2011

S. Žižek, In defense of lost causes, 2008, trad. it. In difesa delle cause perse, Ponte alle Grazie, Milano 2009, ISBN 978-886220-007-3

Secondo quanto afferma Žižek nell'introduzione al suo volume, sia le tesi del postmodernismo che quelle dei suoi critici hanno oggi qualcosa in comune, ovvero l'avversione verso ogni progetto politico onnicomprensivo, così come verso ogni idea di emancipazione del genere umano. Le soluzioni prospettate in questi ambiti teorici sono quindi un "pensiero debole contrapposto ad ogni fondamentalismo" e "attento alla tessitura rizomatica della realtà", oppure una sorta di "liberalismo conservatore illuminato", il quale parte dal presupposto che "non ci sono alternative praticabili al capitalismo" (p. 9-10). Proprio criticando queste posizioni, nel tentativo di andare al di là del senso comune, Žižek afferma la necessità di un nuovo "Salto di Fede", ovvero l'avere "fede nelle cause perse, Cause che, dall'interno dello spazio della saggezza scettica, non possono che apparire folli" (p. 11), poiché nel momento in cui le teorie scettiche non sono più in grado di fornire risposte, solo il salto di fede consente di arrivare ad esse. Secondo Žižek tuttavia le risposte non possono essere assolute, poiché l'autoreferenzialità del linguaggio impedisce di arrivare a qualunque verità positiva, consentendo unicamente un continuo approssimarsi ad essa. La verità non può quindi essere oggettiva, ma ciò non toglie che si possa accettare una verità a partire dalla posizione da cui si guarda. Tale idea è tipica in particolare di due teorie, che saranno il filo conduttore di tutta l'analisi di Žižekiana, ovvero la psicanalisi e il marxismo. In entrambi i casi si tratta di teorie di lotta e in lotta, segnate come sono da scismi, eresie, espulsioni, oltre che da una lunga casistica di fallimenti più o meno clamorosi. La domanda da porsi è quindi: "Come riscattare il potenziale emancipatore di questi fallimenti evitando la doppia trappola dell'attaccamento nostalgico al passato e dell'adattamento un po' troppo furbo alle nuove circostanze"? (p. 12) La risposta di Žižek, che si rifà in questo anche al pensiero di Badiou, è nella critica radicale al pensiero post-totalitario, che negando ogni spinta messianica, ogni salto di fede, ha finito per diventare reazionario e conservatore. Non si tratta quindi, come specifica l'autore di In difesa delle cause perse, di difendere il totalitarismo e rivendicare il terrore, ma di riconoscere l'elemento di liberazione che era presente in esso e, parafrasando Beckett, di continuare a fallire, magari fallendo meglio.

Fedele al programma elaborato nella parte introduttiva del suo volume, Žižek procede quindi all'analisi del mondo contemporaneo, facendo riferimento in particolare al pensiero di Lacan, che gli serve come lente d'ingrandimento utile a focalizzare le figure di Foucault e di Heidegger, oltre al pensiero politico e alla prassi rivoluzionaria di Robespierre, di Mao e di Stalin. A questo proposito, riprendendo in particolare le tesi di Badiou, Žižek parte dal presupposto che se i grandi eventi rivoluzionari avevano come scopo l'affermazione di uguaglianza, diritti umani e libertà, si deve avere anche il coraggio di dire che il terrore era la prassi politica necessaria per difendere tali conquiste ed affermarle. Di fronte alle critiche dei liberali e della destra conservatrice che cosa dovrebbero fare quindi coloro che si rifanno alla tradizione della sinistra radicale? La risposta di Žižek è duplice. Da un lato infatti egli suggerisce di accettare "il passato terrorista" come parte integrante della cultura della sinistra, dall'altra parte di "fare il lavoro di critica meglio degli oppositori", senza permettere però loro di "determinare i termini e i temi della lotta" (p. 201). L'autocritica spietata non può insomma negare il nocciolo razionale dell'esperienza giacobina, ovvero, citando Saint-Just, che "Ciò che produce il bene generale è sempre terribile" (p. 202).

