2005

J. Donnelly, Universal Human Rights in Theory and Practice, second edition, Cornell University Press, Ithaca 2003, pp. 290, ISBN 0-8014-8776-5

A distanza di quattordici anni Jack Donnelly pubblica una nuova edizione di Universal Human Rights in Theory and Practice. In realtà, parlare di seconda edizione è riduttivo dal momento che, come precisa l'autore, più della metà del materiale pubblicato è inedita. La tesi che Donnelly si propone di difendere e le linee principali dell'argomentazione sono rimaste però invariate: l'obbiettivo del libro è quello di elaborare «una teoria dei diritti umani come diritti universali» (p. 1). I capitoli aggiunti rispetto al testo del 1989 ne aggiornano i contenuti in relazione agli avvenimenti decisivi che hanno segnato l'ultimo scorcio del ventesimo secolo e alle loro conseguenze sulla teoria dei diritti. Nella sua veste attuale Universal Human Rights è diviso in quattro sezioni, completate da una ricchissima bibliografia: la prima pone i fondamenti della teoria dei diritti umani; la seconda affronta il tema del relativismo culturale e la sua rilevanza per i diritti; la terza esamina lo statuto internazionale dei diritti; la quarta infine è dedicata ad alcune questioni specifiche - democrazia, sviluppo e diritti, diritti collettivi, diritti e minoranze sessuali, intervento umanitario.

I primi tre capitoli di Universal Human Rights sviluppano gli elementi fondamentali della teoria dei diritti di Donnelly. I diritti creano un «campo di interazioni regolate incentrato sul, e sotto il controllo del, detentore del diritto» (p. 8). Questo aspetto determina l'irriducibilità dei diritti ai doveri a essi collegati. I diritti umani, in particolare, sono posseduti da un soggetto per il semplice fatto di appartenere al genere umano. Sono caratterizzati dall'uguaglianza (tutti gli esseri umani possiedono gli stessi diritti), dall'inalienabilità (non si può cessare di essere uomini, perciò non si possono perdere i diritti umani) e dall'universalità (nel senso che i diritti umani devono essere riconosciuti a tutti gli esseri umani). Donnelly passa poi a considerare il ruolo della «natura umana». I diritti umani sembrano avere il loro fondamento nella natura umana. Tuttavia questo fondamento appare problematico. Qual è l'accezione di «natura umana» che fonda i diritti? Certamente non coincide con una nozione scientifica; la natura cui si fa riferimento quando si parla di diritti umani sembra essere piuttosto una costruzione sociale. Ma anche questa soluzione non è conclusiva: sono state proposte numerose ricostruzioni della natura umana tra loro incompatibili. Come scegliere quella giusta? Evidentemente non esiste un criterio indiscutibile che ci permetta di vagliare le teorie della natura umana. Questo ci porta a concludere che anche il problema più generale dei fondamenti dei diritti umani è un falso problema. «In ultima analisi i diritti umani riposano su una decisione sociale di agire come se i diritti fossero "cose" realmente esistenti» (p. 21 il corsivo è mio). Per questo motivo i diritti umani richiedono giustificazioni piuttosto che fondamenti, nel senso che la loro validità riposa essenzialmente su un accordo comune.

Nel mondo contemporaneo l'esistenza di un consenso diffuso sui diritti è testimoniato dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 e dagli altri trattati internazionali sui diritti. Questi documenti, nel loro complesso, pongono certi limiti al nostro modo di intendere i diritti umani. Questi vi figurano come diritti individuali - sono esclusi perciò i diritti collettivi -, interdipendenti e indivisibili - di conseguenza bisogna guardarsi dal tracciare distinzioni troppo nette tra diritti civili, politici e socio-economici. Inoltre, all'interno dello schema tracciato dalla Dichiarazione universale, lo Stato continua a detenere un ruolo esclusivo nella protezione dei diritti. La concezione dei diritti umani incorporata dalla Dichiarazione universale fa parte secondo Donnelly di quel ristretto insieme di principi che hanno acquisito una posizione «egemonica» all'interno del sistema internazionale, ovvero che sono riconosciuti come vincolanti dalla quasi totalità degli Stati. Le ragioni del «successo» dei diritti dipendono dal fatto che il loro 'modello' si fonda su una visione degli esseri umani come soggetti autonomi e uguali, la cui uguaglianza è riconosciuta dallo Stato e che è diventata oggetto di un consenso per intersezione di tipo rawlsiano. Ciò non significa che i principi che stanno alla base del catalogo dei diritti siano universali, nel senso di essere compatibili con tutti i sistemi sociali e tutte le tradizioni culturali: nella misura in cui i diritti umani valorizzano l'eguaglianza tra gli individui essi sono radicalmente incompatibili con i sistemi sociali fondati sulla disuguaglianza tra classi di individui. Si tratta piuttosto della circostanza che il modello della Dichiarazione universale, pur affondando le sue radici in una dottrina politica specifica, quella liberale, non propone una propria visione complessiva del bene e quindi può ricevere l'assenso da parte di soggetti che sposano concezioni del bene diverse.

