2005

A. Appadurai, Modernity at Large: Cultural Dimensions of Globalization, University of Minnesota Press, Minneapolis-London 1996, trad. it. Modernità in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione, Meltemi, Roma 2001, ISBN 88-8353-060-8

Tra le diverse teorie della globalizzazione quella di A. Appadurai spiega l'insufficienza teorica e metodologica della nozione di modernità - intesa come categoria esplicativa centrale per le scienze umane - a partire dalla rilevanza che negli ultimi anni hanno assunto i fenomeni della comunicazione di massa e delle massicce e irregolari migrazioni. Gli effetti combinati di questi due fenomeni sono indagati in relazione ai mutamenti che si producono, attraverso la pratica culturale quotidiana, sull'opera dell'immaginazione, «tratto costitutivo della soggettività moderna» che provvede a determinare piani di vita individuali e forme di aggregazione collettive. La "deterritorializzazione", l'irregolare e diffusa disarticolazione di persone, informazioni, tecnologie, capitali e ideologie crea un sistema di disgiunzioni e di differenze che impediscono di considerare delle unità culturali come omogenee e soprattutto definite da confini delimitati spazialmente come quelli dello stato nazionale. Il concetto di "luogo", in quanto prodotto materiale di dinamiche culturali, è costretto a ridefinirsi proprio a causa di questi "flussi culturali globali" eterogenei e incontrollabili.

Sono proprio questi flussi globali che costituiscono l'oggetto dell'analisi della prima parte del libro, in cui la sempre crescente «disgiuntura» di questi flussi viene esaminata tenendo conto della tensione tra omogeneizzazione ed eterogeneizzazione culturale. Da un lato, infatti, le comunità più piccole corrono spesso il rischio di essere assorbite da entità più grandi, tanto che «la comunità immaginata dell'uno diventa la prigione politica dell'altro», innescando quei fenomeni di violenza etnica che restano questioni di rilevanza fondamentale per una teoria dei processi culturali globali, quale quella di Appadurai vuole essere; dall'altro lato, invece, è il movimento di gruppi di persone che riescono comunque a restare in contatto, grazie a collegamenti mediatici sempre più istantanei e ramificati, a costituire quelle «sfere pubbliche diasporiche» che hanno la possibilità - anche in virtù della loro de-localizzazione - di mobilitare le rispettive differenze culturali a vantaggio di un'identità di gruppo costruita così da e nel, processo storico e non da caratteristiche primordiali. Tali sfere pubbliche contribuiscono in modo notevole al fenomeno del «rimpatrio della differenza», sotto forma di beni, segni, slogan, stili di vita, immagini e ideologie. Questi flussi, provenienti da varie parti del mondo e da persone o gruppi con differenti esperienze, creano dal nulla o rafforzano delle microidentità antagoniste che si oppongono ai regimi - statali e non - di normalizzazione.

La categoria di immaginazione assume per Appadurai una rilevanza teorica e metodologica notevole. Sebbene il suo statuto teorico risulti dalla poco chiara sovrapposizione di «immagine riprodotta meccanicamente» (il riferimento è alla Scuola di Francoforte), di «comunità immaginata» (dal noto testo di B. Anderson), e di «imaginaire» (nozione di matrice francese), il valore metodologico di questa categoria permette di individuare «un campo organizzato di pratiche sociali e una forma di negoziazione tra siti d'azioni (individui) e campi globalmente definiti di possibilità» (p. 50). La deterritorializzazione ha un impatto socialmente e politicamente decisivo sull'immaginazione; essa infatti mette a disposizione un repertorio più vasto di vite possibili che non in passato e contribuisce non solo a rielaborazioni più critiche della tradizione ma anche alla produzione di un'identità di gruppo sempre più translocale, che apre delle fratture profonde nella vecchia forma dello stato-nazione; la produzione della località diviene così sempre più deterritorializzata e legata a fattori culturali influenzati notevolmente dall'intreccio fra vite reali e vite immaginate. Tale intreccio favorisce lo sviluppo di nuove forme di politica e di espressione collettiva che tuttavia, a loro volta, porteranno delle modificazioni alle modalità di disciplina e controllo da parte delle vecchie forme tradizionali di organizzazione sociale. La località come esperienza vissuta in un mondo globalizzato e deterritorializzato diventa così l'obiettivo delle pratiche di rappresentazione etnografiche che devono cercare di far luce «sul potere che le vite potenziali immaginate su larga scala esercitano su specifici percorsi di vita» e sulla produzione culturale della località (p. 80).

Ma l'aver scelto l'immaginazione come cardine dei processi di riproduzione socio-culturale comporta la ridefinizione dell'orizzonte fenomenologico temporale collettivo ed individuale. Il tempo come durata che scandisce la vita culturale di un gruppo sociale è agganciato alla nozione di consumo, che a sua volta collega in modo teoricamente interessante il concetto di immaginazione con quello di corpo. Se infatti, come suppone l'autore, sussiste un isomorfismo tra consumo e corpo, questo è definito da una scansione temporale che si basa sull'abitudine e sulla ripetitività. Tale ripetitività tuttavia non è legata soltanto a dei condizionamenti biologici, ma è definita soprattutto da fattori culturali. Il tempo è allora prodotto dal consumo, la cui valenza culturale è data proprio dal fatto che il corpo «è un contesto intimo di pratiche di riproduzione, è un sito ideale per l'inscrizione di discipline sociali». Il corpo come referente del consumo risulta allora de-naturalizzato nella misura in cui i suoi bisogni sono mediati temporalmente dal sistema socio-culturale che determina l'identità di gruppo in modo sempre specifico e locale. Questa dimensione locale (o genealogica) deve essere coniugata con le storie che si svolgono su larga scala. Seguendo il nesso consumo-durata l'a. individua tre elementi che lo organizzano socialmente: interdizione, legge suntuaria, moda. È quest'ultima che attualmente collega il consumo alla modalità temporale dell'effimero. Questa nuova forma di consumo mercifica anche il tempo ad esso destinato. Grazie a tecniche che mobilitano sentimenti come nostalgia e speranza, esse orientano il desiderio verso un mondo di oggetti mercificati. È a questo livello che la disciplina dell'immaginazione è strutturata dalle modalità temporali date dal consumo, e non solo nel caso della moda. Queste complesse interazioni fra micro e macro devono essere studiate caso per caso, «i fatti globali prendono sempre forme locali».

