2005

F. Coin, Gli immigrati, il lavoro la casa. Tra segregazione e mobilitazione, Franco Angeli, Milano 2004, pp. 200, ISBN 88-464-5372-7

«La logica di fondo delle attuali politiche migratorie è la necessità di inferiorizzare i popoli ed i lavoratori del Sud del mondo». Questa affermazione della curatrice Francesca Coin costituisce la trama analitica e argomentativa di un volume sull'immigrazione che tenta di focalizzare i processi di inferiorizzazione del migrante negli importantissimi snodi del lavoro e della casa. Casa e lavoro sono anche le due parti nelle quali si articola la ricerca presentata in questo volume.

Ampio spazio è dedicato nell'Introduzione della curatrice a un problema metodologico che si rivela cruciale quando si affrontano i fenomeni migratori: mostrando i limiti di due approcci solo apparentemente contrapposti - uno che vede la migrazione come il mero risultato di condizionamenti economico-sociali di sottosviluppo, e l'altro che enfatizza invece la scelta soggettiva di migrare - la curatrice opta per un'analisi storico-comparativa in grado di mostrare le cause strutturali dei fenomeni migratori, cause che in quei due diversi approcci diverrebbero opache per un'eccessiva enfasi sul «carattere specifico e peculiare di ogni singola migrazione (individuale o di massa che sia)» (p. 16). È invece la continuità sistematica tra «accumulazione iniziale del capitale e la sua più recente centralizzazione» da un lato, e tra «le condizioni di lavoro e di vita degli immigrati e quelle delle popolazioni colonizzate» dall'altro, il terreno a partire dal quale la Coin intende svolgere l'analisi.

Si tratta di una questione importante che obbliga a riflettere sulla dislocazione geografica dei differenziali salariali e di plusvalore: una dislocazione che non avviene in uno spazio omogeneo, indifferente e neutrale, ma nello spazio striato dei movimenti migratori e dei conflitti tra capitale e lavoro. A questa altezza è non solo possibile, ma necessario, complicare la scena con l'ingresso del movimento soggettivo delle migrazioni: non solo processi forzati, «oggettivamente determinati», come mostra Basso nel suo intervento (p. 73), ma anche espressione di una riottosità del lavoro vivo a farsi sfruttare. La migrazione, sottolinea Zanin, rappresenta infatti «spesso il tentativo di sottrarsi al circolo vizioso che si instaura tra lavori precari, salari insufficienti e regimi autoritari» (p. 43). Se è vero, come mise in evidenza Marx in relazione agli Stati Uniti, che la sottrazione della forza-lavoro ha significative ricadute sulla determinazione dei salari, allora l'incrocio tra migrazioni e lavoro andrebbe seguito contemporaneamente nelle due direzioni: violenza economica e politica in un mercato fortemente ineguale che mette in movimento milioni di individui da un lato, tentativo del capitale di rincorrere e immobilizzare forza-lavoro dall'altro.

La mobilizzazione del lavoro migrante è attraversata da una contraddizione. Scrive al riguardo Zanin che «il tentativo di introdurre un sistema di rapida rotazione della presenza degli immigrati, saldato alla precarietà degli andamenti della produzione [...] è solo una delle tendenze immanenti alle attuali politiche migratorie europee, nordamericane e australiane - tendenza che si scontra, per lo meno, con l'esigenza di stabilizzare una parte della forza-lavoro migrante, a meno di non scaricare sullo Stato i costi di riproduzione, formazione, disciplinamento di tale forza-lavoro» (p. 49). Quest'ultimo aspetto, soprattutto, viene esaminato nel saggio di Filippo Perazza, dove vengono messe in risalto le recenti politiche aziendali volte a limitare «la mobilità lavorativa della manodopera immigrata» (p. 176) mettendo a disposizione appartamenti o posti letto per i propri dipendenti, e cercando così di ridurre le ricadute diseconomiche in termini di costi di formazione e di espletamento dell'iter burocratico previsto per le assunzioni.