I quattro capitoli che compongono la seconda parte affrontano il tema cruciale del relativismo culturale: il fatto che i diritti umani siano un prodotto della storia politica occidentale condiziona in qualche maniera la loro esportabilità presso culture non occidentali? Donnelly non contesta il radicamento dei diritti nel contesto occidentale. Nella sua ricostruzione la nascita del concetto moderno di «diritto soggettivo» va collegata da una parte al sorgere dell'economia moderna fondata sul mercato e dall'altra al diffondersi delle idee politiche di eguaglianza e tolleranza in risposta alle guerre di religione. Questo nesso genetico non implica tuttavia un analogo collegamento funzionale. Il fatto che i diritti siano sorti in Occidente non implica che non possano essere adottati anche dagli Stati non occidentali. Allo stesso modo, dalla circostanza che alcune grandi tradizioni religiose come la islamica, la confuciana, la buddista o l'induista esprimano degli ideali di giustizia, floridezza umana e legittimità politica totalmente indipendenti dalla nozione di «diritto soggettivo», non segue che questo strumento - e in particolare i diritti umani - siano incompatibili con quelle tradizioni. Contro i due estremi, ugualmente insostenibili, del relativismo culturale radicale, che sostiene l'internità a una cultura dell'unica fonte di validità di una regola di condotta, e dell'universalismo radicale, che per contro non riconosce alla cultura alcun ruolo nella legittimazione delle norme di condotta, Donnelly dichiara di assumere una posizione intermedia. Indica cioè un relativismo culturale debole, in base a cui l'universalità presunta delle norme di azione deve essere confrontata con la relatività della natura umana, dei sistemi sociali e dei codici morali, per ottenere una limitata variabilità nelle norme universali. Nell'ultimo capitolo della seconda parte, infine, Donnelly si confronta direttamente con il dibattito intorno ai cosiddetti Asian values - i principi tradizionali delle società dell'Estremo Oriente, che vengono contrapposti da alcuni leader e teorici orientali ai diritti umani - passando in rassegna e criticando con forza gli argomenti addotti dai sostenitori dei valori asiatici.

I saggi contenuti nella terza parte sviluppano la dimensione internazionale dei diritti umani. Secondo Donnelly i diritti umani costituiscono ormai un «regime internazionale» - la terminologia è quella introdotta da Stephen Krasner - ovvero «un sistema di norme e procedure accettato dalla comunità degli Stati come vincolante» (p. 127). A partire da questa definizione, Donnelly distingue fra regimi «di promozione», regimi «di implementazione» e regimi «di imposizione» (enforcement regime), in relazione alle norme e alle procedure previste. Questa tassonomia si incrocia con un'altra classificazione che distingue fra il regime globale dei diritti umani (incentrato sulla Dichiarazione universale dei diritti e sulle istituzioni delle Nazioni Unite), i regimi regionali (gli accordi che, nei vari continenti, impegnano gli Stati al rispetto dei diritti) e i regimi concernenti specifiche classi di diritti (diritti dei lavoratori, diritti delle donne, dei bambini, Convenzioni contro la tortura, ecc.). L'analisi che ne deriva rende conto dettagliatamente dei differenti livelli di tutela dei diritti nei diversi spazi della geopolitica. In particolare, il dato che emerge con maggior evidenza è costituito dalla difficoltà di procedere, a livello internazionale, oltre lo stadio del regime di promozione, in direzione della creazione di un regime di implementazione e di imposizione. Questa difficoltà è collegata, secondo Donnelly, con il persistente dato strutturale che pone gli organismi statuali al centro dei meccanismi di protezione internazionale dei diritti umani. Pur criticando gli argomenti realisti, che sostengono la completa irrilevanza dei diritti umani nell'ambito della politica internazionale, Donnelly sostiene infatti che nel migliore dei casi l'azione politica condotta dai singoli stati in favore dei diritti umani deve confrontarsi con il quadro complessivo degli interessi strategici di cui gli stati sono portatori.

I saggi contenuti nell'ultima parte di Universal Human Rights affrontano temi più specifici. Tuttavia, il discorso sviluppato da Donnelly sembra ugualmente snodarsi seguendo un filo unitario. La linea di continuità è rappresentata dall'approfondimento della concezione liberale dei diritti umani. Donnelly sostiene infatti, in particolare nel cap. 11, che la tesi tipicamente liberale della priorità dei diritti rappresenti la strada più opportuna per disinnescare il conflitto potenziale dei diritti umani con la democrazia da un lato e con la crescita economica dall'altro. Analogamente, sempre in stretto accordo con l'ortodossia liberale, l'A. si pronuncia criticamente sulla prospettiva di integrazione dei tradizionali diritti umani per mezzo di diritti collettivi (cap. 12), sostenendo che operare per il rispetto dei diritti già esistenti costituisca la maniera più efficace per conseguire l'obbiettivo della salvaguardia delle minoranze etniche, culturali e religiose. Più originale il contenuto del penultimo capitolo in cui Donnelly argomenta con forza a favore di un'estensione del diritto alla protezione contro le discriminazioni sancito dall'art. 2 della Dichiarazione universale anche al caso delle minoranze sessuali, auspicando un'interpretazione ad hoc della clausola finale dell'articolo, che proibisce le discriminazioni in base a «ogni altra condizione». L'ultimo capitolo, infine, affronta il tema dell'intervento umanitario. Nel complesso, pur con molte cautele, Donnelly sembra avallare gli episodi più recenti di ricorso a interventi di questo tipo, compreso l'intervento NATO in Kossovo, fino ad affermare che dopo la fine della guerra fredda la situazione internazionale si è evoluta in maniera tale da rendere azioni militari di questo tipo «moralmente legittime» anche in assenza dell'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite, e cioè quando, da un punto di vista strettamente giuridico, esse devono essere valutate illegali (p. 254). Anche da questa conclusione risulta confermato il profilo complessivo del volume di Donnelly: un lavoro molto ben documentato, sicuramente funzionale dal punto di vista didattico ma che si esaurisce in una riproposizione abbastanza prevedibile dei capisaldi della mainstream del pensiero liberal nordamericano.

Leonardo Marchettoni