2010

P. Collier, Wars, guns, and votes: democracy in dangerous places, HaperCollins, New York 2009, ISBN 978-0-06-147963-2

Dopo la pubblicazione di The Bottom Billion, Paul Collier ritorna nuovamente ad occuparsi della condizione e delle prospettive dei paesi a basso livello di reddito. Nel recente Wars, guns, and votes: democracy in dangerous places l'autore analizza la relazione fra la struttura politica dei paesi che compongono il così detto Ultimo Miliardo (si veda la versione italiana, L'Ultimo Miliardo, pubblicato da Laterza), e la frequenza con cui in questi paesi si verificano prese del potere politico da parte dell'esercito, e con cui scoppiano dei conflitti armati.

Durante i decenni della Guerra Fredda, la contrapposizione con i paesi del blocco socialista aveva portato i paesi occidentali a fornire sostegno politico, economico e militare ad un gran numero di paesi retti da regimi autoritari. Con la dissoluzione dell'Unione Sovietica e la fine della contrapposizione strategica fra i due blocchi, i paesi occidentali hanno esercitato una crescente pressione per una maggiore apertura democratica, e l'introduzione di libere elezioni. L'anno della caduta dell'Unione Sovietica marca anche un secondo cambiamento: la diffusione dei conflitti armati nel mondo raggiunge il suo massimo proprio nel 1991, iniziando da allora un processo di graduale diminuzione. La speranza, diffusa nella comunità internazionale, è che fra questi due processi sussista una relazione di tipo causale: la diffusione della democrazia consente di ricondurre nell'ambito dell'arena politica quei contrasti che davano in precedenza luogo all'insorgere di conflitti armati, che - nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale - erano prevalentemente di carattere interno. Questa convinzione si rifletteva anche nelle operazioni di peacekeeping condotte nel corso degli anni Novanta, dove l'organizzazione di elezioni e il rapido disimpegno dei caschi blu facevano seguito al conseguimento della cessazione delle ostilità fra le parti in conflitto.

Paul Collier constata che questa aspettativa altro non era che un'illusione, come rilevato già dalla tendenza alla ripresa dei conflitti armati dopo la conclusione delle operazioni di peacekeeping. L'autore osserva come le elezioni multipartitiche rappresentino solo un aspetto necessario, ma tutt'altro che sufficiente, per l'introduzione di un effettivo regime democratico, e suggerisce che, in paesi a basso reddito, l'introduzione di elezioni multipartitiche non ha affatto portato ad una successiva diffusione della democrazia, ma all'instaurazione di quella che Collier definisce come demopazzia (Nel testo originale viene utilizzata l'espressione democrazy, con un gioco di parole che abbiamo cercato di mantenere nella traduzione italiana). La demopazzia si caratterizza per l'introduzione di uno solo dei tratti distintivi di regimi democratici, ovvero le elezioni, senza che questo elemento si accompagni né alla legittimità del governo eletto, né alla soggezione al sistema di vincoli e controlli sull'azione dell'esecutivo che caratterizza i sistemi pienamente democratici. Collier dedica vari capitoli del libro a spiegare il perché la democrazia si trasformi in demopazzia nei paesi dell'Ultimo Miliardo, non riuscendo a modificare lo stampo neo-patrimonialistico ancora diffuso in molti paesi, e come questo produca conseguenze estremamente pericolose.

Non solo, infatti, l'introduzione di sistemi multipartitici non ha comportato l'affermazione di un regime democratico nei paesi dell'Ultimo Miliardo, ma ha anche aumentato il rischio che in questi paesi esplodano conflitti armati, o che si verifichi un colpo di stato. Questo argomento, che rappresenta lo snodo cruciale del libro, si basa su un recente saggio scritto dall'autore con Dominic Rohner ("Democracy, Development and Conflict", Journal of the European Economic Association 6, 531-540), dove l'analisi econometrica suggerisce che l'introduzione di un regime democratico si associa con un maggior rischio di conflitto civile per paesi con un reddito pro capite inferiore a $2.700. Dunque, non solo la diffusione di elezioni multipartitiche non è sufficiente a ridurre il rischio di conflitto, come dimostrato dalla ripresa delle ostilità in paesi dove queste erano state introdotte, ma potrebbero in realtà aggravare la situazione di rischio.