L'argomentazione di Žižek si sposta a questo punto sulla relazione possibile tra i due termini umanesimo e terrore. Essi possono essere collegati tra loro (umanesimo e terrore) o possono essere disgiunti (umanesimo o terrore). Nel primo caso la declinazione positiva è data da Merlau-Ponty, che nel 1946 valutava positivamente il terrore staliniano, reputandolo una sorta di scommessa pascaliana sul futuro. Il terrore, in questa ipotesi, sarebbe stato giustificato ex post, nel caso da esso fosse nata una società autenticamente umana, ovvero il regno dell'Uomo Nuovo del pensiero socialista. La connessione tra umanesimo e terrore ha invece la sua versione negativa nel pensiero di Heidegger, nei cristiani conservatori, così come nei difensori della spiritualità orientale e in certa ecologia radicale, che valutano l'umanesimo stesso come terrore, in quanto segno della Hybris dell'uomo. Disgiungendo i due termini si può invece avere le teorie liberali, il pensiero dei dissidenti antistalinisti, il pensiero neohabermasiano francese o, più in generale, i difensori dei diritti umani contro il terrore totalitario o fondamentalista che sia. L'ultima possibilità, che lo stesso Žižek definisce "radicale" e "difficile da sostenere" (p. 207), è invece quella che disgiunge i due termini, ponendo però come elemento positivo il terrore e non l'umanesimo. Per difendere quest'ultima posizione Žižek riprende in particolare il pensiero di Badiou e Agamben, i quali nelle loro opere definiscono la categoria di inumano, rifacendosi ad una tradizione di pensiero che ha in Lévinas, Althusser e Lacan ulteriori elementi di ispirazione. Secondo quest'ottica, tenendo anche presente il caso limite di Auschwitz, l'uomo è per natura inumano e proprio questo spiegherebbe "la riluttanza di Freud ad assumere l'ingiunzione «Ama il prossimo tuo»" (p. 207). La percezione dell'altro non è quindi legata all'accettazione e al riconoscimento, come vorrebbe l'umanismo, quanto piuttosto alla sua negazione. In questo senso, paradossalmente, il terrore rivoluzionario può forse aprire una speranza, poiché è proprio tramite il terrore che si pone all'ordine del giorno l'inumanità dell'uomo e, allo stesso tempo, la possibilità di modificare l'uomo stesso insieme alla società in cui vive.

Tutto ciò è utile per arrivare alla formulazione della domanda finale, ovvero, parafrasando Lenin, che fare? La risposta appare estremamente difficoltosa poiché, come lo stesso Žižek ammette, "la lezione degli ultimi decenni, se ce n'è una, è l'indistruttibilità del capitalismo" (p. 421). Proprio perciò la sinistra ha finito per adeguarsi, oppure per proporre strategie deboli, visto che "la paura di confrontarsi direttamente con il potere statale" (p. 422) attanaglia oggi gran parte dell'estrema sinistra e, più in generale, "l'idea di una «politica della verità» è liquidata in quanto totalitaria" (p. 423). Dopo un ulteriore, approfondito confronto con le tesi di Alain Badiou, Žižek prova tuttavia ad azzardare un'ipotesi, partendo dall'idea di conflitto. Egli afferma infatti che l'"ecologia", "l'inadeguatezza della proprietà privata per la cosiddetta «proprietà intellettuale»", "le implicazioni socio-etiche dei nuovi sviluppi tecnoscientifici (specialmente in biogenetica)" e "le nuove forme di apartheid, i nuovi muri e le nuove baraccopoli" (p. 522-6) sono, nel mondo contemporaneo, chiari elementi di contraddizione. Quindi, secondo Žižek, proprio negli abitanti delle baraccopoli del terzo mondo, insieme agli elementi progressisti della classe simbolica è possibile trovare un nuovo embrione di classe rivoluzionaria, che sappia mettere a valore gli elementi di conflittualità che anche nell'era del capitalismo globale è possibile vedere. Se insomma "il compito principale della politica di emancipazione del diciannovesimo secolo era rompere il monopolio della borghesia liberale politicizzando la classe operaia, e se il compito del ventesimo secolo era risvegliare politicamente le immense popolazioni rurali dell'Asia e dell'Africa, il compito principale del ventunesimo secolo è politicizzare, organizzare e disciplinare le «masse destrutturate» degli abitanti delle baraccopoli" (p. 530). Tutto ciò nel contesto di una possibile catastrofe ecologica e delle sfide che tale situazione comporta, sfide che, secondo Žižek, per poter essere affrontate, danno "una possibilità unica di reinventare l'«idea eterna» del terrore egualitario" (p. 573).

In difesa delle cause perse è sicuramente, come nello stile di Žižek, un testo estremamente e volutamente provocatorio, interessante e pieno di spunti (e proprio per questo quasi impossibile da restituire in tutta la sua complessità in una recensione), anche se la lunghezza fluviale e il continuo alternarsi di citazioni, digressioni e, in alcuni casi, risposte polemiche ad altri autori, può rendere non facile il percorso del lettore all'interno del volume.

Valerio Martone