2005

C. Brown, Sovereignty, Rights and Justice: International Political Theory Today, Polity Press, Cambridge 2002, pp. 276

Sovereignty, Rights and Justice, è un ottimo manuale di teoria della politica internazionale. In questa qualificazione ciò che deve essere chiarito in primo luogo è proprio la materia trattata. Secondo Chris Brown la teoria della politica internazionale è una disciplina che si colloca all'intersezione della teoria politica e della teoria delle relazioni internazionali. In pratica si tratta di un ambito disciplinare nel quale esaminare i problemi della politica internazionale da un punto di vista normativo, vale a dire da un punto di vista che non si limiti a presentare modelli di previsione del comportamento degli attori internazionali ma che sollevi questioni normative intorno alla loro azione. In questa ottica, dopo un sintetico ma efficace excursus storico Brown, presenta otto agili capitoli tematici nei quali vengono affrontati i principali nodi problematici della politica internazionale: autodeterminazione e non intervento, guerra, diritti umani, intervento umanitario, giustizia sociale internazionale, diversità culturale, globalizzazione.

Come si è detto, il secondo, il terzo e il quarto capitolo sono dedicati alla ricostruzione dell'evoluzione storica del sistema politico internazionale. Le tappe di questa ricostruzione sono quelle canoniche: il sistema westfaliano, illuminismo e cosmopolitismo, romanticismo e rivoluzione industriale, internazionalismo liberale, realismo e neorealismo. Pur nei limiti di spazio Brown ha sicuramente il merito di offrire un resoconto per quanto possibile stratificato delle vicende che ripercorre, in cui l'analisi delle modificazioni del sistema internazionale viene fatta interagire con la storia del pensiero politico ed economico. Inoltre, da sottolineare la ricchezza di riferimenti alla produzione più recente.

Il quinto capitolo è dedicato ai temi dell'autodeterminazione e del non intervento. In primo luogo, Brown presenta i due concetti di autodeterminazione e non intervento cercando di mettere in luce le potenziali aporie che vi sono racchiuse - come si individuano esattamente i titolari del diritto di autodeterminazione? Quali sono i criteri per discriminare tra intervento (illegittimo) e influenza (legittima)? Successivamente Brown passa a considerare le principali spiegazioni addotte per giustificare i principi di autodeterminazione e non intervento e per legittimare la sovranità degli stati: la teoria di ascendenza kantiana - ma ripresa su basi diverse anche da Bull - dello stato come agente locale del bene comune, secondo la quale la ripartizione della popolazione mondiale in stati sovrani è condizione necessaria per massimizzare l'efficacia dell'azione dei governi; la teoria costitutiva dello stato, elaborata da Mervyn Frost, secondo la quale, hegelianamente, l'indipendenza dello stato è una precondizione del suo agire come promotore del bene collettivo; l'idea della società internazionale come associazione, sviluppata principalmente da Terry Nardin, in base alla quale la sovranità degli stati è funzionale a garantire la pluralità delle concezioni del bene; infine, la tesi di Michael Walzer che le norme di autodeterminazione e non intervento si giustificano sulla base dei diritti degli individui a dare forma alle proprie comunità politiche.

Il capitolo successivo è dedicato a uno dei temi di maggior risalto della teoria politica internazionale: il tema della guerra. L'impostazione generale della trattazione di Brown è improntata a una rivalutazione della cosiddetta «domestic analogy». In primo luogo, Brown denuncia il presupposto infondato secondo il quale l'esercizio della violenza costituisce una caratteristica distintiva della politica internazionale rispetto alla politica interna: in realtà, qualsiasi assetto politico è fondato, in ultima analisi sulla forza, dunque non c'è ragione di tracciare una linea di divisione netta tra la politica interna e la politica internazionale sotto questo aspetto. Dopo una rapida analisi dei concetti di violenza e coercizione, Brown esamina i tre principale atteggiamenti che si possono assumere verso il problema della guerra: il pacifismo, il realismo e la teoria della guerra giusta. Sia il pacifismo assoluto, che ritiene che la guerra non sia in nessun caso un'opzione praticabile, sia il realismo politico che esclude dalla deliberazione intorno alla guerra la considerazione di ragioni morali, vengono ritenute posizioni non più sostenibili. La parte principale del capitolo è così riservata alla dottrina della guerra giusta. Nell'affrontare la tradizione della guerra giusta Brown sottolinea come questa tradizione, nonostante le sue remote origini, non sia del tutto superata. Il nucleo della tradizione mantiene la sua validità e continua a costituire il miglior approccio disponibile per l'esame dei temi connessi con l'uso internazionale della forza. Brown intende la locuzione «guerra giusta» come «guerra giustificata», concludendo che i criteri tradizionali della guerra giusta - legittima difesa contro un'aggressione ingiusta, ristabilimento della pace internazionale violata - offrono ancora oggi una valida guida per discriminare i casi in cui un'azione bellica può ritenersi giustificata da quelli nei quali non lo è.

