2010

A. Giddens, The Politics of Climate Change, Polity Press, Cambridge 2009, ISBN 978-0-7456-4692-3, pp. 264

Con il suo nuovo libro Anthony Giddens si confronta con il tema del cambiamento climatico. L'argomento ha visto crescere ogni anno di più l'attenzione dei mass media e su di esso si è sviluppata una discreta letteratura scientifica, soprattutto in lingua inglese. Ciò che contraddistingue l'intervento di Giddens, e che ne fa un testo di particolare interesse e rilevanza è la prospettiva adottata, resa evidente sin dal titolo: la politica del cambiamento climatico. Il cambiamento climatico, sostiene Giddens, è in primo luogo un problema politico, ed è con gli strumenti della politica che deve essere affrontato.

Il libro è strutturato in nove capitoli. Dopo aver dedicato il primo alla descrizione dei mutamenti climatici in atto e dei rischi (e opportunità) da questi generati, Giddens si concentra nel secondo sul legame tra crisi climatica e politiche energetiche. Passa poi nel capitolo terzo ad esaminare il pensiero ambientalista, mentre i successivi capitoli, da quattro a sette, contengono il nucleo propositivo del testo trattando di politiche statali funzionali alla lotta al cambiamento climatico e suggerendo alcuni strumenti operativi. I capitoli otto e nove sono dedicati alla dimensione internazionale, in particolare al tema dei mercati del carbonio e a questioni di geopolitica.

Nonostante sia stata la dimensione internazionale quella che ha lanciato il grido d'allarme contro il mutamento climatico in atto - si pensi alla Conferenza di Rio del 1992 - ed ha tentato di porvi rimedio con strumenti di diritto internazionale (la Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici e il Protocollo di Kyoto), gli Stati rappresentano ancora, sostiene Giddens (cap. 5), il soggetto dal quale potrebbe essere intrapresa l'azione più efficace. Infatti le caratteristiche del diritto internazionale, come la mancanza di sanzioni effettive e la necessità di consenso da parte di tutti gli Stati coinvolti per la stipula di accordi internazionali, lo rendono difficilmente utilizzabile come strumento di azione diretta in materia di riduzione di emissioni; al contrario gli Stati, attraverso le loro politiche (energetiche, fiscali, ambientali) possono intervenire direttamente sui propri territori.

Giddens ritiene opportuno collocare il tema ecologico, e in modo specifico la lotta contro il cambiamento climatico, all'interno delle istituzioni. Per far ciò è necessaria una presa di distanza dalle posizioni ecologiste (cap. 3), manifestatesi soprattutto negli anni Settanta del secolo scorso, che intendevano l'ecologia come un modello sociale nuovo: non solo un ambiente meno inquinato e più vivibile, ma anche un'organizzazione sociale più a misura d'uomo, più decentrata e partecipata. Ed è anche necessario dissociare la lotta al cambiamento climatico da specifici orientamenti politici: la lotta al mutamento climatico dovrebbe essere una priorità dell'intervento statale, indipendentemente dalla maggioranza politica che detiene di volta in volta il potere. Insomma, se la lotta al cambiamento climatico deve divenire un tema inserito continuativamente nelle agende politiche degli Stati è necessario che sulla sua rilevanza vi sia un accordo di fondo tra i partiti politici.

Per rendere la questione ecologica più facilmente accettabile all'interno delle istituzioni Giddens cerca dunque di spogliarla delle sue caratteristiche più "irritanti": senza una tale mediazione essa, infatti, non sarebbe compatibile con le moderne società globalizzate e non potrebbe essere affrontata dai loro sistemi politici. A tal fine Giddens analizza alcuni principi cardine in materia di protezione dell'ambiente, che considera un'eredità più o meno esclusiva dei movimenti ecologisti, al fine di valutare la loro utilità nella prospettiva della costruzione di una politica climatica: il principio di precauzione, lo sviluppo sostenibile, il sovra-sviluppo, il principio chi inquina paga.

Giddens ritiene il principio di precauzione (p. 57), fondato su massime di saggezza popolare, che possono essere contraddette da altrettanto valide massime contrarie, più che su una definizione chiara e univoca: a tal proposito ricorda come in letteratura siano state censite più di venti accezioni del principio, dalle più blande alle più rigorose. Giddens inoltre non condivide l'idea che la precauzione sia necessariamente una virtù, mentre il rischio sia necessariamente un male, ma preferisce considerare ogni scelta come un bilanciamento di rischi e opportunità. Per le due ragioni egli ritiene il principio inservibile come criterio di orientamento dell'azione in materia di politica climatica e propone di sostituirlo con una valutazione dei rischi e dei benefici, che dovrebbe essere condotta caso per caso.

