2005

D. Domke, God Willing? Political fundamentalism in the White House. The "War on terror" and the echoing press, Pluto Press 2004, ISBN 0-7453-2305-7

Dio volendo vinceremo le elezioni. Per qualcuno questa affermazione può essere l'indice spontaneo di una speranza. Per altri, come il presidente degli Stati Uniti George Bush, è una certezza. Al punto da avere ricavato da una legittima invocazione l'abuso di un teorema politico-ideologico che oggi viene dissezionato, parola per parola, discorso per discorso, sul tavolo analitico di numerosi semiologi, teorici della comunicazione mediatica, e giornalisti.

Il volume di David Domke, ex giornalista e docente di comunicazione all'università di Whashington, sottopone il bushismo a un'attenta radiografia statistica. Ricco di grafici sensibili alle ricorrenze quantitative nei discorsi del presidente di alcune parole chiave (guerra preventiva, lotta del Bene contro il Male, difesa della sicurezza e della libertà del popolo americano contro gli attacchi terroristici), usate strategicamente perché entrassero nell'uso linguistico comune di tutti i media, il libro sembra mancare di un'analisi semiologica che potrebbe spiegare meglio il fenomeno della dislessia creativa di George Bush. L'uso, cioè, di un linguaggio fortemente simbolico innervato da potenti riferimenti religiosi, se non proprio mistici, espresso però in modo frammentario, tra gaffes verbali e concettuali per le quali Bush è noto e compiaciuto protagonista. Il modello di questa analisi è senz'altro il libro di Mark Crispin Miller, The Bush Dislexicon. Observation on a National disorder, (Norton, 2001) di cui il lettore italiano ha avuto un breve ma sostanzioso assaggio in una sintesi pubblicata nel volume curato da Roberto Festa, Cosa succede a un sogno. Le nuove tesi dei "neo-prog" Usa (Einaudi 2004).

Tornando alla sua analisi, Domke assume inizialmente due parametri: l'uso del tempo e la ricettività del sistema americano dei media alle parole del presidente. Il tempo, innanzitutto. Di esso la prima amministrazione Bush ha fatto un uso strategico dopo gli attentati dell'11 settembre. La risposta militare alla strage doveva avvenire in breve tempo, la sua immediatezza era anzi considerata un vero e proprio fattore politico per impostare la "guerra al terrorismo". E così anche per la guerra in Iraq. L'effetto count-down fornito prima dalle pressioni operate dalla Casa Bianca sull'assemblea generale dell'Onu, e poi dall'ultimatum a Saddam Hussein non rispondeva soltanto alle esigenze delle forze armate americane di disporsi sul terreno, ma soprattutto a una logica drammaturgica che ha messo una tenaglia sempre più stretta al collo del sistema internazionale dei media. Si è così creato un circuito a doppio vincolo che obbligava i media a dare massimo risalto alle dichiarazioni dell'amministrazione e, allo stesso tempo, a vincolare tutte le posizioni critiche a quelle dell'amministrazione con il risultato di negare la loro autorevolezza. Coloro che osavano infatti criticare le politiche dell'amministrazione venivano tacciati di contiguità con il nemico. Quando la nazione è in guerra, infatti, bisogna garantire l'unità nazionale e non è possibile tollerare alcun caso di dissenso sul fronte interno.

Due sono i casi di cui Domke analizza la copertura mediatica: il primo è del dicembre 2001 quando l'ex ministro della giustizia Ashcroft assimilò alcune posizioni critiche a un attentato all'unità nazionale. Il secondo è del settembre 2002 quando Bush disse che quei senatori democratici contrari alla costruzione del carcere per "terroristi" di Guantanamo Bay non erano interessati alla sicurezza del popolo americano. La copertura mediatica data a queste dichiarazioni illumina l'autoritarismo implicito della prima amministrazione Bush, ma a parere di Domke anche il supporto concessole dai media, New York Times (prima del famoso mea culpa in prima pagina che lo ha spinto a tornare su posizioni più critiche) e Whashington Post inclusi, che hanno agevolato la creazione di quel circuito di cui i comunicatori della Casa bianca sono esperti. Il paradosso finale, annota Domke, è che pur rivendicando la difesa della sicurezza del popolo americano e la protezione delle libertà dei popoli, l'amministrazione Bush ha fatto esattamente il contrario sferrando un colpo mortale anche ai diritti civili interni con l'approvazione del Patriot Act e la creazione del dipartimento della sicurezza interna.

Ma allora i media americani possono essere considerati corresponsabili della strategia della Casa Bianca? Per ingenuità o per calcolo, forse sì. E questa è infatti la conclusione del ragionamento di Domke ma la questione appare sicuramente più complessa. L'uso tanto esibito quanto strategicamente studiato del lessico millenaristico di Bush (la guerra del Bene contro il Male, l'elezione divina degli Stati Uniti nella guerra contro il terrorismo) non risponde esclusivamente alle esigenze del suo uso mediatico, ma rispecchiano una storia politica e teorica molto lunga e stratificata. Solo in alcuni brani Domke sfiora l'argomento che qui cercheremo brevemente di ricostruire in alcuni dei suoi capisaldi storici. In primo luogo, la questione dell'elezione divina degli Stati Uniti. Un tema derivato da quello biblico del popolo eletto che uno dei giganti della politica americana, Thomas Jefferson, con il consenso di John Adams e di Benjamin Franklin, inserì nell'estate del 1776 nella costituzione. Da allora, quello dell'Apocallisse è probabilmente il libro della Bibbia più letto dai presidenti americani: racconta dello scontro tra le forze del Bene e quelle del Male e si conclude con la vittoria finale del Bene e il ritorno del Messia. Ciò rende la narrazione godibile per il grande pubblico, soprattutto quando interseca la storia americana come l'ultima fase, quella determinante, prima dell'avvento del "nuovo millennio": il cielo scenderà sulla terra, gli uomini saranno giudicati secondo il loro merito e verrà istituita l'ultima epoca pacifica prima della fine dei tempi, lo "Shabbat perpetuo" che è una metafora protestante per annunciare quello che Francis Fukuyama avrebbe molto più tardi definito "la fine della storia".

