2016

P. Mindus, Cittadini e no: Forme e funzioni dell’inclusione e dell’esclusione, Firenze University Press, 2015, 332 pp. ISBN 978-88-6655-623-7.

Recensione di Daniele Archibugi


Il dibattito sulla cittadinanza che, come ricorda Patricia Mindus, è letteralmente esploso dal 1990 in poi, ha spesso dato l’impressione di essere un dialogo tra sordi. Parlare di cittadinanza è diventato di moda perché ha evocato alcuni desideri dell’ultimo quarto di secolo quali la partecipazione politica, l’inclusione, la protezione dei gruppi più deboli.

Eppure, il dibattito è in gran parte inafferrabile. Nuove teorie della cittadinanza hanno ignorato quelle più antiche, molto si è perso nella traduzione dei termini e dei concetti in diverse lingue, ognuno ha detto la sua e siamo al punto di partenza. A ciò ha contribuito un dato di fatto: la nozione di cittadinanza è applicata in maniera molto differente tra i vari paesi le condizioni per diventare cittadino francese sono diverse da quelle per diventare cittadino tedesco, i diritti e doveri del cittadino americano sono diversi da quelli del cittadino italiano, e così via.

Sembrerebbe il terreno privilegiato in cui gli accademici possano dare una mano, fornendo categorizzazioni e schemi, precisando quali sono le condizioni di accesso e che cosa essa offra in ciascun paese. E invece, gli accademici si sono suddivisi in tribù disciplinari, ognuno di loro ha usato i termini che più gli aggradano senza preoccuparsi se il senso delle proprie parole fosse condiviso anche da altri. In una parola, invece di ridurre la confusione, l’hanno aumentata.

Il libro della Mindus prende una direzione del tutto opposta. Piuttosto che esporci una nuova teoria della cittadinanza, compie una minuziosa rassegna di che cosa si intenda con essa, separando tra tre diverse tradizioni disciplinari e associate accezioni: politica, giuridica e sociologica. Nella prima, si ricorre alla cittadinanza per legittimare il potere democratico, nella seconda per avere la certezza del diritto, nella terza per la coesione sociale. Se Aristotele è il capostipite della accezione politica, seguito dai teorici della democrazia dei moderni, quella giuridica sorge nel diritto romano ed è rinsaldata dai teorici della sovranità quali Bodin e Hobbes. L’accezione sociologica è invece più recente e si può rintracciare nella celebre tassonomia di T.H. Marshall.

Secondo la Mindus, c’è un’unica cosa che accumuna le tre accezioni di cittadinanza: tutte e tre servono per stabilire chi includere e chi escludere. Politologi, giuristi e sociologi rispondono allo stesso ritornello alla Enzo Jannacci: “vengo anch’io?” e ognuno risponde con il “no, tu no” a specifiche categorie di persone. Nel caso dell’accezione politica, la distinzione serve a separare chi ha la possibilità di partecipare all’autodeterminazione rispetto a chi non l’ha. Nel caso dell’accezione giuridica, per definire chi appartiene allo stato. Nel caso dell’accezione sociologica, chi è integrato nei processi sociali da chi ne è invece escluso. Ma nessuna di esse riesce a fornire linea divisoria certa e le eccezioni sono sempre numerose. Il libro è metodologicamente aristotelico, e sarà utile soprattutto se chi nel futuro utilizzerà il termine “cittadinanza” avrà l’accortezza di chiarire sin dall’inizio qual è la definizione e magari indicare anche qual è la genealogia alla quale fa riferimento.

La Mindus fa anche notare il pericolo di svuotare il contenuto di cittadinanza per associarla solamente ai diritti dovuti alla persona (come suggerito da Luigi Ferrajoli). I diritti sono certamente importanti, ma senza associarli a determinati doveri, e senza poter stabilire chi sancisce la coppia diritti/doveri, si rischia di fare una metafisica dei diritti della persona, quasi che essi possano essere sanciti e difesi da una nuova di categoria autonoma dai processi politici e sociali, i custodi del diritto (legislatori? magistrati? poliziotti?). Nonostante l’indeterminatezza del concetto di cittadinanza, la categoria resta fondamentale per associare diritti e doveri e, più specificatamente, il gruppo di individui cui spettano determinati diritti, e il gruppo di coloro cui spettano i relativi doveri. I due insiemi non sono del tutto sovrapposti (tipicamente, i minori hanno diritti ma non doveri), ma se si dissociano interamente le due categorie, ci si espone ad una critica semplice e devastante: chi stabilisce quali siano i diritti della persona? Come far ricadere almeno su alcune persone le conseguenti obbligazioni politiche?

E’ oramai comune che gli studi sulla cittadinanza finiscano sull’interrogarsi sulla validità della nozione in un mondo sempre più interdipendente, e accade spesso che le ultime pagine di questi studi siano dedicate alla possibilità di estendere i diritti e doveri associati cittadinanza a livello globale. In un mondo sempre più globalizzato, hanno ancora senso i vari criteri utilizzati per includere ed escludere? Anche la Mindus, nelle ultime pagine, si pone il problema di come le nozioni tradizionali di cittadinanza reggano l’urto della globalizzazione. Purtroppo, il libro della Mindus tratta in modo caricaturale il tema della cittadinanza cosmopolitica, ad esempio quando afferma che “i cittadini del mondo godrebbero ovunque di ogni e qualsiasi diritto” (p. 282).

