2005

B. Anderson, Imagined Communities, Verso, London-New York 1991, trad. it. Comunità immaginate, Manifestolibri, Roma 1996, ISBN 88-7285-229-3

Lungi dal ritenere in crisi i concetti di nazionalismo e di nazione, Anderson intraprende una vera e propria genealogia del sentimento di appartenenza nazionale. Trattando i diversi nazionalismi come dei "manufatti culturali" di un particolare tipo, l'a. cerca di dimostrare che la loro creazione «alla fine del '700 è stata la spontanea distillazione di un "incrocio" di forze storiche discontinue; ma che, una volta create, divennero "modulari", in grado quindi di venir trapiantate, con vari gradi di consapevolezza, in una grande varietà di terreni sociali, per fondersi ed essere fuse con un'altrettanto ampia varietà di costellazioni politiche e ideologiche» (p. 25).

Cercando di spiegare perché i nazionalismi siano riusciti a suscitare attaccamenti così profondi, Anderson propone una definizione di nazione come «comunità politica immaginata, e immaginata come intrinsecamente insieme limitata e sovrana. È immaginata in quanto gli abitanti della più piccola nazione non conosceranno mai la maggior parte dei loro compatrioti, né li incontreranno, né ne sentiranno mai parlare, eppure nella mente di ognuno vive l'immagine del loro essere comunità» (p. 27). A differenza dei grandi sistemi culturali che lo hanno preceduto, e dai quali, o contro i quali, esso è nato, ovvero la Comunità Religiosa ed il Regno Dinastico, il concetto di Nazione presuppone una mutata percezione del tempo. Nell'immaginario medievale cristiano, infatti, l'idea di appartenere ad una comunità universale era sorretta dal legame verticale che veniva a stabilirsi fra due o più eventi; la creazione del piano della storia e la chiave della sua comprensione risiedevano nella potenza divina, per cui un evento ne prefigurava altri e convergeva escatologicamente verso un fine ultimo. In questo orizzonte temporale messianico l'idea di simultaneità si riferiva, come per Benjamin, alla compresenza di passato e futuro nell'istantaneità del presente in cui si manifestava l'eternità del disegno divino. La trasformazione della percezione temporale che invece si ha in epoca moderna determina una simultaneità "obliqua" e trasversale che - sempre seguendo Benjamin - Anderson chiama «tempo omogeneo e vuoto», un tempo scandito e misurato da orologi e calendari. Tale concetto di simultaneità è illustrato considerando «la struttura di due forme di rappresentazione che cominciano a svilupparsi nel '700, il romanzo ed il giornale; queste forme offrirono gli strumenti tecnici per "rappresentare" quel tipo di comunità immaginaria che è la nazione» (p. 43). Il romanzo si svolge presupponendo da un lato una cornice spaziale quotidiana e facilmente riconoscibile da ogni membro che appartiene ad una data comunità e, dall'altro lato, una dimensione temporale marcata dalla caratterizzazione avverbiale del "nel frattempo", per cui una serie di eventi scorre simultaneamente lungo una medesima linea temporale che, dal canto suo, provvede a collegare narrativamente personaggi e situazioni che altrimenti resterebbero irrelati, generando così quell'anonima "solidità sociologica" che costituisce lo sfondo immaginario della nazione. La seconda forma di rappresentazione, il giornale, si diffonde su vastissima scala grazie al fenomeno che Anderson chiama "capitalismo-a-stampa" che rende il giornale con la sua effimera ma collettiva modalità di consumo, «la prima merce moderna a produzione di massa». La lettura quotidiana del giornale finisce per essere una cerimonia di massa in grado di rafforzare la coscienza che il medesimo atto compiuto da ognuno viene replicato «da migliaia (o milioni) di altri, della cui esistenza si è certi, ma della cui identità non si ha la minima idea» (p. 51). La "logica" del giornale implica così la rifrazione di "eventi mondo" in uno specifico mondo immaginato come comunità omogenea.

L'importanza data a queste forme di rappresentazione non implica per Anderson la centralità di una lingua nazionale per la spiegazione della nascita dei primi nazionalismi. Questi infatti compaiono per la prima volta nelle Americhe, in cui le lotte di liberazione nazionali sono state guidate da creoli, «persone che condividevano la lingua e l'origine con coloro che avevano combattuto» (p. 71). La lingua non è mai stata in discussione allorquando sia i creoli che gli indigeni vennero per la prima volta proclamati indistintamente cittadini "peruviani" o "messicani".

