2010

S. Benhabib, The Claims of Culture: Equality and Diversity in the Global Era, Princeton University Press, Princeton 2002, trad. it. La rivendicazione dell'identità culturale. Eguaglianza e diversità nell'era globale, il Mulino, Bologna 2005, 978-88-15-10289-8

Quali sono i dilemmi che i nuovi scenari europei e internazionali hanno aperto nel dibattito odierno sul concetto di cittadinanza? È ancora possibile, nel mondo globale in cui viviamo, una sua accezione forte e compatta, fondata su criteri etnici, linguistici, culturali e di genere, o si tratta di una categoria destinata a sfilacciarsi sempre più nella direzione di una «cittadinanza multiculturale»? Sono questi gli interrogativi da cui parte The Claims of Culture: Equality and Diversity in the Global Era di Seyla Benhabib, docente di Scienze Politiche all'Università di Yale e interprete tra le più brillanti della discussione filosofico-politica di questi ultimi anni su multiculturalismo e differenza. Pubblicato nel 2002 all'indomani degli eventi dell'11 settembre e apparso in traduzione italiana a maggio del 2005, questo testo recupera e rinnova una riflessione di lungo corso della Benhabib - da Situating the Self. Gender, Community and Postmodernism in Contemporary Ethics del '92, al più recente Another Cosmopolitanism: Hospitality, Sovereignty and Democratic Iterations, con commenti dei teorici delle politics of recognition Jeremy Waldron, Bonnie Honig e Will Kymlicka - secondo una prospettiva inedita: le trasformazioni, impostesi negli ultimi due decenni, delle norme che disciplinano la prassi della cittadinanza, ossia dell'appartenenza politica ad una determinata comunità statuale. Si tratta di un tema che nell'ultimo decennio si è letteralmente imposto tanto in Europa, in seguito alla necessità di definire meglio le proprie frontiere all'indomani della genesi dell'Unione quale soggetto politico, quanto negli Stati Uniti d'America, che con più di duecentotrenta anni di storia condivisa hanno fatto del melting pot l'anima vincente del proprio modello federalista.

Seyla Benhabib, tuttavia, nel presentarci una 'storia dell'idea di cittadinanza' nell'ultimo quindicennio, significativamente compreso tra il disgregarsi dell'Unione Sovietica e l'attacco terrorista di 9/11, si proietta negli occhi dei 'diversi', degli stranieri, di chi guarda alle circoscrizioni territoriali tra Stati come frontiere da varcare, non come confini da imporre. Si tratta di una scelta, di metodo e di analisi storiografica, estremamente significativa, che la direttrice del "Program of Ethics, Politics and Economy" di Yale ha fatto propria già nei suoi lavori su femminismo e condizione delle donne (in particolare, Feminism as Critique, del 1994, assieme a Judith Butler, Drucilla Cornel e Nancy Fraser), ma che acquista il suo rilievo più profondo nell'esame dei processi di immigrazione, inclusione e naturalizzazione alla base di ogni cittadinanza acquisita.

Attraverso un approccio comparativo che attinge agli strumenti delle scienze sociologiche e dell'antropologia, oltre che della linguistica, l'autrice prende in esame il cuore filosofico ed epistemico delle teorie della cittadinanza che hanno finora regolato la dialettica we/the others nelle contemporanee democrazie liberali, portandone alla luce l'aporia costitutiva: una frizione tra diritti universali, inerenti ad ogni essere morale indipendentemente dalla sua caratterizzazione civico-politica, e diritti dei cittadini. Tanto l'argomento universalista radicale quanto la prospettiva comunitaria e repubblicana delle «concezioni compatte della cittadinanza» non riescono a conciliare l'aspirazione a un trattamento equo e imparziale degli stranieri con il principio dell'autodeterminazione sovrana, che pure costituisce un criterio guida essenziale nella politica interna di uno Stato.

A comprovare l'insuccesso di entrambi gli approcci, gli scenari dischiusi dal costituirsi dell'Unione Europea, dove la tensione tra la porosità dei confini e l'esigenza, in ciascun paese membro, di non abdicare al diritto di stabilire politiche di immigrazione e integrazione, ha condotto, o sta conducendo, a una nuova idea di cittadinanza. Guardare meno a ciò che si è, in termini di identità ascritte di razza, appartenenza etnica e religione, ed esercitare l'immaginazione civica nella considerazione del punto di vista e della storia pregressa degli altri, sia come individui sia come entità collettive: è questa la premessa indispensabile per il passaggio dal paradigma di una «cittadinanza civile» a quello di una «cittadinanza politica», sullo sfondo di un dialogo culturale complesso e autenticamente democratico.