Il settimo capitolo è incentrato sul regime internazionale dei diritti umani. Dopo una sintetica ma efficace presentazione della storia dei diritti, dalle loro origini medievali fino alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo e alla fortuna più recente del concetto, Brown presenta la critica femminista al linguaggio dei diritti, che sottolinea l'inadeguatezza del concetto di diritto a tutelare gli interessi delle donne, quindi passa a discutere brevemente due approcci alternativi a quello dei diritti: quello incentrato sui doveri, difeso da Onora O'Neill e il capabilities approach, sviluppato da Amartya Sen e Martha Nussbaum, che sostituisce al concetto di diritto quello di capacità umana fondamentale come metro per salvaguardare l'integrità degli individui.

Il tema dell'ottavo capitolo è l'intervento umanitario. La tesi generale di Brown è che il recente intensificarsi di interventi militari condotti per ragioni umanitarie non costituisce una novità assoluta: lungi dal rappresentare un elemento essenziale del sistema di Westfalia, il divieto di intervento su basi umanitarie rappresenta un'innovazione del ventesimo secolo, strettamente collegata alle caratteristiche del sistema internazionale postbellico e poi al bipolarismo Usa-Urss. Nel diciannovesimo secolo e nei secoli precedenti l'intervento umanitario era ricorrente, ma in un contesto in cui esisteva una profonda divisione tra il sistema europeo - in cui vigeva il principio di non intervento - e il resto del mondo - in cui lo strumento dell'intervento umanitario era utilizzato per coprire le politiche coloniali. Nel momento in cui questo doppio regime è crollato, la norma del non intervento ha acquistato portata universale e così l'intervento umanitario è stato prima vietato e poi reinventato alla fine del secolo nel nuovo scenario emerso dopo la fine della guerra fredda. Un altro punto importante, spesso trascurato, concerne la distinzione tra intervento condotto per motivi umanitari e intervento con effetti umanitari. L'opinione di Brown è che la richiesta di motivi interamente umanitari è eccessiva: ogni decisione di intervento internazionale è il frutto di un complesso di motivazioni in cui trovano parte sia ragioni egoistiche che giustificazioni «altruistiche». Inoltre, in molti casi, azioni condotte principalmente per motivi imperialistici hanno prodotto effetti umanitari (la campagna inglese per l'abolizione della schiavitù nella prima metà del diciannovesimo secolo). Pertanto, la considerazione degli effetti deve precedere quella delle intenzioni.

Il capitolo seguente è dedicato al tema della giustizia sociale internazionale. La discussione prende le mosse da un influente saggio del 1972 di Peter Singer, in cui il filosofo australiano, sulla scorta di argomenti utilitaristici, concludeva che gli abitanti delle nazioni più ricche hanno un dovere morale di soccorrere quelli delle nazioni più povere. Il discorso si sposta successivamente sulla teoria della giustizia di Rawls e sulle sue applicazioni al contesto internazionale, sulle critiche a Rawls avanzate da Barry, Beitz e sulla nuova proposta di Rawls formulata in The Law of Peoples. Conclude il capitolo un interessante paragrafo sul tema dei confini, in cui si sostiene che il cosmopolitismo liberale, verso cui tende la proposta di Rawls, è incompatibile con l'esistenza e la conservazione di confini statuali.