Ma c'è un altro aspetto che è importante sottolineare. Sarebbe sbagliato intendere quella contraddizione tra una tendenza alla mobilità del lavoro migrante e la limitazione di quella stessa mobilità solamente come una contraddizione del capitale, senza valutare il lato soggettivo di quella contraddizione. A dover essere limitata e ostacolata, anche con mezzi extra-economici, è la mobilità del lavoro vivo quando essa scompagina i differenziali salariali. Per questo, come scrive Valter Zanin, una riflessione sui salari nazionali è oggi essenziale per capire come quei differenziali si staglino sul mercato mondiale del lavoro. Il «sistema basato sul lavoro salariato», scrive ancora Zanin, «deve necessariamente riprodurre il lavoro inferiorizzato (migrante, coatto, schiavistico) per mantenere i differenziali salariali» (p. 60). Differenziazioni salariali nella forma del lavoro coatto e schiavistico sono dunque non residui coloniali di epoche appartenenti alla cosiddetta accumulazione originaria di capitale, ma forme di sfruttamento massimamente adeguate all'attuale livello di sviluppo capitalistico. La compresenza di questi livelli di sfruttamento ci rigetta così in faccia un'immagine della nostra modernità che, ben lungi dall'essere rappresentabile in termini di civilizzazione e progresso, produce costantemente e necessariamente lavoro inferiorizzato. Gli scantinati dove si lavora in nero dodici o quattordici ore al giorno sono solo l'altra faccia delle metropoli ipertecnologiche. I corifei della fine del lavoro vorrebbero relegare questa faccia sporca del lavoro tra i residui ottocenteschi di uno sfruttamento ormai inattuale. Seguendo invece la linea di ragionamento del saggio di Zanin, occorre invece oltre e ripensare a un livello categoriale il nesso tra differenziali salariali e forme contemporanee del lavoro schiavistico.

Il lavoro migrante è al riguardo paradigmatico. Non tanto o non solo perché esso preannuncia una precarietà via via sempre più estesa e che ormai riguarda ampi strati della popolazione lavorativa autoctona, ma perché mette immediatamente in evidenza i meccanismi di produzione di bacini di lavoro coatto e di inferiorizzazione del lavoro attraverso strumenti extra-economici. Scrive ancora Zanin che la «sanzione extra-economica della rottura del rapporto di lavoro da parte del lavoratore immigrato è rappresentata oggi dalla tendenziale perdita del permesso di soggiorno, dalla caduta nello stato di 'clandestinità' e quindi nel divenire soggetto di procedure di espulsione» (p. 48). Si tratta di forme di lavoro riconosciute come schiavistiche (forced or compulsory labour) da organizzazioni internazionali come l'International Labour Conference e che, giuridicamente, permetterebbero di comprendere in questa fattispecie anche il sistema di Schengen.

Nonostante il cinque per cento della popolazione economicamente attiva su scala mondiale sia soggetta a lavoro forzato (cifra che tra l'altro non tiene conto di una variegata molteplicità di forme di lavoro vincolato), solo raramente il pensiero e la pratica politica sono stati capaci di farsi carico del moderno schiavismo, cercando di coglierne le analogie con le politiche coloniali. Ormai è il nostro ricco occidente a essere innervato di colonialismo, a riprodurre incessantemente al proprio interno forme di inferiorizzazione del lavoro funzionali al suo imbrigliamento coatto. Ma così come sono state le rivolte degli schiavi e del proletariato coloniale a far emergere il carattere non naturale di queste forme di lavoro, analogamente la teoria deve seguire nelle mobilitazioni dei migranti l'indicazione di una pratica volta a mettere in luce il fatto che le legislazioni sui migranti altro non sono che forme di perpetuazione del lavoro coatto su scala internazionale. L'analisi però, d'altro canto, deve regolare il binocolo su questa scala di grandezza, se non vuole essere essa stessa inadeguata.

Massimiliano Tomba