2005

É. Balibar, Droit de cité, PUF, Paris 1998, ISBN 2130523846

La raccolta di saggi pubblicata sotto il titolo Droit de Cité può essere annoverata nella vasta produzione che il filosofo francese Etienne Balibar ha dedicato ai temi della cittadinanza, della nazionalità e della crisi della sovranità.

Uno dei primi saggi del libro è dedicato al movimento dei Sans-Papier, composto per lo più da senegalesi e malesi, che nell'estate del 1996 occupò a Parigi la chiesa di Saint-Bernard per ottenere una regolarizzazione del loro soggiorno in Francia.

Nonostante il suo tono cronachistico questo breve intervento lascia emergere l'elemento che caratterizza le riflessioni di Balibar. Il merito politico riconosciuto ai Sans papiers è stato quello di aver "forzato le barriere della comunicazione", di aver affermato la propria esistenza anche a livello mediatico (purtroppo quasi esclusivamente a quello, perché la maggior parte vennero rimpatriati con la forza) rifiutando l'imposizione di un'identità preconfezionata. Il rifiuto del diritto alla mobilità perpetuato dalle istituzioni e legittimato dalla comunicazione pubblica, è stato così interrotto attraverso un gesto significativo ed ineludibile. Al di là quindi della sua praticabilità, un'esperienza politica è divenuta significativa proprio in quanto ha portato alla luce paradossi reali, esistenti, materiali.

Tutti i saggi raccolti in Droit de Cité sono percorsi da questa attenzione al paradosso: riflettere sulla nozione di cittadinanza implica un ripensamento radicale della natura delle nostre democrazie. La cittadinanza in quanto luogo o categoria del pensiero politico non può infatti prescindere da una riflessione più vasta sui suoi stessi fondamenti. Ma le riflessioni di Balibar non si limitano a questo, il paradosso diviene esso stesso oggetto d'indagine. Una riflessione sul tema della cittadinanza deve trovare nelle contraddizioni di cui si fa portatrice il proprio spazio originario, il luogo a partire dal quale auto-fondarsi. Questi luoghi appartengono tanto all'ordine del discorso, politico-sociologico-giuridico, quanto sono dei veri e propri spazi fisici. L'abilità di Balibar sta proprio nel riuscire a mostrare come queste due dimensioni della contraddizione siano correlate e complementari e come un'indagine che si rassegni ad una faccia della medaglia senza lasciar emergere quella in ombra risulti ineluttabilmente monca.

L'istituzione della frontiera diviene metafora del discorso sulla cittadinanza, la democratizzazione di questa istituzione diviene il paradosso a cui questo discorso va inevitabilmente incontro. La questione, per Balibar, non è né di abolirla né di dichiararne semplicemente l'imprescindibilità, quanto di riuscire a pensare e ad attuare un esercizio democratico della frontiera passando da "una funzione di discriminazione ad una funzione di reciprocità e di apertura locale sulle solidarietà e i conflitti dello spazio globale".

Diversi temi come la cittadinanza europea, la nazionalità nelle società post-coloniali, gli appelli delle destre europee alla "preferenza nazionale", vengono riletti a partire dai loro paradossi.

Pensare la cittadinanza come un movimento storico fondato sull'estensione dei diritti e quindi nella sua dimensione processuale ed universalizzante non nega la sua dimensione normativa ma piuttosto la impone. È sulla tensione tra questi due poli, sulla loro mutua implicazione che l'attenzione di Balibar si concentra ed il saggio più esteso del libro - "Dalla preferenza nazionale a l'invenzione della politica" - riassume in modo esemplare il suo modo di procedere.

"Preferenza nazionale", sostiene Balibar, è una delle espressioni tramite le quali il razzismo diviene progetto istituzionale e pratica politica. Dal punto di vista teorico l'idea di preferenza nazionale si fonda su quello che André Taguieff ha definito un razzismo differenzialista. Non è più la razza, come elemento biologicamente determinato, a comportare l'esclusione, ma la presunta inconciliabiltà di culture diverse. L'identità, seppur non più riducibile al mero dato biologico, viene fissata in presunte differenze di natura storico-culturale che vengono così a delimitare soglie di tollerabiltà e criteri di preferenza in virtù dei quali la propria identità è protetta dalla "contaminazione" degli altri.