Al centro del decimo capitolo sta il tema del significato che le diversità culturali rivestono per la teoria politica. In questa ottica Brown affronta il dibattito intorno ai cosiddetti «valori asiatici», ovvero la tesi secondo la quale il linguaggio occidentale dei diritti e i valori che da esso sono promossi non si addicono alle popolazioni dell'Asia, maggiormente legate a un'etica tradizionale e comunitaria. Vengono affrontati alcuni argomenti, avanzati da Brian Barry, Jürgen Habermas, Bikhu Parekh a favore dell'universalismo dei diritti. Brown nota che tutte le posizioni universaliste esaminate poggiano su qualche costruzione convenzionale che viene ritenuta razionalmente autoevidente e che viene eretta come baluardo contro la minaccia del relativismo culturale. Questa minaccia tuttavia non è forse così incombente come potrebbe sembrare: si dà il caso, infatti, che un presunto relativista come Richard Rorty abbia sostenuto la nozione di diritti umani. In conclusione, un certo spazio viene dedicato all'antirelativismo di Martha Nussbaum.

Gli ultimi due capitoli sono dedicati all'analisi delle trasformazioni indotte dai processi di globalizzazione e alla riflessione sul «futuro dell'ordine globale». Brown è preoccupato soprattutto di dimostrare che la quantità e qualità dei cambiamenti avvenuti non comporta automaticamente il superamento della teoria politica tradizionale incentrata sul modello di Westfalia. Del resto, come il sistema westfaliano ha preceduto la nascita degli stati nazionali e delle economie nazionali, non ci sono ragioni per cui non debba sopravvivere loro. Per quanto riguarda le principali trasformazioni che hanno segnato gli ultimi decenni, Brown focalizza la sua attenzione su due fenomeni connessi: da una parte, la nuova rilevanza acquisita dai soggetti individuali, soprattutto attraverso esperienze come quelle dei tribunali internazionali, dall'altra la prospettiva di una comunità globale. È abbastanza chiaro come il secondo fenomeno si connetta al primo: l'esistenza di una comunità globale costituirebbe proprio il fattore necessario per conferire stabilità alle esperienze, sinora precarie, delle corti penali internazionali. E tuttavia, l'idea di una comunità globale appare contraddittoria - una comunità è qualcosa che si distingue proprio per il fatto di stabilire dei confini, di separare un interno da un esterno - perciò la prospettiva di una comunità democratica globale, nonostante le elaborazioni dei western globalist - Held, Archibugi, più recentemente Linklater -, sembra normativamente condivisibile ma scarsamente attuabile nella pratica.

Il paradosso della comunità globale ci conduce facilmente ai temi trattati nell'ultimo capitolo. Capitolo che si apre con la rievocazione dei tumulti occorsi in occasione del G8 di Genova e procede riepilogando la critica di Susan Strange al Westfailure System. Secondo Strange ci sono tre aspetti in cui attualmente si manifesta l'incapacità del sistema westfaliano degli stati ad assicurare il benessere: l'incapacità dei governi e delle istituzioni a controllare il sistema della finanza globale, l'inadeguatezza di un sistema di stati sovrani a fronteggiare le conseguenze del degrado ambientale, l'attitudine dell'ordine economico contemporaneo ad aumentare piuttosto che ridurre le disuguaglianze. Questa premessa serve da introduzione a una rassegna sommaria degli argomenti dei contestatori della globalizzazione - il cui difetto principale, secondo Brown, consiste nel non presentare alternative convincenti al modello attuale - e dei difensori del mercato. La conclusione generale ribadisce la fede di Brown negli strumenti della teoria politica tradizionale: siccome il sistema attuale discende direttamente dal modello westfaliano e un ordine radicalmente nuovo non è in vista, conviene tenerci strette le categorie dell'analisi politica classica.

Nel complesso, Sovereignty, Rights and Justice è sicuramente un ottimo prodotto della tradizione accademica inglese nel settore degli studi internazionalistici. Trattandosi di un manuale, non tutti i capitoli esprimono contenuti originali, tuttavia, anche nei casi in cui l'autore si limita a riportare le opinioni correnti sull'argomento riesce quasi sempre a trovare un chiave personale attraverso la quale organizzare il materiale. A questa vivacità di esposizione si accompagna una notevole chiarezza di stile e ricchezza di argomentazioni. Naturalmente, non tutte le conclusioni di Brown riescono ugualmente persuasive - dubbi, in particolare, si potrebbero sollevare sulla sua sostanziale difesa della dottrina della guerra giusta, sulla categoria di intervento con effetti umanitari e sull'analisi complessiva delle questioni connesse ai fenomeni di globalizzazione. Inoltre, sarebbe forse stato opportuno un capitolo sulle tematiche del rischio ecologico. Ma si tratta di rilievi che non diminuiscono in maniera significativa i pregi complessivi del volume.

Leonardo Marchettoni