Qual è la spiegazione che Collier dà di questo effetto? L'autore osserva che l'assenza di conflitto potrebbe essere associata ad una situazione in cui il governo reprime in modo violento qualunque forma di opposizione interna, prevenendo lo scoppio di un'insurrezione. Basta pensare al genocidio perpetrato dal regime baathista iracheno contro i curdi alla fine degli anni Ottanta per comprendere che l'assenza di un conflitto armato non deve essere in alcuno modo confusa con una condizione di pace, data la possibilità di un ricorso unilaterale ad una violenza brutale da parte del potere politico. La pressione della comunità internazionale per l'introduzione di elezioni e per il rispetto dei diritti umani rappresentano un vincolo alle possibilità del governo di reprimere il dissenso, e potrebbero portare alla formazione di gruppi ribelli e allo scoppio di un conflitto.

L'autore è lontano dal sostenere che questo offre una giustificazione al mantenimento di regimi autoritari in paesi poveri, ma sostiene che la promozione della democrazia in luoghi pericolosi - come recita il sottotitolo del libro - deve essere accompagnato da un impegno della comunità internazionale volto a garantire la sicurezza dei paesi che introducono libere elezioni. Facendo di nuovo riferimento al proprio lavoro accademico sulle determinanti dei conflitti armati, Collier suggerisce che un'esplicita garanzia di protezione militare da parte dei paesi occidentali può essere efficace nel ridurre il rischio di conflitti e colpi di stato. Questo argomento si basa sulla constatazione, supportata da analisi econometriche, che le ex colonie francesi dell'Africa Sub‑Sahariana sono state meno esposte all'esplosione di violenza politica, e l'autore riconduce questo fatto alla protezione esplicita offerta dalla Francia fino al 1999, anno in cui decise non intervenire in Costa d'Avorio, mutando una consolidata strategia politica e militare volta a mantenere una forte influenza nell'Africa francofona.

Come osservava William Easterly in "Foreign Aid Goes Military!", la sua recensione di The Bottom Billion sulla New York Review of Books, Collier si fa portatore della necessità di spostare l'intervento della comunità internazionale dal piano dell'aiuto a quello politico e militare. Collier argomenta che l'aiuto allo sviluppo dovrebbe essere soggetto ad una sorta di condizionalità istituzionale, ovvero che dovrebbe essere fornito solo a paesi che soddisfino dei criteri di trasparenza nella spesa pubblica. Allo stato attuale, suggerisce l'autore, l'aiuto diretto ai paesi dell'Ultimo Miliardo non fa altro che aumentare gli incentivi a conquistare il potere politico con mezzi violenti, dato che contribuisce ad allargare le rendite di cui si può così acquisire il controllo, e contribuisce inoltre a finanziare la spesa in armamenti (a quest'ultimo riguardo, si veda anche P. Collier e A. Hoeffler, 2007, "Unintended Consequences: Does Aid Promote Arms Races?", Oxford Bullettin of Economics and Statistics 69, 1-27). Collier sostiene che la comunità internazionale possa offrire un contributo maggiore allo sviluppo di paesi che si trovano intrappolati in un circolo vizioso fatto di povertà e conflitti offrendo un appoggio militare esplicito volto a proteggere i governi che acconsentano ad introdurre elezioni multipartitiche, e garantiscano un loro corretto svolgimento.