Ma una risposta politica non può essere relegata alla sola condanna morale di questi argomenti. Se la "preferenza nazionale" trova eco nelle nostre società, questo non dipende esclusivamente dal suo far leva sull'esasperazione del senso comune ma, ugualmente, dal fondare il proprio consenso su zone d'ombra con cui le stesse versioni liberali della cittadinanza sembrano non riuscire a confrontarsi.

Se il compito della riflessione è di mostrare le intime contraddizioni che abitano le nostre società, quindi, a ciò deve seguire una reinvenzione continua della politica attorno ai suoi problemi cruciali, come il "controllo dei poteri" e la riforma dei meccanismi di "rappresentazione effettiva degli individui".

Ma questa attenzione ai paradossi, implicita in un'interpretazione filosofica della nozione di cittadinanza, dovrebbe comportare un coraggio interpretativo non solo rispetto all'analisi delle contraddizioni ma, ugualmente, all'indicazione dei modi per superarle. È da questo punto di vista che le risposte di Balibar si fanno più deboli. Le ragioni, mi sembra, si possono riassumere in due principali motivi. Il primo sta, probabilmente, nel fatto che l'autore non vuole proporre soluzioni che riducano la complessità delle questioni prese in esame e si limita dunque a fornire suggestioni che gli consentano di non cadere nella trappola della complessità e nel conseguente abbandono di una visione processuale e storica della cittadinanza, in virtù di un maggiore "realismo" garantito dalla sua dimensione normativa.

Il secondo, risiede nel fatto che un orizzonte critico teso all'analisi dei paradossi politici delle nostre società non contiene in sé il proprio corrispettivo a livello delle risposte possibili e questo non emerge sempre con chiarezza nei saggi di Balibar. Si ha, al contrario, l'impressione che le tesi sostenute non rispondano alla complessità dell'analisi ma piuttosto aggirino l'ostacolo. Nonostante l'interesse teorico di alcune categorie analitiche (una per tutte la nozione di "transindividualità"), le soluzioni proposte sembrano significativamente distanti dai nodi problematici affrontati nell'analisi.

Di fronte alle difficoltà poste dai conflitti identitari, scrive Balibar, "si tratta di civilizzare noi stessi, cioè di sviluppare forme di vita e di comunicazione che ci permettano di prendere una certa distanza dall'isterizzazione delle identità alla quale assistiamo, che in verità assedia noi stessi". Di fronte alle difficili questioni nate dalla crisi delle sovranità nazionali e dalla costruzione di una cittadinanza europea Balibar auspica "un'apertura della storia della cittadinanza a nuovi sviluppi non predeterminati", che rientrerebbero in una "dinamica del droit de cité, ovvero di una conquista d'autonomia che possiede un significato tanto sul piano individuale che su quello collettivo". Mentre per opporsi al primato della nazione nel nostro discorso politico ed alla conseguente incapacità di confrontarsi con chi, i migranti, vive di molteplici appartenenze Balibar propone di "spostare il campo della politica, fare che esso non sia più ai margini, fuori tiro da ogni contestazione e da ogni controllo, da ogni reciprocità, ma ben al centro, e ugualmente che gli individui ed i gruppi vivano oggi tanto da un lato, quanto dall'altro, in un certo senso a cavallo, sulla sua traccia".

Risposte che appaiono deboli se confrontate alla complessità che le nostre realtà politiche, come l'autore stesso in parte mostra nei suoi saggi, ci impongono. La capacità di Balibar, di non cedere a visioni semplificatrici del reale, sembra rovesciarsi nel suo opposto. Quelle ambiguità e contraddizioni che la nostra attualità politica sembra voler eludere e che Balibar passa al vaglio della ragione, impongono al suo stesso discorso soluzioni rapide che in qualche modo rischiano di celarne la problematicità.

Nicola Marcucci