In effetti, uno degli interrogativi più interessanti del testo di Anderson riguarda i motivi per cui furono proprio le comunità creole a sviluppare - ben prima che in Europa - una concezione della loro "nazionalità". Partendo dalle cause più comunemente indicate dagli storici, ovvero il controllo soffocante esercitato da Madrid ed il diffondersi delle idee liberalizzanti dell'Illuminismo, l'a. mette in evidenza come già tra il Cinqueento e il Seicento, quelle che saranno in seguito le nuove repubbliche sudamericane, erano delle unità amministrative separate. I confini di tali unità sono all'inizio casuali e ricalcano l'estensione di particolari conquiste militari. In un secondo momento la politica commerciale e fiscale di Madrid le rende zone delimitate da specifici fattori geografici, politici ed economici. Tuttavia, «per capire come unità amministrative abbiano potuto, nel tempo venir concepite come "patrie", non solo in America ma anche in altre parti del mondo, si deve guardare a come le organizzazioni amministrative producano "senso"» (p. 75). Sulla scorta degli studi dell'antropologo V. Turner, Anderson ricorre al tema del "viaggio" come esperienza creatrice di significato e conia brillantemente il concetto di "pellegrinaggio amministrativo", attraverso il quale individua una differenza fondamentale fra i funzionari spagnoli e quelli creoli. I primi possono "fare carriera" spostandosi indifferentemente dalla Spagna alle colonie, o viceversa tornare in patria con una qualifica amministrativa più importante. I secondi sono invece frenati sia verticalmente, nel senso che la sede più importante in cui possono arrivare è la capitale del distretto amministrativo imperiale a cui appartengono, sia orizzontalmente, perché la loro funzione non può venire esercitata al di fuori di quei confini. Alla lunga, venendo spesso in contatto tra loro, i funzionari creoli, "imprigionati" nei "loro" confini, "identici" compagni di viaggio, maturano la coscienza di questa esclusione dalle più alte cariche, tanto più insopportabile quanto più un creolo è, per lingua, religione, cultura, indistinguibile da uno spagnolo nato in Spagna. Ciò che alla fine assume valore in relazione all'appartenenza ad una comunità è proprio l'essere nati in quei territori coloniali, sempre più pronti ad esser immaginati come nazioni.

L'irrompere del nazionalismo in Europa è leggermente successivo a quello delle Americhe e corrisponde ad un nazionalismo di tipo linguistico, nato in mezzo ai fermenti politici ed ideologici che accompagnano l'emergere ed il diffondersi di lingue nazionali. L'Ottocento diventa ben presto il secolo dei grammatici e dei lessicografi, dei filologi, folcloristi e pubblicisti che riversano la loro produzione culturale in un mercato editoriale a cui attinge a piene mani una borghesia che quanto più consuma prodotti culturali scritti nella lingua "volgare" tanto più si percepisce come comunità nazionale. Il nazionalismo europeo è caratterizzato, rispetto a quelli che lo hanno preceduto, dall'aspirazione ad un modello di "nazione" già presente e collaudato, che implicava idee di eguaglianza, come l'abolizione della servitù della gleba e la fine dei privilegi legalizzati caratteristici del regno dinastico; soltanto senza queste barriere poteva essere concepita una comunità in cui gruppi appartenenti a classi sociali ed economiche diverse si immaginassero in una fratellanza di eguali.

Un terzo tipo di nazionalismo riguarda invece la reazione di alcuni gruppi dinastici o aristocratici dinanzi alla pressione di un più vasto potere imperiale. Furono questi ultimi a cavalcare il malcontento popolare contro le politiche imperialistiche per mantenere il potere; vi riuscirono grazie alla sedicente sovrapposizione fra regno dinastico ed identità nazionale che vide in molti casi la "naturalizzazione" di alcuni importanti casati che divenivano così monarchie nazionali. In realtà, sotto questo ufficial-nazionalismo (termine che Anderson riprende da Seton-Watson) si nascondevano delle politiche reazionarie che si nutrivano delle stesse ambizioni assimilazioniste in opposizione alle quali erano nate.