L'autore affronta il problema della fattibilità politica - per i paesi occidentali - di una tale proposta, argomentando che quanto da lui proposto non ha niente a che vedere con i recenti interventi militari in Iraq od in Afganistan, e che è decisamente meno interventista del principio della responsability to protect adottato dalle Nazioni Unite. Questo perché, sostiene l'autore, nessun gruppo di militari deciderà di rovesciare un governo che goda di una protezione esplicita da parte della comunità internazionale e, dunque, tale garanzia non dovrebbe - se non in rari casi - tradursi in un effettivo intervento volto a reinsediare il governo legittimamente eletto al potere.

La proposta di Paul Collier è decisamente forte, ma non provocatoria. L'autore si dice convinto che i paesi dell'Ultimo Miliardo non siano in grado, da soli, di consolidare né un regime che vada oltre la sola facciata delle democrazia, ovvero le elezioni, né di porre un freno alla violenza politica. L'intervento della comunità internazionale è necessario affinché un paese possa progredire in entrambe le due direzioni.

Naturalmente, una tale proposta può essere fatta oggetto di molteplici critiche. In particolare, ci si può domandare in che misura la valutazione della democraticità di un paese dell'Ultimo Miliardo possa essere influenzata dall'allineamento delle politiche del governo con gli interessi economici dei paesi occidentali che dovrebbero conferire la conseguente protezione militare contro i colpi di stato. O se una tale protezione potrebbe essere accettabile da parte di governi che potrebbero essere facilmente criticati dai partiti di opposizione per aver asservito il paese all'influenza delle ex potenze coloniali.

Ma la proposta di Collier appare debole anche sotto un altro, e forse più profondo, aspetto. Ovvero, rispetto alle pubblicazioni accademiche sulle determinanti dei conflitti sulle quali si basa il filo del discorso proposto in Wars, guns, and votes. L'eccellente saggio di Christopher Blattman e Edward Miguel, "Civil Wars", in corso di pubblicazione sul Journal of Economic Literature, esprime il seguente netto giudizio rispetto agli studi empirci sul tema dei conflitti armati: "la maggior parte dei lavori è afflitta da seri difetti rispetto all'identificazione econometrica", e che i soli fattori per i quali è stata provata in modo convincente una relazione causale con l'insorgere dei conflitti sono "bassi redditi, una lenta crescita economica e condizioni geografiche che favoriscono l'insurrezione" (nostra traduzione). Paul Collier ha certamente il grande merito di aver aperto il campo all'analisi economica dell'insorgere dei conflitti armati, ma i suoi risultati sulla relazione fra democrazia e conflitto, o sull'effetto della protezione militare esterna non compaiono fra i (pochi) fattori rispetto ai quali, secondo Blattman e Miguel, esiste una solida e convincente evidenza empirica. Inoltre, il saggio di Collier e Rohner che costituisce la chiave di volta del libro di Collier, trae l'informazione sul livello di democrazia di una paese dal dataset Polity IV. Ma, come evidenziano Blattman e Miguel sulla base di un saggio di James Vreeland in corso di pubblicazione, questa fonte di dati sul grado di democrazia "usa esplicitamente informazione sul conflitto e sulla violenza politica nella costruzione delle variabili, generando meccanicamente e per definizione una correlazione fra democrazia e conflitto" (nostra traduzione).

Queste osservazioni, che non esauriscono le possibili critiche verso l'evidenza econometrica prodotta da Paul Collier e dai suoi coautori, bastano ad evidenziare che la base su cui le forti prescrizioni di Wars, guns, and votes si poggiano è, quantomeno, molto fragile e discutibile. Sarebbe probabilmente opportuno che un'evidenza teorica ed empirica tuttora fragile rispetto alla relazione fra democrazia e conflitti non venisse usata come fondamento di una pubblicazione che mira ad esercitare una profonda influenza sul dibattito politico, ben oltre i confini del mondo accademico. Resta da sperare che, in un anno in cui la Banca Mondiale dedicherà il suo World Development Report al tema della relazione fra conflitti e sviluppo, sia possibile formulare delle prescrizioni politiche su una più solida evidenza empirica, che non trascuri la diversità di traiettorie politiche seguite dai paesi del così detto Ultimo Miliardo.

Simone Bertoli