rispetto delle concezioni locali della giustizia, ma anche lo sviluppo di una criminologia e di una penologia specifica dei crimini di massa: solo sentendo le voci delle società direttamente interessate è possibile comprendere quali sono i valori della sanzione realmente condivisi da tutta l'umanità (p. 187).

La seconda riforma proposta da Drumbl comporta l'abbandono della concezione della giustizia penale come modello separato, concorrente ed escludente rispetto ad altre forme di responsabilizzazione (p. 195). Egli sostiene la necessità di ripensare un'integrazione più ampia di diversi meccanismi (riparazioni legislative, pubbliche inchieste, epurazioni, politiche commemorative, ecc.) ed istituzioni (da quelle comunali socio-legali, in particolare le indigene, alle giudiziarie e politiche nazionali e internazionali), onde superare la concentrazione di potere alla quale porta il predominio escludente del modello promosso dalle istituzioni internazionali e garantire una responsabilizzazione più ampia per i crimini commessi (pp. 194-204). In quest'ultimo senso, Drumbl sottolinea la distinzione tra colpevoli ed altri responsabili, ricordando ancora le sue tesi sulle peculiarità dei crimini di oggetto e gli studi empirici sulle opinioni delle vittime. E giustifica su questa base la necessità d'integrare diversi meccanismi di responsabilizzazione e diverse modalità di sanzione, difendendo l'opportunità di consentire l'introduzione di meccanismi non penali di responsabilizzazione collettiva nei confronti sia dei gruppi aggressori, sia di paesi o istituzioni straniere ed internazionali. Questi meccanismi potrebbero contribuire non solo a raggiungere fini riparativi, molto spesso preferiti dalle vittime anche in alternativa alla punizione retributiva dei colpevoli, ma anche preventivi. Per Drumbl, ad esempio, la minaccia di sanzioni collettive potrebbe motivare i membri del gruppo potenzialmente aggressore, in particolare i bystanders, a non assumere atteggiamenti favorevoli allo stabilimento delle condizioni necessarie per la commissione dei crimini. E forse le istituzioni internazionali non si sarebbero sottratte ai loro doveri di intervenire in Ruanda ed in Srebrenica per evitare i massacri. Questi meccanismi, di conseguenza, agirebbero in modo non tanto re-attivo, ma piuttosto pro-attivo (pp. 201-204).

Questa tesi, probabilmente la più "rivoluzionaria" in relazione al modello di responsabilizzazione promosso dai Tribunali internazionali, è passibile in astratto di numerose obbiezioni, così come viene riconosciuto dallo stesso autore (p. 204). Ma Drumbl difende la necessità di valutare empiricamente le potenzialità e le limitazioni di una modalità di responsabilizzazione orizzontalmente ampia, e quindi si oppone ad escluderla a priori dal novero delle possibili risposte da dare ai crimini internazionali straordinari.

Come egli stesso spiega, il suo lavoro intende provocare nuove discussioni e ricerche (p. 204). A mio modesto avviso, la rigorosità delle analisi, la coerenza e la singolarità delle tesi, e l'ampia documentazione sulla quale poggiano le conclusioni, consentono di credere che questo libro di Mark Drumbl è in grado di farlo.

Pablo Eiroa