2005

A. Asor Rosa, La guerra. Sulle forme attuali della convivenza umana, Einaudi, Torino 2002, pp. 239, ISBN 88-06-16431-7

Questo libro di Alberto Asor Rosa, critico letterario militante, raccoglie alcuni dei suoi numerosi excursus sul terreno della politica. In particolare, si tratta della raccolta di testi dedicati dall'A. tra il 1991 e il 2002 al ruolo egemonico degli Stati Uniti nel nuovo ordine mondiale. Uno dei sintagmi-chiave di questi saggi è 'guerra infinita'. Asor Rosa asserisce, nella prima parte del libro (Il modo) che la guerra infinita che si staglia all'orizzonte come prospettiva ineluttabile delle relazioni internazionali (e delle relazioni umane tout court) tende a proporre, accanto ai 'modi della guerra', i 'modi del discorso': alla guerra infinita fa eco la menzogna universale. Non a caso, dunque, la seconda parte di questo libro (Parlar prima) è dedicata al ruolo del 'profeta' come colui che - appunto - parla prima cercando di smascherare la menzogna: profazio (e, meglio, pre-fazio) è il dire il presente, non il futuro. Profetare è dunque non pre-vedere il futuro, ma vedere il presente e parlar prima. E profeta può essere chiunque: «profeta è potenzialmente qualsiasi individuo del genere umano [...] che sputa fuori il boccone amaro che non può più tener dentro e lo avvelena» (p. 27). Ma la profezia vive una drammatica contraddizione: essa non è solo un inerte parlare (prima) al vento, è anche pratica, è attivo rifiuto dell'apologia, è tentativo di cambiare il corso della storia, ma sempre nella tragica consapevolezza della vanità delle parole. Il profeta, sebbene sempre armato della parola (contra l'idea machiavelliana di distinguere il profeta armato - 'Moise', 'Ciro', 'Teseo' e 'Romulo' - da quello disarmato), è sempre inascoltato, anche quando egli è pro-feta perché parla 'al posto di', 'per conto di', per conto del Dio (e il Signore mi disse: «Ecco, ti metto le mie parole sulla bocca»: Geremia, 1,9).

Nella terza parte del libro (Vedere attraverso) sono declinati tre 'modi' della guerra: giusta, umanitaria e preventiva. Naturalmente, parlare di 'guerra giusta' significa riferirsi alla Guerra del Golfo. Essa ha operato definitivamente la reductio ad unum, laddove l'unicum è l'Occidente. Ciò che ha unificato il globo non è, per Asor Rosa, l'economia o la politica, ma un atto di guerra: Unum imperium, unus rex. È la guerra che produce quella che impropriamente è stata definita la 'fine della storia'. Essa si realizza tramite la sintesi (occidentale) tra il diritto naturale e la storia, cioè tra il giusto e il buono da un lato e la legge del più forte dall'altro. E ciò produce un'inversione della storia (da lineare a ciclica), che si accartoccia su se stessa autogiustificandosi: «l'Occidente non ha più bisogno di giustificare le sue azioni di fronte alla storia» (p. 48), e quando ciò accade, si rivela il segno prognostico di un Occidente che sta ritornando alle proprie origini preistoriche e sta per mordersi la coda. La Guerra del Golfo, inoltre, sfuggendo al motto di Clausewitz secondo cui essa avrebbe dovuto essere la continuazione della politica con altri mezzi, fa politica da sé. Essa, al di là di ogni questione sostanziale (il petrolio, qualche kilometro di deserto) ha un portato formale: in primo luogo, secondo Asor Rosa, la Guerra del Golfo lancia il messaggio al mondo ostile agli Stati Uniti che c'è un esercito pronto a muoversi contro qualsiasi nemico e con qualsiasi clima, ed esso è senza avversari sulla scena mondiale; in secondo luogo, quella guerra ha modificato i piani del diritto internazionale, che ormai si configura come la codificazione di una gigantesca infrazione. L'A. dedica, in questo contesto, un paragrafo (Occhio per occhio, dente per dente) al ruolo dello Stato di Israele e dell'ebraismo nella situazione internazionale. Egli afferma che l'ebraismo è sempre stato libero dal delirio della razza, della nazionalità, della sovranità e dell'Impero (in questo, secondo Asor Rosa, l'ebraismo è Oriente puro). L'antisemitismo era la traccia di questa alterità dell'ebraismo nel corpo dell'Occidente. Ma il disagio dell'Occidente nei confronti di questo 'alieno', l'ebraismo, è durato fino alla fondazione dello Stato di Israele, momento in cui gli ebrei da Oriente si sono fatti Occidente: «da razza deprivata, perseguitata e decisamente 'diversa', è diventata una razza guerriera, persecutrice» (p. 191, corsivo mio). Questi passaggi hanno suscitato notevoli proteste e l'A. è stato tacciato di antisemitismo: a mio avviso, non a torto, poiché è inaccettabile l'identificazione e la 'confusione' degli ebrei con lo Stato di Israele. Ciò non solo è superficiale, ma è teoricamente e storicamente scorretto, e finisce per negare il forte ruolo svolto da una parte importante degli israeliani e degli ebrei che contestano la politica di Sharon (penso alle critiche rivolte dagli «Ebrei europei per una Pace giusta» alla politica israeliana degli omicidi mirati, ma anche ai 'refusenik' dell'esercito israeliano).

La guerra 'umanitaria' (Kosovo) supera la motivazione etica (teologica) della giustizia, e diventa non solo giusta, ma anche 'buona'. Tutto ciò, secondo l'A., ha una funzione di normalizzazione in chiave imperiale/occidentale, e tale normalizzazione ha a sua volta un portato etico: l'etica dell'incommensurabilmente più forte, l'etica della potenza senza regole (internazionali) e senza ragione. Anche la parte del libro dedicata all'11 settembre e alle sue conseguenze (la guerra 'preventiva') ribadisce l'idea della pulsione normalizzante (leggi occidentalizzante) che contraddistingue l'Impero dopo l''89: Unum imperium, unus rex. Ma proprio con riferimento alla nozione di Impero (Asor Rosa rivendica di essere stato uno dei primi a parlare di Impero, prima anche di Hardt e Negri), anche in La guerra emerge l'indeterminatezza semantica e teorica del termine. In effetti, per l'A., Impero non sono gli Stati Uniti tout court, sebbene (contra Hardt e Negri) sia evidente la loro pulsione egemonico-imperiale. In altri termini, l'Impero è il sistema globale del dominio, cioè il capitalismo contemporaneo. È dunque non peregrina la critica di Mario Tronti a Hardt e Negri e ad Asor Rosa: Tronti preferisce usare il sintagma 'capitalismo-mondo' piuttosto che quello di Impero, giudicando quest'ultimo - più che un concetto - un'immagine (dalla grande potenza 'mediatica'). Asor Rosa chiude il libro con un ritorno al tema del 'parlare' e del profetare (Parte quarta. Parlar dopo): i modi della guerra hanno definitivamente plasmato i modi del discorso, che sono soggetti a un attacco imperiale che mira a sanzionare non il 'fuori', ma il 'dentro' delle 'democrazie' occidentali. L'Impero, in altre parole, tende a difendersi dagli attacchi interni (la critica, il dissenso) cercando di imporre la menzogna, anche attraverso l'ideologia della grande libertà della comunicazione mediatica che però, secondo Asor Rosa, 'parla' molto ma non 'dice' niente.

Francescomaria Tedesco