2005

O. de Leonardis, In un diverso welfare. Sogni e incubi, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 183, ISBN 88-07-47019-5

Qual è la ricetta vincente per uscire dalla crisi del welfare? Negli ultimi anni le risposte a questo interrogativo sembrano andare tutte e consensualmente nella medesima direzione: il mercato sociale, il welfare mix, l'incentivazione del terzo settore, il nonprofit, l'aziendalizzazione dei servizi sociali pubblici, ecc. Un terreno non ben definito, ancora molto instabile e pullulante di contraddizioni - sostiene Ota de Leonardis, autrice di questa preoccupata ricerca sociologica sugli scenari del dopo welfare. In ogni caso, prosegue l'a., ciò che accomuna le proposte più o meno ardite di liberalizzazione e privatizzazione del settore dei servizi è l'accento posto sulla "tendenziale sostituzione del welfare state, che presuppone mediazione amministrativa e responsabilità pubblica nella riproduzione sociale, con relazioni di scambio tra domanda e offerta di beni 'sociali', che presuppongono invece capacità di autoregolazione della società" (p. 8): certezza della crisi (fiscale, ma anche ideologica e pratica) dello stato sociale e fiducia assoluta nell'autorganizzazione della società tramite le energie del libero mercato. Il volume prende spunto da queste convinzioni diffuse per tematizzare e mettere in rapporto due questioni centrali solitamente trascurate: la questione dello statuto pubblico dei beni sociali - che s'identificano con i dispositivi di base della cittadinanza - e la questione dello statuto organizzativo dei servizi, di come funzionano e di che tipo di 'qualità sociale' producono. Ci occuperemo qui soprattutto del primo tema.

È vero, ammette l'a., che il modello welfaristico keynesiano è giunto ad un punto morto, non più compatibile con le politiche sociali e con quelle economiche che oggi si impongono globalmente. Ed è vero anche che l'ampliarsi di un mercato sociale in cui interagiscono lo stato, il mercato e il terzo settore è un "passaggio ineludibile" delle nostre società, un modello sperimentabile per coniugare nuovamente crescita economica e benessere sociale. Ma quale modello? Pare che, con il conclamato esaurimento del progetto del welfare, se ne rigetti anche la "forza delle culture della cittadinanza - di una 'società migliore', aperta, capace di sopportare contraddizioni, orientata all'inclusione" (p. 14). Al di là delle retoriche 'buoniste' in cui prevalgono omogeneità e consenso, sembra affermarsi una logica della naturalizzazione del disagio sociale (la 'povertà' torna ad essere un tema dei dibattiti) che ben si concilia con la priorità assegnata ai criteri economici e con l'assenza di sensibilità verso la sostenibilità sociale delle nuove economie. L'insistenza sulle capacità autorganizzative della società (la welfare society) tradisce infatti un ritorno delle "culture del privatismo", in cui anche per quanto attiene alle materie sociali si fa appello a motivazioni appartenenti alla sfera privata (gli interessi e i valori morali) e la solidarietà stessa può diventare "il sostituto privatistico della corresponsabilità verso la cosa pubblica" (p. 19). La questione sociale come questione pubblica - questa è la difficile eredità del welfare state e del suo progetto di cittadinanza. Un progetto e un processo, come ribadisce a più riprese l'a., non privo di ambiguità, di fallimenti, di deviazioni: burocratizzazione dell'assistenza pubblica, paternalismo e collettivismo, deresponsabilizzazione e quella stessa distribuzione di beni pubblici nella forma di beni privati che appare tanto simile oggi alle politiche neoliberiste. Anche il modello welfaristico, insomma, si è rivelato spesso autocontraddittorio, a partire dalla stessa equivalenza di pubblico e statuale, che a lungo andare ne ha inficiato la capacità di coinvolgimento di cittadini partecipi ad una socialità comune. Ciò non toglie che quella fosse la sfida: una redistribuzione di beni pubblici condivisi, intesa come prassi creatrice di comunanza e partecipazione, come l'essere (non l'avere) della cittadinanza, e non come mero atto di spartizione o di risposta a domande private.