Per dare una rilevanza empirica a queste teorie Appadurai, nella seconda parte del libro (Colonie moderne), prende in considerazione due fenomeni sociali e culturali che hanno accompagnato il processo di decolonizzazione dell'India, il gioco del cricket e i censimenti. Nel caso del cricket vengono esaminate le dinamiche complesse e contraddittorie che determinano l'indigenizzazione di questo sport in parallelo all'emergere di una nazione indiana. Il cricket da mezzo di disciplinamento morale e politico che si inscrive nei corpi dei colonizzati diviene un elemento della nuova identità culturale e politica che sgretola le forme istituzionali coloniali che la condannavano alla subalternità. Tuttavia la recente spettacolarizzazione e mercificazione di questo sport sembra segnare una sorta di ricolonizzazione da parte di forze transnazionali.

Anche per il censimento, una delle strategie di controllo centrali per il progetto coloniale, Appadurai mette in luce l'innescarsi di contro-effetti che portano alla formazione di identità di gruppo destabilizzanti. Appadurai mostra come gli strumenti di enumerazione e di classificazione, attraverso un processo di labelling, abbiano cercato di inscrivere i corpi che essi volevano governare all'interno di una cornice normalizzante di matrice eurocentrica, che implicava un sistema di disciplina e sorveglianza dell'intero corpo sociale. Tale rappresentazione, interiorizzata sia dai dominati che dai dominanti, è stata costruita ad hoc secondo un sistema di differenziazione razziale (a sua volta creato innanzitutto come rappresentazione). Infine il collegamento fra rappresentanza politica e differenza di gruppo ha posto le basi per dei processi di identificazione che, da un lato, concorrono a esautorare lo stesso progetto coloniale, ma dall'altro, producono delle tensioni etniche e religiose insanabili all'interno di una razionalità politica, ancora vicina alle logiche coloniali.

Nella terza parte del libro, Locazioni postnazionali, Appadurai, per spiegare il significato che la nozione di etnicità assume in un mondo globalizzato, cerca un'alternativa alla concezione primordialista. Questa si basa sull'estensione dell'idea primordiale di parentela e mette al centro dei processi di identificazione elementi come il sangue e la razza; inoltre tale biologismo si coniuga spesso con il radicamento territoriale e linguistico dell'identità di gruppo, contribuendo a formare quel concetto di nazione che in molti casi ha portato alla creazione sia dello stato moderno sia delle più virulente forme di violenza etnica. Infatti, tali appartenenze e i conflitti che queste determinano, risulterebbero essere radicate su un sostrato emotivo naturalisticamente immodificabile. Al contrario la tesi abbracciata da Appadurai sostiene che «le emozioni sono costruite culturalmente e contestualizzate socialmente»; motivo per cui è sempre all'interno di cornici culturali specifiche di significato che le "strutture di sentimento" che cementano l'identità di gruppo devono essere spiegate. L'attività rappresentativa dell'immaginazione diviene il principale terreno di scontro fra uno stato che mobilita delle rappresentazioni di identità per costituirsi come tale ed auto-mantenersi normalizzando o escludendo le differenze più destabilizzanti, e quelle forme antagoniste e non riconosciute che aprono delle crisi di legittimazione nei confronti di una cornice statuale sempre più inadeguata a contenere la proliferazione di differenze che i processi globali comportano in misura molto maggiore che non in passato. Tale dialettica comporterebbe l'implosione di "strutture di sentimento locale" sotto pressioni di natura extralocale come radice politica e culturale dei conflitti etnici. Il sentimento etnico, lungi dall'essere un elemento identitario primordiale, risulta invece costituito all'interno del processo storico su una dimensione sospesa fra il locale ed il globale.

In un quadro così definito la produzione della località mette in crisi l'isomorfismo tra popolo, territorio e sovranità che caratterizza lo stato-nazione; la località diviene allora una «proprietà fenomenologica della vita sociale, una struttura di sentimento prodotta da particolari forme di attività intenzionale e che produce tipi peculiari di effetti materiali» (p. 237). Tutto ciò implica una generazione della località sempre più contestuale, cioè legata alla consapevolezza che essa si produce in relazione ad altre località (o vicinati) che costituiscono così un contesto fondamentale per la formazione dello spazio socializzato da una specifica identità di gruppo e per la riproduzione culturale della stessa identità. Ma la formazione di una tale identità ha al contempo un effetto di ritorno sui vicinati che le fanno da contesto e questi sono a loro volta chiamati a ridefinire di conseguenza le pratiche di socializzazione del loro spazio e dei loro confini. È su questo margine che si esercita la tensione fra globale e locale, fra entità subalterne, diasporiche, e stato nazionale, fra pulizia etnica e convivenza pacifica.

Orazio Irrera