2006

R. Caporali, Uguaglianza, il Mulino, Bologna 2012, pp. 265, ISBN 9788815240590

La “tesi” del libro, nella misura in cui strutturalmente recupera la tensività e la problematicità che contraddistinguono le vicende storiche della nozione di uguaglianza in Occidente, non rappresenta soltanto la sintesi concettuale del percorso filosofico presentato dall’autore, ma anche – e, forse, soprattutto – un vero e proprio “argomento” sull’uguaglianza e dell’uguaglianza. Quest’ultima si configura infatti come nozione teorica che non può non tradursi al contempo in prassi e politica, sullo sfondo di un orizzonte concettuale oscillante tra universalismi e particolarismi, dinamicamente coinvolto nelle molteplici dimensioni dei modi, dei tempi e finanche degli spazi della cittadinanza, così come essa si articola nelle soglie di inclusione ed esclusione, nelle aperture e nelle chiusure generate dai diritti. Come ciò sia possibile ed avvenga è detto dall’autore, che si rifà ad un’eco machiavelliana quando afferma che «neanche l’eguaglianza, nella sua possente contingenza (nella sua impotente fragilità, nella sua potente precarietà) è un fondamento della storia» (p. 9).

Nessuna filosofia della storia, né tantomeno nessuna filosofia dell’uguaglianza: un’uguaglianza che Caporali coglie e problematizza nel suo farsi e nel suo esserci, piuttosto che sul piano squisitamente teorico e normativo del suo dover essere. L’uguaglianza si struttura, in questo libro, come valore pratico: una condizione – se non, addirittura, una pre-condizione – per pensare ed agire politicamente (in maniera concettualmente non difforme da quella dei “valori” cui Bobbio legava la propria concezione procedurale della democrazia); non un fondamento della storia, dunque, ma del diritto e delle istituzioni umane. Con ciò si spiega come il filo rosso che attraversa il volume sia quello dell’uguaglianza politica in Occidente, letta e interpretata in chiave diacronica: dalle “gerarchiche armonie” di Platone e Aristotele all’universalismo che gli stoici consegnano alla novitas cristiana, fino all’uguaglianza resa così impolitica dal pensiero dei Padri della Chiesa da lasciare la politica al dispiegarsi del dominio e della disparità. È proprio questo il momento in cui lo spazio della politica inizia ad acquisire i contorni della iniquitas, seppure costantemente in tensione con una equitas, per quanto originaria questa possa apparire: se «il potere – scrive Caporali – è iniquitas […] è anche un suo rimedio: remedium iniquitatis» (p. 49).

Questa la tensione perenne che l’uguaglianza politica alimenta, fino al paradosso moderno della disuguaglianza come sola condizione che consente di ristabilire la parità tra gli uomini: il potere è opportuno che lo abbiano in pochi, che lo esercitino i migliori, i destinatari di Dio o che lo detenga il Leviatano come cessionario di tutti gli eguali poteri che animano in modo distruttivo lo stato di natura. Il libro analizza allora le dottrine del diritto naturale e le teorie contrattualistiche, mostrandone gli esiti diversi e talvolta inconciliabili: dall’«eguale subordinazione» hobbesiana all’uguaglianza proprietaria lockiana, fino all’uguaglianza come «ontologia democratica» di Spinoza, che attraverso la nozione di “moltitudine”, intesa «quale globale espressione degli incroci tra i conatus che formano ogni umano aggregato» (p. 115), ripensa in senso nuovo, plurale e dinamicamente egualitario il principio costituente del potere politico.