La ricerca empirica mostra che gran parte del mercato sociale non ha saputo o voluto raccogliere questa sfida, anche laddove ha occupato con 'profitto' le aree di intervento sociale lasciate scoperte dal ritrarsi dello stato. I cardini del terzo settore (volontariato, solidarietà e nonprofit), a parte il loro carattere polimorfico e discontinuo, anche qualora riescano a innescare un circolo virtuoso tra la logica degli affari e quella degli interessi collettivi (la famosa quadratura del cerchio), non acquistano la valenza normativa di istituzioni produttive di legami sociali (o, ancora di più, espressioni dirette di questi), ma sempre più spesso scivolano verso "l'ambiguo terreno della 'produttivizzazione' del sociale" (p. 73). Allo stesso modo, il welfare mix (stato finanziatore e privati erogatori di servizi) può vantare il pareggio dei bilanci e la copertura dei bisogni, ma resta inevitabilmente lontano dalla rispondenza a criteri pubblici nella distribuzione delle risorse comuni (ancora una volta, siamo nella sfera delle transazioni private - magari rispondenti a criteri di giustizia equa, come vogliono i neocontrattualisti, ma ben lungi dal discorso collettivo sulla "redistribuzione di poteri, non soltanto di beni", p. 86). La titolarità dei problemi pubblici sfuma così nella casistica e nella soggettivazione. Ne offrono una conferma i nuovi vocabolari di questa socialità privata, frequentemente richiamati da de Leonardis nel corso della sua disamina: l'inflazionata e gettonatissima nozione di empowerment, ad esempio, che dall'indicare l'obbligo dei servizi sociali di rimettere le persone in grado di partecipare attivamente, autonomamente, al discorso pubblico e alle sue scelte politiche (un conferimento di poteri, dunque), tende sempre più ad assumere la pratica della responsabilizzazione individuale e dell'invito a 'cavarsela da sé'.

A questa carrellata fin troppo realistica di "incubi" sullo stato attuale dei servizi sociali, seguono alcune considerazioni che ci sembrano porsi a metà strada tra giustificate aspettative e "sogni" veri e propri. Al lettore naturalmente, se vorrà prendere in mano questo utile volume, il giudizio definitivo. Trattando dei servizi dal punto di vista organizzativo, l'a. descrive un'emergenza caratteristica del postfordismo: la terziarizzazione della produzione. Siamo qui nell'economia tout court, non in quella sociale. In questo ambito si assiste ad una metamorfosi del prodotto, che tende a diventare fattore di relazione: il "prodotto-servizio" rappresenta un passaggio che "introduce nell'organizzazione della produzione e degli scambi economici la logica del servizio" (p. 104). La nuova "economia delle relazioni" - contrassegnata dalla fluidificazione comunicativa, dalla interdipendenza e dalla produttività intrinseca della relazionalità - potrebbe costituire mutatis mutandis (ma quanto ci sarebbe da mutare, ci si può chiedere!) un modello per ripensare la forma dei servizi sociali, da erogazione di prestazioni materiali centrate su 'cose' (il farmaco, il colloquio, il sussidio, la casa, il lavoro) a pratiche interattive la cui struttura organizzativa, centrata sulla produzione di relazioni, generi nuove relazioni. È la via attraverso la quale l'a. ripropone i potenziali normativi della cittadinanza andati perduti con la crisi del welfare: "i servizi sono sociali quando, e in quanto, producono socialità, in quanto cioè generano e rigenerano legami sociali, comunicazione, cooperazione e conflitto" (p.131). L'altra via è incarnata dalle esperienze concrete delle "imprese sociali", che coniugano la questione organizzativa così impostata con la questione pubblica, e si orientano sull'attivazione relazionale di aree sociali secondo criteri imprenditoriali (un esempio: la comunità di recupero per tossicodipendenti che apre un esercizio commerciale). Costruite dal basso e supportate dal pubblico e dagli stessi utenti che, attraverso un autentico processo di empowerment o 'validazione' ne divengono gli attori principali, queste imprese possono essere viste come modelli di "istituzioni per la qualità sociale", in cui il servizio pubblico svolge infine il ruolo produttivo di capitalizzazione del sociale e di realizzazione della cittadinanza come processualità sociale, dando cioè luogo alla crescita e alla diffusione delle "capacità di azione e di scelta che rendono tali i cittadini" (p. 173). Siamo, come si sarà compreso, nell'ambito dei "sogni" che in filigrana (ma anche esplicitamente) rivelano un'impostazione generale assai vicina alle più recenti intuizioni habermasiane: con il merito, che va tuttavia ascritto a Ota de Leonardis, di averle estrapolate dal loro guscio di normatività liberaldemocratica e radicalizzate in senso critico.

Alessandro Paoli