2005

C. Marazzi, Capitale & linguaggio, DeriveApprodi, Roma 2002, pp. 166, ISBN 88-87423-41-5

Interpretandola come bolla speculativa oppure nuovo paradigma economico, con toni fortemente critici o accenti apologetici, la maggior parte delle letture della New Economy ha trovato un punto di convergenza metodologico: l'osservazione esclusiva dei meccanismi sistemici ed economici che la determinano. L'originalità di Capitale & linguaggio di Christian Marazzi sta invece nella sua capacità di indagare la genealogia del processo, rintracciando i conflitti e i soggetti reali che stanno alla base e alimentano dinamiche altrimenti difficilmente spiegabili, proprio perché disincarnate. La radice della New Economy va quindi individuata, secondo l'a., nelle lotte operaie internazionali che, dentro e contro il lavoro salariato, hanno messo in crisi i meccanismi di regolazione salariale e la pianificazione dello stato welfarista. Il paradigma fordista è saltato quando gli aumenti salariali hanno svelato la loro natura politica: dietro alla funzione economicamente positiva di crescita della domanda (secondo la dottrina nata nelle fabbriche di Henry Ford), è emersa in modo potente la faccia negativa per il sistema, ossia la crescita del contropotere operaio all'interno di un ciclo in espansione. In altri termini, l'imposizione da parte del lavoro vivo della rigidità del reddito, accompagnata dalla rivendicazione della flessibilità occupazionale e di movimento, ha costretto il capitale ad un salto di paradigma. «Il nuovo potere nasce facendo agire la sfera pubblica contro le singolarità proletarie, contro la domanda di vita dei senza lavoro in un momento in cui prende forma la crisi occupazionale del mercato del lavoro salariato. Legando il risparmio al rendimento futuro dei titoli obbligazionari, l'esercizio del comando della sfera pubblica si dà nell'obbligo al differimento temporale del diritto di vivere 'qui e ora' una vita dignitosa» (p. 14).

La crisi del controllo politico precipita negli anni 1974-75 con la crisi fiscale dello Stato sociale di New York. Lì inizia a delinearsi il nuovo ciclo, che si formerà da una parte con le nuove tecnologie e poi le imprese internet - simboli dell'esplosione e della crisi della New Economy -, dall'altra attraverso la finanziarizzazione di massa, ossia «il dirottamento del risparmio delle economie domestiche sui titoli azionari [...] sull'onda dello spostamento del finanziamento dell'economia dal settore bancario a quello borsistico» (p. 17). La massificazione degli investimenti borsistici assume, per certi versi, la forma di una "socializzazione della finanza", che esploderà negli anni '90 attraverso Internet e l'online trading. La disinflazione è il nesso monetario che lega postfordismo e New Economy.

Sarebbe un errore analizzare tali processi come un puro dispoegamento di leggi economiche o meccanismi sistemici comandati esclusivamente dall'alto. Se da un lato l'obiettivo delle élite dominanti è allacciare le sorti dei lavoratori ai rischi del capitale - si pensi al noto 401(k), primo schema pensionistico a contribuzione definita -, esistono dall'altro tentativi dei lavoratori di utilizzare le inedite alchimie dei mercati borsistici, tesi allo sganciamento del proprio reddito dalla prestazione lavorativa. Con convincente chiarezza, Marazzi mostra come le opinioni personali e la curiosità possano trasformarsi in giudizio collettivo in grado di essere statuto di riferimento nei processi economici. Una convenzione, infatti, non è giusta o sbagliata in quanto più o meno aderente alla realtà oggettiva, ma in virtù della sua capacità di diventare forza pubblica. Col tempo si tende a naturalizzare valutazioni la cui radice si trova nella molteplicità dei comportamenti soggettivi. Ed il funzionamento delle convenzioni è - sostiene Marazzi - linguistico. Qui l'a. recupera e porta avanti il filone di ricerca sulla preminenza del linguaggio nel modo di produzione definito postfordista, declinandola nell'analisi dei mercati finanziari. Condensando tale elaborazione in una formula, si può dire che il linguaggio non solo descrive i fatti, ma li crea.