Chi ha suggerito una cittadinanza cosmopolitica non ha certo pensato che questa debba assumere su di se tutti gli oneri associati alla cittadinanza come oggi la conosciamo all’interno dello stato. Se la cittadinanza cosmopolitica dovesse diventare analoga a quella statale, non sarebbe neppure necessario utilizzare un termine diverso (e addirittura un po’ pleonastico: il cosmopolita non è forse già il cittadino del mondo?). Si tratterebbe, invece, di operare sulla natura dello stato, trasformando il globo in una istituzione federale globale. La tradizione federalista (sia a livello europeo che a livello mondiale) è antica, autorevole e teoricamente solida. La cittadinanza globale, con tutti i suoi corollari, sarebbe dunque la conseguenza di una ancor più avveniristica trasformazione politica planetaria, come quella, appunto, uno stato unico, anche se federale.

Ma dietro il progetto di una cittadinanza cosmopolitica c’è qualcosa di sostanzialmente diverso del semplice ampliamento a livello mondiale di quanto già sperimentato con lo stato. Uno stato mondiale non avrebbe tanti dei problemi che oggi incontrano i singoli stati nell’includere e nell’escludere, ma ne avrebbe altri segnalati da Immanuel Kant e da tanti suoi seguaci. La cittadinanza cosmopolitica intende, invece, affrontare i problemi specifici di un pianeta diviso in stati sovrani, ma che hanno intense e crescenti interazioni. E che hanno, tra l’altro, istituito diverse organizzazioni internazionali, a cominciare dalle Nazioni Unite con le sue numerose agenzie, per prendersi carico di questioni comuni. Che ci sia qualcosa che non funziona lo riconosce del resto la stessa Mindus, quando dichiara che il binomio sovranità/cittadinanza è oramai storicamente superato, e che occorre identificare nuove istituzioni capaci di conferire lo status di cittadino.

E’ allora forse il caso di chiarire che cosa si intenda per cittadinanza globale o cosmopolitica. Uno dei primi atti dell’ONU è stata la Dichiarazione universale dei diritti umani. A differenza della più antica Dichiarazione della rivoluzione francese, le Nazioni Unite si sono riferite ai diritti solo “umani” e non anche a quelli del “cittadino” (forse anticipando le preoccupazioni di quanti prediligono i diritti della persona). Ma il grande limite di quel documento è che non si capisce chi abbia i corrispondenti doveri e ciò spiega perché tanti autori e politici (tra cui, come opportunamente rammentato dalla Mindus, Norberto Bobbio) abbiano osservato che il problema contemporaneo non è tanto sancire diritti, quanto quello di farli rispettare. Da chi? Implicitamente, e visto il dettato della Carta dell’ONU, se ne può dedurre che i doveri relativi debbano essere sostenuti dagli stati, i quali poi possono decidere autonomamente come scaricare costi e prelevare risorse dai propri sudditi o cittadini.

L’organizzazione attuale della comunità internazionale, nella quale gli individui sono titolari di diritti e gli stati di doveri, è molto insoddisfacente e genera quel tipo di impasse cui stiamo assistendo oggi, ad esempio con la crisi dei rifugiati. Per quanto riguarda i rifugiati, la comunità internazionale è vincolata da chiari principi normativi, quali quelli della Convenzione sui rifugiati fondata sul principio di non-refoulement, e addirittura agenzie, quali l’UNHCR e il WFP, che si occupano specificatamente di fornire assistenza. Ma i principi normativi svaniscono quando si tratta di trovare le risorse, e così le agenzie dell’ONU devono andare in giro per il mondo a bussare alla porta dei vari governi, pregandoli di essere misericordiosi e generosi, e di fornire il denaro sufficiente per le periodiche emergenze. Senza che ci sia, né nel diritto interno né in quello internazionale, alcun principio che stabilisca chi e con quanto debba contribuire. E così, i rifugiati e i loro problemi sono abbandonati alla carità dei singoli stati.

I rifugiati sono solo una delle aree in cui si pone il problema: aspetti analoghi riguardano le azioni riguardanti il cambiamento climatico, la necessità di interventi con finalità umanitarie nel corso di guerre civili, i programmi di assistenza alimentare di base, i fondamenti dello sviluppo economico e sociale, etc. Tutte aree in cui l’enunciazione di diritti non è stata associata ad una assunzione di doveri.

L’idea della cittadinanza cosmopolitica vuole contribuire a risolvere questi problemi immaginando una sfera minima di diritti e doveri che gli individui non hanno solamente nei confronti dello stato di appartenenza, ma anche nei confronti della comunità globale. I diritti dovrebbero essere pertinenti alla sfera della sopravvivenza, e sarebbero più compiutamente sanciti se, oltre ad essere indicati dai governi, lo fossero anche da istituzioni rappresentanti gli individui. L’idea di cittadinanza globale si sposa, ad esempio, con la proposta di creare una Assemblea Parlamentare Mondiale sul modello del Parlamento Europeo.