A tale analisi, che ci consegna uno sguardo non europeo sulla nostra 'identità' da parte di un'osservatrice di origine musulmana ma di formazione occidentale, The Claims of Culture premette, in funzione di ampio preambolo, una ri-semantizzazione del concetto di 'cultura' alla luce degli scenari politici internazionali più recenti. L'errore decisivo compiuto dalla teoria politica e giuridica contemporanea, secondo Benhabib, è stato quello di interpretare le culture come totalità organiche, in sé compiute e cristallizzate nel tempo, le quali, nella nuova civiltà globale, si relazionerebbero tra loro solamente attraverso gli schemi di un «multiculturalismo a mosaico». Tale interpretazione, che l'autrice non esita a definire «sociologia riduzionista della cultura» o «normativismo intempestivo», e che ha i suoi prodromi nell'idea herderiana e romantica di Kultur, è stata messa in crisi, negli ultimi anni, dall'affermarsi di un immaginario politico nuovo: l'integrazione globale è preceduta di pari passo con la protesta di quanti non hanno accettato di vestire tale epidermide uniforme in campo economico, culturale e sociale, con il riaccendersi di separatismi che sembravano ormai estinti e che, nei loro esiti più radicali, hanno scelto di esprimere il proprio dissenso per mezzo del terrorismo internazionale. Proprio queste rivendicazioni di autonomia e diversità, classificate dalle diverse scuole politologiche come «lotte per il riconoscimento» (Taylor, Fraser e Honneth), «movimenti per l'identità/differenza» (Young, Connolly) e «movimenti per i diritti culturali e la cittadinanza multiculturale» (Kymlicka), rendono urgente un ripensamento delle questioni relative all'identità delle culture, nel senso più ampio dell'espressione.

In queste pagine, Benhabib adotta una prospettiva parzialmente lontana da quella di stampo americano, più storicistica ed europea, in cui il confronto con posizioni esemplari della tradizione filosofica occidentale - da Platone e Aristotele ai dibattiti settecenteschi e in seguito romantici, fino agli scenari del primo Novecento - le permette di evidenziare le premesse teoriche delle proprie conclusioni sulle prassi di cittadinanza. «Sotto l'aspetto filosofico - ella scrive - non credo alla purezza delle culture, così come non credo neppure alla possibilità di individuarle come totalità significativamente discrete. Piuttosto, guardo ad esse come a complesse pratiche umane di significazione e rappresentazione, organizzazione e attribuzione, frazionate al proprio interno da narrazioni in conflitto». Esse non vivono circoscritte entro confini stabili «come tessere musive», ma al contrario, secondo una metafora non più visiva bensì acustica, costituiscono «creazioni, o meglio ri-creazioni e negoziazioni ininterrotte degli immaginari confini tra «noi» e «l'altro»».

Nello spiegarci come, a suo avviso, le culture si generano e intrecciano relazioni, Benhabib compie una vera e propria cernita di fonti: riconoscendo i propri debiti nei confronti dell'antropologia sociale britannica e dello strutturalismo francese, e polemizzando al contempo con il conservatorismo di Huntington e dei nuovi sostenitori dell'opposizione 'cultura'/'civiltà', Seyla Benhabib avanza un modello di democrazia deliberativa dinamica in cui il pluralismo delle culture s'inscriva in un universalismo insieme morale e politico. Ella mette qui a frutto tutta una serie di considerazioni già elaborate nel suo grande lavoro del '92, Situating the Self: in continuità con la teoria discorsiva di Habermas nel definire le culture «come lo straordinario e fragile successo del Sé nell'intrecciare narrazioni e fedi contrastanti in una biografia irripetibile», guardava con favore già allora a un'etica del discorso multiculturale in cui fosse dato a ciascuno uguale diritto di espressione. Rispetto universale e reciprocità egualitaria dovrebbero stare a fondamento delle relazioni, e anche delle contese, essenziali in un contesto veramente democratico, tra i diversi gruppi identitari. Una conclusione che costituisce il punto di partenza teorico di The Claims of Culture, laddove si denuncia il nostro essere, oggigiorno, «contemporanei morali»e non «partners morali», sordi alle esigenze di chi è incapace di esibire la nostra stessa cittadinanza o di soddisfare il criterio del «più simile a noi»; o anche quando, tornando a riflettere su un tema a lei caro da sempre quale i diritti di donne e bambini all'interno di minoranze culturali, Benhabib mostra gli esiti deleteri di una politica di Stato che salvaguardi più le tradizioni identitarie che i diritti degli individui.