L'uso della retorica del fondamentalismo religioso risponde tuttavia a una storia politica ben precisa. È almeno dalla metà degli anni Settanta, infatti, in coincidenza con la crisi fiscale dello stato sociale statunitense, che le chiese fondamentaliste hanno regolarmente iniziato a promuovere campagne sulla "salvezza", sulla "redenzione" e sulla "trascendenza personale" degli individui soffocati dalla crisi economica. Da allora hanno offerto una cornice religiosa nella quale scambiare una realtà deprimente per una speranza estatica in una vita migliore, in una morte apocalittica e in una resurrezione collettiva dei "salvati". Queste chiese promuovevano la restaurazione della famiglia tradizionale e dei suoi valori con una vigorosa furia in stile vecchio testamento contro l'aborto, l'omosessualità, il carrierismo delle donne, l'educazione permissiva dei bambini, l'educazione multiculturale e la libertà sessuale tratteggiati come "i" nemici "della" famiglia e minacce principali al diritto dei lavoratori di restaurare la perduta qualità della vita (romanzata anche religiosamente come "i buoni vecchi tempi").

I repubblicani di Bush strinsero una solida alleanza con la religione fondamentalista. I fondamentalisti organizzavano la base delle politiche neo-liberiste dei repubblicani per rovesciare l'eredità del New Deal (le leggi sul lavoro, lo stato sociale, la regolazione dell'industria di Stato ecc.). E di rimando i repubblicani di Bush si davano gli stessi obiettivi dei fondamentalisti religiosi: limitazione o soppressione degli aborti, dei matrimoni gay, delle libertà civili degli omosessuali e promuovono politiche per favorire le scuole confessionali, l'astinenza sessuale degli adolescenti e i curricula della scuola pubblica riscritti in ottica religiosa. I repubblicani hanno concesso sussidi di stato (e non solo) alle chiese fondamentaliste che sostituivano i programmi dello stato sociale con quelli religiosi, aiutando anche le scuole religiose e riducendo la separazione tra stato e chiesa.

Il ruolo di due leader fondamentalisti religiosi, il Reverendo Jerry Falwell e il Reverendo Pat Robertson, fu determinante per dare a questa alleanza sociale, prima ancora che politica, una visibilità mediatica. Domke ricorda che entrambi apparvero in televisione subito dopo la strage dell'11 settembre per dichiarare che la tragedia era il segno dell'ira divina. Femministe, omosessuali, atei e altri vari degenerati dovevano essere maledetti per il disastro. Avevano corrotto la nazione tanto da incorrere nella punizione divina dell'11 Settembre. Lo stesso argomento è applicabile allo scontro con la "civiltà islamica" in versione fondamentalista di cui non mancano ampli riferimenti nelle dichiarazioni di Bush.

Siamo quindi tornati alla storia del Vecchio Testamento di Sodoma e Gomorra adattata al XXI secolo. In un modo ancora più insidioso, l'American Council of Trustees and Alumni, un'organizzazione cofondata da Lynne Cheney, la moglie del Vice Presidente, compilò e diffuse ampiamente un dossier di dichiarazioni fatte da un cospicuo numero di accademici americani che li accusavano di essere anti-americani perché, tra le altre cose, si erano opposti alla rappresaglia militare e "avevano invocato la tolleranza e la diversità come antidoto al male" (il dossier, pubblicato da J.L. Martin e A. D. Neale è intitolato Difendere la civiltà: come le nostre università stanno rovinando l'America e cosa bisogna fare. È stato pubblicato dall'Acta nel novembre 2001 ed è scaricabile via Internet). Furono in 117 i docenti che rilasciarono dichiarazioni utili alla causa patriottica contro la minaccia "dei nemici dell'America".

Da questi brevi cenni si può capire come la copertura mediatica (e ideologica) assicurata alle strategie di guerra della Casa Bianca non risponde completamente a una scelta deliberata di una serie di anchormen di schierarsi dalla parte del Grande Fratello, ma è il risultato di un vasto e pluridecennale processo sociale che ha raggiunto la sua piena consapevolezza con la definizione di una egemonia fondamentalista religiosa nella società americana. Il problema non è dunque solo quello dei media, ma il consenso che la destra religiosa repubblicana ha saputo conquistarsi a partire dalla contro-rivoluzione liberista avviata sin dai primi anni Ottanta da Reagan per rimuovere le conquiste civili e sociali dei movimenti degli anni Sessanta.

Roberto Ciccarelli