Se dunque è sul terreno politico che il discorso filosofico sull’uguaglianza affronta una vera e propria battaglia teorica, tale discorso sarà per ciò stesso complesso e, insieme, lacunoso, nient’affatto scorrevole e lineare, e verosimilmente inconcluso quando non proprio inconcludente: in quest’ottica sembrano collocarsi le parti del libro – solo apparentemente minoritarie o “abbozzate” – in cui si ripercorrono rapsodicamente i “resti”, le “rimanenze” e le “eccedenze” che quel discorso pure ha conosciuto, se non più o meno direttamente contribuito a produrre come “scarti” all’interno del mainstream teorico delle varie epoche. Ed è illuminante – oltre che coinvolgente – poter ripercorrere, grazie ad alcune pagine “militanti” del libro, la storia di questi «amabili resti», quasi potendo ricostruirla ex post ed innestarla sopra, accanto o dentro alla storia “ufficiale” e alla tradizione di pensiero consolidata dell’uguaglianza. Si torna così alla Roma repubblicana con la sua esperienza giuridica, caratterizzata dal rapporto tra “conflitto” e “diritto”, in cui «il costituirsi repubblicano della lex afferma il principio politico della mediazione e del consenso» (p. 38); si incontrano singolari figure come l’«eccentrico prelato» Raterio, vescovo di Verona (pp. 49-50) e Ildegarda di Bingen, che libera la donna dalla “colpa” della diseguaglianza rispetto all’uomo. E ancora, l’esperienza rivoluzionaria di Thomas Müntzer agli inizi del Cinquecento, conclusasi nel modo più drammatico ma animata dalla più radicale aspirazione egualitaria. E finanche l’«oscuro sacerdote» Jean Meslier, che con il suo Testamento proto-comunista sembra preludere a quella Congiura degli Uguali che segnerà drammaticamente il periodo rivoluzionario. Infine le voci “dissonanti”, che solo apparentemente sembrano stridere con le conquiste dell’uguaglianza, conferendole invece nuova linfa e basi più solide: è il caso della “democrazia” ripensata da Tocqueville; e forse anche, per certi versi, della critica nietzscheana, cui il libro dedica pagine belle e significative, valutando la portata del suo attacco alla mera ‘uguaglianza nei diritti’ come conformismo di massa, riflesso condizionato del consumo, aspirazione dei mediocri che intendono secedere dal “pubblico” e abitare solo il “privato”.

Come non ripensare allora alle considerazioni di Machiavelli, cui l’autore sembra guardare con rinnovato interesse: se «una “grande equalità di cittadini” rende quasi impossibile “ordinare principato”» è pur vero che «una “grande inegualità” impedisce di ordinare repubblica”» (p. 76); non c’è ovviamente in questa polarità machiavelliana né “giusta misura”, né finalismo né preferenze in termini assoluti per l’una o per l’altra soluzione; c’è semmai, nota Caporali, quella «antropologia della dismisura», quella «uguaglianza diseguale della natura» che ricostituisce sempre e continuamente le condizioni dell’uguaglianza politica, in un movimento perenne, in un moto continuo e senza sosta. In fondo, scrive l’autore, «ancorché la più potente, l’uguaglianza politica resta – difficile, forte, delicata – una tra le tante possibili sedimentazioni dell’umano sperimentare, dell’umano desiderare» (p. 76).

Nelle Conclusioni cui giunge il volume, di questo “desiderare” si appropria lo stesso autore, che pure lo ascrive a un’idea e a una pratica di politica, anch’essa in fondo frutto e sedimentazione di un «umano sperimentare». Nel riprendere la distinzione tra una “destra” e una “sinistra” politiche (con tutto il peso e la serietà che l’aggettivo merita), nel richiamarsi a ciò che già Bobbio, nel suo Destra e sinistra,aveva suggerito e che il dibattito recente ha ripreso e sviluppato (cfr., ad esempio, il contributo di C. Galli, Perché ancora destra e sinistra), Caporali intende rinnovare, quasi rammentandola al lettore, quella opzione ideale fondamentale e fondativa dell’ordine politico che, come «ogni grande opzione ideale […] nasce nel fuoco di “una grande passione”» (p. 250) e che, appunto, è rappresentata dall’uguaglianza come patrimonio identitario della sinistra. E forse però intende anche proseguire e andare oltre in questo cammino, nella consapevolezza che più che essere “creazioni” politiche della destra e della sinistra, uguaglianza e disuguaglianza paiono rendersi disponibili a “traduzioni” politiche. Questo tuttavia non priva affatto l’uguaglianza di quella carica normativa che quasi sembra imporsi al politico come tale: semmai sembra poter rimandare a qualcosa di “fisico”, di “biologico”, che informa «la sostanziale unità degli uomini» i quali, nonostante restino ancora sotto molti aspetti “uguali e disuguali” (Bobbio), sono «pur sempre uomini» (p. 252). In questo sostrato “biopolitico” all’autore pare di intravedere la possibilità di un procedere oltre, ben consapevole di come proprio tale sostrato possa rimettere in gioco la distinzione destra-sinistra e di come questa possa per certi versi rappresentare una sorta di scomposizione post-moderna dell’endiadi uguaglianza-disuguaglianza. Una scomposizione che, fortunatamente, non consola e non conclude il discorso filosofico sull’uguaglianza.


Ilario Belloni