2006

R. D'Alessandro, Breve storia della cittadinanza, Manifestolibri, Roma 2006, pp. 207, ISBN 88-7285-420-2

Il termine «cittadinanza» è dotato oggi di una connotazione polisemica, conseguente alla sua storia, sulla quale si può vedere la monumentale opera in quattro volumi di Pietro Costa (Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, Roma-Bari, Laterza 1999-2001), compendiata nel più agile e recente Cittadinanza, dello stesso autore (Roma-Bari, Laterza, 2005). Originariamente, nel tradizionale ambito dell'antica Roma, la cittadinanza era uno stato giuridico che copriva sia il livello dello jus civile sia quello dello jus gentium, i quali entrambi abbracciavano la condizione degli esseri umani liberi e maschi: o civis romanus oppure peregrinus. A questo significato si aggiunse quello datogli dalla grande svolta della Rivoluzione Francese, che riconoscendo ai sudditi alcuni diritti fondamentali li trasformò in cittadini, dando impulso alla nascita della democrazia intesa, per dirla con Norberto Bobbio (L'età dei diritti. Dodici saggi sul tema dei diritti dell'uomo, Einaudi, Torino 1990, p. VII), come «società dei cittadini».

Nella fase odierna, che ha inizio con la Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1948, l'affermazione dei diritti diventa universale, nel senso che i destinatari non sono più soltanto i cittadini di questo o quello stato bensì tutti gli uomini. L'accezione di cittadinanza abbraccia oggi gli esseri umani in quanto portatori di eguali diritti fondamentali. Nell'età nella quale viviamo, definita dallo stesso Bobbio l'«età dei diritti», gli esseri umani non sono soltanto titolari di diritti in quanto cittadini di qualche stato, ma anche titolari di diritti fondamentali almeno in teoria universalmente indiscutibili, idealmente riconosciuti ed effettivamente protetti. Il soggetto portatore di cittadinanza ha la possibilità di entrare in rapporto con qualche stato, non necessariamente il suo, e far valere i propri diritti.

Nell'ambito della filosofia politica odierna insomma, cittadinanza indica il godimento dei diritti civili, politici e sociali di uno stato, ma anche il godimento dei diritti fondamentali per tutti gli esseri umani. Ed è questo il concetto di cittadinanza/diritti di cui D'Alessandro segue la storia in età moderna e contemporanea, specificamente in alcune nazioni europee e negli Stati Uniti.

L'autore segue il cammino percorso dalla cittadinanza, o meglio dai diritti di cittadinanza, un cammino che vede schierate le rivendicazioni di individui, gruppi, classi che di questi diritti hanno chiesto riconoscimento. Quella di D'Alessandro è una storia multidisciplinare, e non potrebbe essere altrimenti, che coinvolge le scienze della politica, dell'economia, della filosofia del diritto e della politica, dell'etica, e che ha inizio nel momento in cui la Dichiarazione dei diritti dell'Uomo e del cittadino del 1789 proclama la sovranità di un popolo formato da uomini liberi e uguali che sancisce la fine dell'ancien régime. La denominazione di uomini liberi e uguali va presa alla lettera: si trattava allora, e per un lungo periodo ancora, proprio di uomini, non di donne: quando si parla di cittadini attivi o passivi, esclusi o inclusi nel voto, nemmeno si considerano le donne. Io proporrei quindi all'autore di servirsi più spesso, per es. a p. 25, o a p. 31 quando parla di suffragio universale, della magica paroletta «maschile», che un linguaggio politicamente corretto dovrebbe in ogni caso far comparire laddove le istituzioni escludono, di diritto o di fatto, le donne: quindi, per favore, Campionati mondiali di calcio maschile, Orchestra Filarmonica maschile di Berlino, tale fino al momento in cui Abbado si è battuto per aprire l'ingresso alle donne, e così via.

Anche quando si affronta il tema della negazione dei diritti politici, sociali e civili, nel fascismo italiano, nelle dittature rumena, portoghese o spagnola da p. 43 non si può trascurare di rilevare che le donne di molti di essi non ne godevano in alcun caso. In un altro punto D'Alessandro parla di negazione dei diritti, anzi di quella che lui definisce «la pagina più nera dell'intera storia dei diritti umani, la loro negazione assoluta» (p.54) ovvero la Shoah.

D'Alessandro concorda con Bobbio nel considerare i diritti come storici: storici ma non in evoluzione lineare, come li aveva letti invece il teorico della moderna cittadinanza, Thomas Marshall, che aveva sviluppato alla fine degli anni '40 del Novecento uno schema secondo il quale i diritti civili (cioè i «diritti di libertà» che comprendono diritto alla vita, alla sicurezza e alla proprietà, alla libertà di pensiero e di religione, di riunione e di movimento) si sviluppano per primi (a partire dall'Habeas Corpus), seguiti dai diritti politici e poi dai diritti sociali. L'A. critica questo schema, e questo mi pare uno dei contributi più originali del volume, preferendo a un processo lineare quella che definisce «un'interazione dinamica che procede per salti e marce indietro e soprattutto diverge da paese a paese» (p.72). Lo si constata per esempio in un momento importante della recente storia della cittadinanza, quando si assiste, negli anni '60 del Novecento, all'emergere di «nuovi soggetti portatori di diritti», momento nel quale la nozione di cittadinanza va a intersecarsi con quella di differenza. La politica della differenza chiede di riconoscere l'identità irrepetibile, distinta da quella di chiunque altro, di questo individuo o questo gruppo, partendo dall'idea di base che questa differenza sia stata ignorata, trascurata, assimilata a un'identità dominante o maggioritaria. E tale assimilazione è il peccato capitale contro l'ideale dell'autenticità. Il problema della politica della differenza è che essa ci chiede di concedere un riconoscimento e uno status a qualcosa di non condiviso universalmente, e questo sembra entrare in conflitto con l'universalismo liberale dei diritti, come nel caso della cittadinanza multiculturale.

La storia dei diritti, ci dice insomma D'Alessandro, non è una storia lineare delle loro magnifiche e progressive sorti: a dimostrarne rischi e ambiguità l'A. recupera fra l'altro il pensiero di Michel Foucault e la sua critica al potere reticolare, rizomatico, ai micropoteri che si infilano nelle microfessure della società e delle istituzioni (utilizzando il linguaggio di Foucault e quello di Deleuze) vanificando in parte le conquiste dei diritti.

L`ultima parte del libro è dedicata alle nuove forme di cittadinanza: la cittadinanza femminile, l'attenzione per i migranti, le iniziative civiche, le lotte fiscali, l'azione dei centri sociali, gli interventi degli ambientalisti, i movimenti, i girotondi, tutte iniziative che rinvigoriscono dal basso l'azione talvolta tiepida delle istituzioni. Infine la cittadinanza all'epoca della globalizzazione, con i nuovi problemi del conflitto tra libertà e sicurezza, tra sicurezza e diritti, denunciati proprio in questi giorni da Amnesty International. Il tutto, sotto l'ombra di alcuni numi tutelari che sono, oltre ai già citati Foucault e Deleuze, i francofortesi, Adorno, Marcuse, Habermas.

Francesca Rigotti