Lo stesso capitale costante è diventato linguistico. A differenza del Marx dei Grundrisse, Marazzi sostiene che il General Intellect e il sapere che lo innerva non si cristallizzano nelle macchine, ma si alimentano di solo lavoro vivo. Ad essere messa al lavoro è l'intera vita dei lavoratori, o - meglio ancora - l'intera vita della comunità linguistica. Su queste basi, va quindi completamente ripensato il problema della lotta alla disoccupazione, che «attiene soprattutto alla creazione-distribuzione di nuovo reddito, non già alla riduzione del reddito esistente conseguente alla ripartizione tra occupati salariati e disoccupati» (p. 56).

Ma c'è uno squilibrio congenito alla dinamica della New Economy, evidenziato da Thomas Davenport e John Beck: se le nuove tecnologie hanno ampliato in modo travolgente l'accesso alle informazioni, ciò si scontra con il limite umano della domanda, ossia con il bene scarso e deperibile dell'attenzione. «La New Economy è infatti caratterizzata sul lato dell'offerta dalla legge dei rendimenti crescenti [ma] sul lato della domanda di beni e servizi, l'attenzione (e la sua allocazione) ha rendimenti decrescenti, ha cioè preso il posto delle materie prime fisiche dell'economia industriale» (p. 65). Nella attention economy i processi di monopolizzazione della produzione immateriale non possono risolvere lo scarto, in quanto si tratta di una contraddizione insita nella stessa forma del valore: aumentando il tempo d'attenzione, diminuisce il tempo dedicato all'ottenimento di un reddito salariale, dunque le possibilità della forza-lavoro di consumare le merci da essa prodotte.

Anche nella sua fase di crisi, la New Economy rende leggibile le cesure che negli ultimi due decenni si sono verificate sul piano globale. La sincronicità della crisi a livello internazionale, la velocità e il grado di diffusione con sui si è manifestata, mettono radicalmente in discussione la classica dialettica centro-periferia attraverso cui sono stati analizzati i processi economici, politici e sociali del '900. «La New Economy [...] ha modificato il circuito monetario-finanziario mondiale nel senso che i paesi-centro, gli Stati Uniti in particolare, hanno perso quella relativa autonomia decisionale (in politica monetaria e nella determinazione dei flussi merceologici) che, in passato, nel modello imperialistico, permetteva loro di regolare il ciclo economico interno esportando nei paesi periferici le loro contraddizioni» (p. 86). Riprendendo l'analisi di Negri e Hardt in Impero, l'a. descrive così la crisi dell'imperialismo novecentesco: lo stesso passaggio dalla preminenza della liquidità bancaria a quella della liquidità finanziaria segna il cambiamento della natura della sovranità, ossia il passaggio dallo Stato nazione allo spazio globale. Nel processo di globalizzazione della finanza e degli investimenti, la crisi della New Economy ci dice che ciò che succede in un punto del globo può avere immediate conseguenze sugli assetti complessivi.

È a questo punto che l'"esplosione panica" non va intesa come il riflesso degli istinti bassamente irrazionali del genere umano, ma al contrario come il «disvelamento della natura panica del modo di produzione capitalistico, della sua intrinseca precarietà» (p. 132). Allora, «per 'normalizzare' i mercati, per regolarli dall'alto delle autorità centrali, è necessario provocare una catastrofe, generare un panico tale da uniformare il comportamento dei molti, tale da trasformare la moltitudine in popolo unito dalla medesima logica» (p. 138). È in questo contesto che irrompe la guerra contro il terrorismo, la quale - parafrasando von Clausewitz - può essere definita la continuazione della New Economy con altri mezzi. Al termine del percorso analitico, si arriva così alla definizione dell'attuale fase, già anticipata dal sottotitolo: Dalla New Economy all'economia di guerra.

Collocato sul crinale di un passaggio di transizione e di crisi, in un quadro troppo mosso per lasciarsi ingabbiare in rigide griglie interpretative, questo testo ha la capacità di proporre un metodo analitico ambivalente: Marazzi decostruisce così le pretese oggettivistiche della scienza economica, disvelandone la matrice processuale, insita nella dinamica dei rapporti di forza tra le parti, nella tensione conflittuale - all'interno del modo di produzione vigente - tra la potenza e l'insubordinazione del lavoro vivo e l'appropriazione alienante del capitale.

Gigi Roggero