Nel capitolo "Multiculturalismo e cittadinanza di genere", l'autrice ricorre ad un modello di analisi estremamente brillante, purtroppo ancora poco praticato dalla 'scuola' europea, in cui, accostando sinotticamente tre case studies esemplari - la difesa culturale nel diritto penale statunitense, l'incidenza del codice privato e di famiglia sulle donne musulmane in India, e la questione del velo nella Francia contemporanea - mostra la falsa democrazia che si cela dietro alle politiche multiculturali di numerosi sistemi liberali di oggi. Un esempio, tra i tanti che ella attinge dal diritto penale statunitense: nel 1995, in California, una madre nippoamericana affoga i due giovani figli e tenta poi il suicidio; al giudice spiegherà che in Giappone la sua azione sarebbe stata considerata conforme al costume, consacrata dal tempo, del suicidio genitore-figlio (oya-ko-shinzu), indotto in questo caso dall'infedeltà del marito. Trascorrerà in carcere il solo anno della durata del processo: praticamente assolta. Vicende di questo tipo, fondate sulla strategia della «difesa culturale» sempre più diffusa nelle pratiche giudiziarie statunitensi, non fanno che relegare gli individui, in particolare donne e bambini, entro i confini angusti delle comunità d'origine; portano avanti una visione miope delle culture come totalità monolitiche, refrattarie ad ogni trasformazione, ed uccidono in partenza ogni possibilità di dialogo autentico e democratico tra i gruppi d'immigrazione e le comunità dei paesi ospiti. Bisogna invece, secondo Benhabib, congedarsi da un'«agenda multiculturale» ristretta, fondata sull'idea, erronea, di John Rawls per cui nelle culture «si entra solo per nascita, e si esce solo alla morte», e promuoverne, invece, una più ampia, che si articoli sui tre principi normativi della reciprocità egualitaria, dell'autoascrizione volontaria ai gruppi e sulla libertà di ingresso e di uscita dai medesimi. Una situazione in cui, come suggerito dallo Schmitt di Parlamentarismo e democrazia in riferimento alle reali democrazie (seppure con obiettivi diversi e assai estranei all'orizzonte propriamente liberal-democratico), l'uguaglianza «ha valore politico solo nella misura in cui è sostanziale, e comporta perciò almeno la possibilità della disuguaglianza».

A sottolineare questa necessità, la consapevolezza che i confini nei quali capita di nascere e i documenti cui si ha diritto non sono meno arbitrari, da un punto di vista morale, di altre caratteristiche quali il colore della pelle, il genere e la struttura genetica con cui veniamo al mondo. Ciò avviene non solo negli Stati Uniti e nel Canada, che si definiscono abitualmente come 'paesi d'immigrazione', e lungo i confini delle ex repubbliche sovietiche o dei precari Stati-nazione dell'Africa, Ruanda, Uganda e Congo in primis: sono soprattutto le metamorfosi della cittadinanza nei paesi entrati a far parte dell'Unione Europea a costituire lo scenario più attuale, e insieme più controverso, per il dibattito filosofico-politico in materia di multiculturalismo.

L'analisi di Benhabib parte da una constatazione di fatto: la popolazione straniera europea è passata dall'1,3% del 1950 al 4,9% del '93, con punte superiori all'arco percentuale medio del 3-6% in Austria, Germania e Lussemburgo. Nel chiedersi chi l'Europa includa e chi escluda, a partire dal trattato di Maastricht del '92 con cui viene sancita una «cittadinanza dell'Unione» («È cittadino dell'Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro»: articolo 8, sezione C, parte II), l'autrice è equidistante dalle due posizioni finora dominanti sulle prassi di inclusione: l'universalismo radicale da una parte, e la prospettiva sociologicamente superata della «cittadinanza repubblicana compatta» dall'altra. L'abisso tra queste due concezioni polarmente opposte si riflette, come ella acutamente rileva, nello iato tra la comprensione di sé propria delle democrazie europee e il modo in cui esse conferiscono la cittadinanza: a smentire l'idea della società civile come sede di dibattito e partecipazione attiva, è il costante riferirsi a criteri passivi di appartenenza quali lo ius soli, che fa esclusivo riferimento alla nascita sul territorio, l'integrazione sociale nel paese d'origine o l'appartenenza a un gruppo etnico. Non esistono, o non dovrebbero esistere, condizioni per cui le società liberaldemocratiche possano decidere di chiudere totalmente le proprie frontiere: vi sono limitazioni giustificabili alla qualità e alla quantità di nuovi immigrati, ma vi è anche un diritto fondamentale all'uscita da e all'ingresso di un paese che costituisce patrimonio morale naturale di ogni essere umano. Ciò non significa, come la studiosa americana tiene a precisare, schiacciare il diritto d'ingresso sul diritto di appartenenza, ma piuttosto scardinare una concezione che, soprattutto nell'Europa di oggi, tende a disconoscere il meticciato culturale che ci ha generato, a parlare contro l'ibridismo di etnie e tradizioni, a postulare l'asimmetria tra immigrazione ed emigrazione. È allora una necessità morale, prima ancora che politica o giuridica, ripensare le norme che regolano le pratiche di cittadinanza alla luce di una 'mentalità aperta': è questa, secondo il giudizio pienamente condivisibile della docente di Yale, «la condizione imprescindibile per la pratica e non [soltanto] per l'acquisizione della cittadinanza democratica».

David Ragazzoni