Il suggerimento è criticabile. Sfugge in questo caso completamente all'autore la funzione di garanzia svolta dal principio di precauzione, non solo come criterio guida dell'azione politica, ma come carta da giocare da parte dei più deboli. Se infatti per poter cogliere le opportunità è certamente necessario accettare di correre dei rischi, spesso e specialmente nel campo delle nuove tecnologie, questi non sono né scelti né sopportati equamente dalla popolazione. Nonostante Giddens sottolinei la necessità di un pubblico dibattito - e di un certo livello di coinvolgimento democratico e di apertura della scelta politica su di essi, la definizione dei valori limite o la scelta sull'ammissibilità di nuove tecniche di produzione (esemplari i casi degli OGM o dei biocombustibili) sono il frutto di scelte politiche assai poco democratiche. Su di esse, infatti, le potenti lobbies industriali influiscono in modo determinante e certamente più pesante di quanto non sia possibile ai cittadini, sia come abitanti, che come consumatori, o alle organizzazioni ambientaliste. In un contesto di rapporti di potere e disuguaglianza, principi come quello di precauzione possono avere importanza dal punto di vista giuridico, come mezzo per far valere le rivendicazioni degli esclusi. Sarebbe semmai necessario procedere a codificazioni ulteriori di tale principio, sviluppandone le potenzialità.

Il concetto dello sviluppo sostenibile è definito un ossimoro (p. 61), che tenta di mettere insieme idee che sono spesso in contrapposizione tra loro, lo sviluppo e la sostenibilità ambientale. Poiché si tratta più di uno slogan che di un concetto analitico, Giddens propone di utilizzare i due termini separatamente, poiché in tal modo entrambi sarebbero in grado di mettere a fuoco problematiche effettive. Utilizzare il principio della sostenibilità ambientale significa pensare le politiche climatiche come azioni di lunga durata, capaci di generare effetti positivi a lungo termine. Attraverso l'idea dello sviluppo è invece possibile comprendere la diversa posizione dei paesi non industrializzati, i quali non accettano di porre limiti alle loro emissioni nella prospettiva di rivendicazione del proprio diritto allo sviluppo. Il suggerimento è fertile, e utile a leggere più chiaramente le questioni di giustizia ambientale tra le diverse aree della Terra.

Con "sovra-sviluppo" (over-development) Giddens intende (p. 65) le conseguenze negative della continua crescita economica nei paesi ricchi. La crescita economica non dovrebbe essere valutata in modo isolato dal benessere complessivo della società in cui si verifica, come si fa invece utilizzando il PIL, ma dovrebbe tenere conto di altri fattori, tra cui l'inquinamento, che complessivamente contribuiscono al benessere di una società. L'utilizzo di indicatori alternativi (Genuine Progress Indicator (GPI), Index of Sustainable Economic Welfare (ISEW), Sustainable Society Index (SSI), pp.65-66) mostra come il benessere delle società ricche sia progressivamente diminuito dagli anni Settanta del secolo scorso, nonostante il PIL abbia continuato la sua crescita.

Il principio "the polluter pays", secondo il quale colui che provoca l'inquinamento è responsabile per la sua riparazione, è utile, afferma Giddens (p. 67), allo scopo di fondare giuridicamente la responsabilità dell'inquinatore, e quindi di inserire la protezione dell'ambiente all'interno delle istituzioni.

Dei principi analizzati secondo Giddens solo quest'ultimo, insieme a quello della sostenibilità, dovrebbe essere mantenuto come guida di una politica climatica. A questi due Giddens propone di aggiungerne altri dieci. Eccone alcuni. Lo Stato dovrebbe avere un ruolo forte, anche se non dovrebbe imporre soluzioni dall'alto, anzi dovrebbe esser capace di offrire possibilità di sviluppo alle iniziative che vengono dal basso, controllando che i fini pubblici vengano perseguiti in modo trasparente. Si dovrebbe ricercare la convergenza politica: le diverse politiche rilevanti per mitigare il cambiamento climatico dovrebbero essere integrate tra loro. Anche dal punto di vista economico dovrebbero essere favorite le tecniche di produzione e le pratiche che generano minori emissioni.

Giddens sembra prospettare per la politica climatica un passaggio simile a quello avvenuto negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso per la politica ambientale: da rivendicazione portata avanti dai movimenti a politica, e diritto, dello Stato. Ma, si potrebbe obiettare, la politica climatica non è nata forse già istituzionalizzata?

