2005

G. Arrighi, The long twentieth century: money, power, and the origins of our times, Verso, London-New York 1994, trad. it. Il lungo 20. secolo: denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano 1996, pp. 509, ISBN 8842803235

Il lungo Novecento di Giovanni Arrighi si colloca nella cospicua messe di studi sul secolo alle nostre spalle comparsi nel corso degli anni Novanta. Rispetto al pendolo di quelle interpretazioni del Ventesimo secolo, eternamente oscillante tra l'immagine di un'epoca corta segnata geopoliticamente dalle grandi forze internazionali sovietica e americana (Hobsbawn) da un lato, e l'idea che le forze sociali e gli attori economici protagonisti del secolo passato ne abbiano dilatato l'esistenza ponendone la nascita nella seconda metà dell'Ottocento (Maier) dall'altro, la lettura di Arrighi si colloca in un qualche modo a metà strada.

Con tutte le maggiori letture del Novecento, l'a. condivide l'opinione che la crisi economico-sociale apertasi negli anni Settanta abbia avuto valore periodizzante rompendo definitivamente il sistema commerciale e monetario internazionale sorto nella prima metà del secolo e consolidatosi dal secondo conflitto mondiale in poi attorno all'egemonia americana. Tuttavia, diversamente dalla maggior parte delle proposte interpretative disponibili, per Arrighi quella crisi di egemonia non costituisce un fatto senza precedenti nella vicenda dello sviluppo capitalistico ma presenta al contrario molte delle caratteristiche proprie dei periodi di transizione da un ciclo di accumulazione capitalistica ad un altro susseguitesi nei secoli passati. Da qui la scelta, tutta interna alla scuola braudeliana, di ripercorrere i quattro capitoli che dal tardo quattordicesimo secolo al 'secolo americano' scandiscono uno sviluppo capitalistico la cui evoluzione e definizione per Arrighi non è segnata tanto dalle infrastrutture e/o dai processi innovativi di cui esso si serve (tecnologie, modo di produzione, forza lavoro) quanto dal tipo di attività economica che di volta in volta si mostra più idonea all'accumulazione di capitale: attività manifatturiera, commercio, finanza. Proprio quest'ultima risulta l'elemento più ricorrente e tipico di ogni stadio di transizione da un regime di accumulazione ad un altro: tanto nei momenti di eclissi e transizione da un'economia mondo ad un'altra manifestatisi in età moderna con l'esperienza prima delle città-stato genovese e veneziana e quindi dell'egemonia economica olandese, tutte ripercorse nel secondo capitolo quanto nelle fasi di passaggio dall'impero economico britannico del diciannovesimo secolo all'economia mondo a guida statunitense, lette rispettivamente nel terzo e quarto capitolo, il mondo della produzione e quello del commercio cedono il passo alla finanziarizzazione del capitale.

Così facendo Arrighi recupera dichiaratamente la rilevanza data da Marx al ruolo del capitale finanziario nella transizione da un regime capitalistico all'altro riconsiderandone però la dinamica alla luce dell'esperienza novecentesca: se per l'autore del Capitale ogni economia in fase di declino aveva prestato alle economie mondo emergenti quella liquidità per le prime necessaria a rallentare e surrogare il declino delle proprie attività manifatturiere e commerciali, per le seconde vitale per la futura ascesa economica, per il sociologo italiano il portato di questa dinamica va ripensato.

L'attrazione di capitale da parte di economie emergenti si inserisce nel quadro di economie internazionali via via crescenti per volume di affari e quindi risorse necessarie disponibili. Pertanto, è la capacità di attrarre risorse da parte delle economie emergenti in una geografia capitalistica in continua espansione, non tanto il fatto che questi provengano dalle economie in dissolvimento, a spiegare le transizioni che si susseguono nel corso dei secoli. In più - e ciò distingue la crisi degli anni settanta del Novecento da quelle delle epoche precedenti - l'economia americana in crisi non affida alla finanza le sorti della propria crisi di accumulazione, cercando piuttosto di rilanciare il proprio ruolo egemone attraendo nuovi capitali nel corso degli anni Ottanta, a partire da quelli giapponesi.

Proprio questo particolare uso della finanza che gli Stati Uniti vanno facendo nel corso dell'ultimo trentennio spiega gli elementi di continuità con le epoche di passaggio da un regime di accumulazione al successivo cari all'autore e tutti gli elementi di novità e gli interrogativi che la crisi attuale manifesta e che Arrighi non nasconde. L'opposta funzione di creditore internazionale svolta dalle economie veneziana, olandese e inglese in passato, e quello di debitore cui hanno azzardato gli Stati Uniti tra gli anni Settanta e Ottanta, introduce al secondo principio interpretativo cui Arrighi affida l'intero suo lavoro: il capitalismo come stadio alto e superiore dell'economia occidentale, come luogo economico anarchico dove gli animal spirits del mercato trovano nello stato un'instancabile levatrice delle loro più anomiche pulsioni. Proprio questa 'santa' alleanza tra stato e mercato, tra politica e capitale, tipica della distinzione proposta a suo tempo da Fernand Braudel tra economia di mercato e capitalismo, spiega per Arrighi la capacità dimostrata nei secoli dalle economie emergenti di attrarre dall'estero quantitativi sempre crescenti di capitali: una sfida, questa, decisiva per capire come le economie che di secolo in secolo si fanno egemoni sul sistema capitalistico prevalgano, vinta proprio grazie alla saldatura tra poteri pubblici e forze del mercato. L'elemento di novità che la crisi americana presenta è costituito proprio dalla capacità statunitense di riproporsi come il maggiore catalizzatore delle risorse necessarie ad ogni economia per costituirsi come forza egemone, tanto da spingere l'autore a chiedersi se questa giunzione maturata negli Stati Uniti tra stato e mercato sia a tal punto affinata e provata da non temere future sfide ad opera di analoghi connubi provenienti da altri paesi.

Se l'indagine dell'autore sul ruolo ricorrente della finanza nei secoli cattura sicuramente anche l'attenzione di chi è estraneo alla 'lunga durata' braudeliana, sembra a chi scrive che maggiori riserve debba nutrire la riflessione, come detto anch'essa tutta interna a questa tradizione di studi, sui rapporti tra stato e mercato. In particolare, questi dubbi valgono nel momento in cui, come si fa in questo testo, la concezione braudeliana del rapporto tra potere e capitale viene applicata al Novecento. La tesi sostenuta da Arrighi lo spinge infatti a sottostimare forse eccessivamente la dimensione della territorialità nella storia dell'ultimo secolo, ridotta in queste pagine a mero strumento e funzione nella lotta decisiva per l'accaparramento del capitale. Da qui una serie di tesi su momenti e periodi specifici del Novecento - come l'idea che alla sconfitta dell'alta finanza tra le due guerre corrisponda sostanzialmente una rivalsa degli stati-nazione dentro e fuori l'orbita economica occidentale, o la sottovalutazione delle esperienze di regolazione e orientamento dello sviluppo occidentale maturate nel lungo secondo dopoguerra, per l'autore lunga stagione di apogeo del capitalismo anomico a guida americana - che gettano alcuni dubbi sulla pregnanza per il Novecento di studi di lungo periodo sebbene, come questo, dotati di una forte coerenza interna.

Simone Selva