Ne abbiamo bisogno? A che cosa servirebbe una doppia cittadinanza, che si accompagni a quella dello stato? Torniamo al caso dei rifugiati, giacché è l’emergenza del momento e ben si presta ad illustrare il valore pratico della cittadinanza globale. Allo stato attuale, i rifugiati hanno diritti se essi sono riconosciuti dagli stati cui intendono richiedere asilo, anche sulla base di Convenzioni internazionali siglate da questi stati. Eppure, ogni stato interpreta le Convenzioni a modo suo. I richiedenti asilo, da parte loro, sono solo ed esclusivamente portatori di diritti (a volte riconosciuti, altre no), ma non hanno alcuna voce propria. Neppure quando sono stipati in campi profughi e ricevono aiuti umanitari dall’UNHCR, dal WFP o da altre agenzie delle Nazioni Unite. Paradossalmente, l’unica voce politica cui possono far riferimento è quella del governo dello stato di appartenenza: nella sfera internazionale, l’unica voce legittima dei rifugiati siriani è quella di Bashar al-Assad.

Per far sentire la propria voce questi rifugiati debbano affidarsi ad Angelina Jolie o a George Clooney. Queste icone mettono la loro popolarità al servizio di una nobile causa, senza che sia chiaro se siano portavoce delle agenzie delle Nazioni Unite (soprattutto per raccogliere fondi) o dei rifugiati impossibilitati a dire che cosa effettivamente desidererebbero. I rifugiati vivono spesso per anni e anni in tendopoli sterminate, e non esiste alcuna forma di loro rappresentanza politica, né locale né globale.

Può l’idea di una cittadinanza globale aiutare a risolvere il problema? Come già suggerito da Pierre Hassner nel 1998, i rifugiati potrebbero essere i primi a beneficiare di una cittadinanza cosmopolitica, cui siano associati diritti minimi e una rappresentanza politica nelle sedi che affrontano il proprio destino. Allo stato attuale, ai vertici che si sono svolti per discutere il problema dei rifugiati, si sono seduti intorno al tavolo: rappresentanti degli stati di destinazione finale, rappresentanti degli stati di origine, rappresentanti degli stati di transito, rappresentanti delle agenzie internazionali, rappresentanti delle Organizzazioni non-governative, rappresentanti delle organizzazioni religiose. Tutti, insomma, tranne le persone che vivono sulla propria pelle il problema, tutti tranne i rifugiati.

Cittadinanza cosmopolitica non significa solo accedere alla sfera politica globale. In molte occasioni, essa può essere utile proprio per dare diritti e doveri del tutto locali. Ancora una volta, il caso dei rifugiati è un ottimo esempio. Molti dei vari milioni di rifugiati riconosciuti dall’UNHCR vivono in campi profughi, in linea di principio transitori ma in molti casi che si protraggono per anni. Questi campi profughi hanno problemi tipici di agglomerati urbani (sicurezza, pulizia, igiene), mentre manca qualsiasi forma di organizzazione politica, proprio perché non sono riconosciuti come entità da nessuna parte. Sotto l’egida della cittadinanza cosmopolitica, si potrebbe dotare di diritti e doveri gli abitanti involontari di questi campi, senza dover fare affidamento solo alla buona volontà di una star hollywoodiana.

In questo denso e ben documentato libro, la Mindus riesce a prendere in considerazione e a dare dignità anche alla letteratura italiana, così spesso ignorata nel dibattito internazionale. Anche per questa ragione, è veramente auspicabile che il libro sia prontamente tradotto in inglese. Questa profonda conoscenza del dibattito italiano contemporaneo si accoppia anche ad una altrettanto accurata conoscenza della cittadinanza nel mondo romano. Si capisce, dunque, che il libro sia dedicato addirittura alla città di Roma. La Mindus trova che il modello romano sia l’esempio da seguire per risolvere molti dei problemi contemporanei. Forse perché i romani ritenevano che cittadini dovessero essere quanti avevano un comune sentire per la res publica e un progetto per il futuro, una nozione inclusiva, insomma, piuttosto di quella esclusiva tipica della democrazia ateniese.

Oggi la storia sembra ripetersi e possiamo tracciare due tendenze diverse. Chi vede nella cittadinanza un modo per affermare un passato condiviso (come accade in molti paesi europei), e chi invece si butta al di là dell’ostacolo e pensa che la cittadinanza serva per la convivenza futura, come è stata pratica diffusa negli Stati Uniti per due secoli. Un tassista newyorkese, arrivato da qualche sperduta repubblica centro-asiatica, una volta disse: “qualcuno è arrivato prima di me, qualcuno arriverà dopo di me. Ma qui siamo tutti americani”. Aveva capito più lui sulla cittadinanza di tanti dotti accademici.