In ogni caso l'operazione compiuta da Giddens sembra utile in vista della costruzione della capacità del sistema politico di affrontare il problema del cambiamento climatico. Quello che però si può criticare è un "eccesso di zelo" nel volersi congedare dallo strumentario politico e giuridico, nato sotto la spinta dei movimenti ecologisti. In particolare del principio di precauzione. Inoltre, sarebbe stato necessario presentare il sistema politico in modo più complesso: non si tratta infatti di un sistema che gode di buona salute - si pensi all'astensionismo crescente nelle democrazie occidentali, alla progressiva delegittimazione della classe politica, al numero sempre maggiori di soggetti residenti su un territorio senza il diritto di sceglierne la politica attraverso il voto. Forse la crisi climatica, con le sue implicazioni in termini di cambiamenti necessari nel sistema economico e sociale, potrebbe essere un utile stimolo anche per affrontare il tema del ruolo del sistema politico nelle moderne democrazie occidentali.

Un altro tema centrale del libro di Giddens è il legame strettissimo tra la questione climatica e quella dell'energia. La maggior parte delle fonti di emissioni di CO2 sono infatti impianti che utilizzano combustibili fossili per generare energia, oppure impianti che la utilizzano per funzionare, come industrie, abitazioni, mezzi di trasporto. Affrontare il problema energetico significa affrontare anche il cambiamento climatico. Non meno importante è inoltre la percezione che comunemente la popolazione ha del cambiamento climatico e le motivazioni che la potrebbero spingere ad agire per contrastarlo: mentre il cambiamento climatico è qualcosa che seppur in atto non è percepito direttamente, se non in alcune occasioni, la questione energetica è percepita in modo più diretto, sotto forma di inquinamento urbano, ridotta mobilità per la congestione del traffico, spese per riscaldamento e condizionamento. Agire per migliorare l'uso dell'energia è dunque più semplice e immediato che non farlo per impedire il cambiamento climatico. L'approvvigionamento di energia è inoltre una funzione essenziale degli Stati e uno degli ambiti che determinano gli equilibri di potere in ambito internazionale. Gli Stati (tra cui gli Stati scandinavi, Danimarca, Germania) che, in seguito alla crisi petrolifera degli anni Settanta del secolo scorso, hanno modificato le proprie politiche energetiche in direzione di una minore dipendenza dai combustibili fossili, hanno guadagnato, oltre che una maggiore indipendenza dai paesi produttori di petrolio, anche un sistema interno di produzione di energia più avanzato dal punto di vista ambientale, in quanto fondato su un uso più esteso di energie alternative.

Tra le energie alternative Giddens inserisce anche l'energia atomica, alla quale si dichiara, in ultima istanza, favorevole (p. 84). L'uso dell'energia atomica sembra essere , dal suo punto di vista, inevitabile per raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2, in quanto l'energia derivante dalle fonti rinnovabili non è sufficiente a soddisfare le necessità. L'argomentazione non è convincente e dovrebbe a mio avviso essere rovesciata: poiché le energie rinnovabili sono ancora poco diffuse, dovrebbe essere finanziata in maniera imponente la ricerca su di esse e dovrebbero essere attuate politiche incentivanti al loro utilizzo. L'uso del nucleare, oltre ai rischi collegati al rilascio di radioattività e allo smaltimento delle scorie, porterebbe al contrario a disincentivare la ricerca in materia di energie rinnovabili e quindi a rallentare la loro diffusione.

E infine: quanto contano i mercati del carbonio? Si tratta di una svolta decisiva nella lotta contro il cambiamento climatico? La risposta di Giddens (p. 197 ss.) è che il commercio dei diritti di emissione potrebbe essere utile, lo si vedrà meglio in futuro, a patto che certe sue anomalie siano corrette. In primo luogo la stima delle emissioni, intorno a cui sussiste molta approssimazione. In secondo luogo le prospettive di sopravvivenza del sistema, che nell'incertezza di cosa avverrà dopo il 2012, anno di scadenza del protocollo di Kyoto, potrebbe rivelarsi privo di senso. E poi l'effettiva esistenza di un limite complessivo alle emissioni, che è il punto cruciale: infatti se, come avviene adesso, solo alcuni paesi partecipano al mercato dei diritti di emissione, non si ha un limite reale, poiché le emissioni provenienti dagli Stati che non partecipano non sono contate. Dunque pur se il mercato funziona dal punto di vista economico rischia di essere ininfluente proprio in relazione al suo obiettivo istituzionale, ossia ridurre le emissioni di CO2. Insomma i mercati delle emissioni possono essere utili, ma non centrali nella lotta la cambiamento climatico, centrali devono essere le politiche degli Stati, in primo luogo in materia di energia.

Il testo di Giddens, nell'affrontare la questione climatica con un approccio classico (ruolo centrale degli Stati, soprattutto in materia energetica, attraverso strumenti tradizionali come tasse e incentivi), riesce ad offrire utili suggerimenti sulle strade che i politici potrebbero percorrere. Ciò nonostante, alcune prese di posizione non sono condivisibili, come il rigetto del principio di precauzione come guida dell'azione politica e l'apertura al nucleare.

Katia Poneti