L'ultima ondata di nazionalismi mise termine, in tutti i continenti, a quasi tutti i grandi poteri imperiali e coloniali. Queste politiche di "costruzione nazionale" videro la fusione o la combinazione di differenti elementi che appartenevano rispettivamente ai modelli di nazionalismo precedenti. L'ideologia nazionalista veniva sistematicamente instillata attraverso i mass media, il sistema scolastico, i regolamenti amministrativi in posti molto diversi fra loro dall'Indonesia e dalle Filippine al Mozambico e all'Angola, dall'Indocina all'Africa occidentale francofona.

Nel primo dei due brillanti capitoli conclusivi, aggiunti nella seconda edizione del 1991, Anderson si sofferma su tre importanti elementi che contribuirono alla nascita di alcune nazioni negli ex domini coloniali: «Censimento, mappa [e] museo [ ...] insieme plasmarono profondamente il modo in cui lo stato coloniale vedeva i suoi domini (la natura degli esseri umani che governava, la geografia dei propri territori e la legittimità della propria genealogia)» (p. 189). Sotto il controllo coloniale le categorie censitarie presenti nei precedenti sistemi fiscali vennero ridefinite su una base razziale; le confuse e arbitrarie classificazioni del potere coloniale finirono alla lunga per reificare fenomeni demografici creati dal loro febbrile sforzo tassonomico. La nuova topografia demografica «guidata dalle sue mappe immaginarie, organizzò i nuovi apparati burocratici dell'educazione, delle leggi, della sanità, della polizia e dell'immigrazione, apparati costruiti su principi di gerarchie etnico-razziali interpretati in termini di serie parallele. Il flusso delle popolazioni suddite attraverso le maglie di tribunali differenziati, differenziate scuole, cliniche, stazioni di polizia e differenti uffici di immigrazione, creò "percorsi abitudinari" che, col tempo, diedero una vita sociale reale alle fantasie dello stato» (p. 194).

La mappa cercava di porre lo spazio sotto lo stesso controllo che gli agenti dei censimenti esercitavano sulle persone; sin dall'inizio indispensabile per ragioni militari, ben presto la base cartografico-territoriale divenne fondamentale anche per l'amministrazione. La delimitazione spaziale dei confini che la mappa portava con sé favorì - con le parole di Anderson - la "logoizzazione", per cui i confini amministrativi finivano per mediare iconicamente il senso di appartenenza a ciò che sarebbe divenuta una nazione; «subito riconoscibile, visibile ovunque la mappa-logo si radicò nell'immaginario popolare, divenendo presto un potente simbolo per il nascente nazionalismo anti-coloniale» (p. 200).

L'archeologia monumentale ed i musei, sempre più legati al turismo, permettevano al potere coloniale di apparire come il guardiano di un tradizione generalizzata, ma al tempo stesso locale, «visti in questa luce, i monumenti ricostruiti, contrapposti alla povertà rurale circostante, dicevano ai nativi: la nostra presenza mostra che voi siete sempre stati, o siete da tempo divenuti, incapaci di grandezza ed auto-governo» (p. 204). Nell'"epoca della riproducibilità tecnica", attraverso cartoline e libri illustrati, questi monumenti da manifestazioni dell'autorità coloniale finirono per diventare simboli di una nascente cultura nazionale.

Nel secondo capitolo conclusivo Anderson, dopo aver notato che i primi nazionalismi sono coevi alla nascita delle cattedre di Storia, ritorna sull'osservazione di Renan secondo cui l'essenza della nazione è data dal fatto che tutti gli individui hanno molte cose in comune, ma al contempo devono averne dimenticate delle altre, riferendosi alle violenze ed alle morti che hanno dilaniato quelli che solo dopo, retrospettivamente, possono essere chiamati francesi. L'acuta osservazione di Anderson va oltre la considerazione che la nazione si erige su qualcosa di rimosso perché nega l'idea di progresso morale e civile; in effetti i francesi ricordano (anziché semplicemente dimenticare) sia la "Saint-Barthélemy" sia il massacro degli Albigesi nel Duecento. Bisogna infatti aver presente che il dimenticare è già un'attività immaginaria che presuppone e nello stesso tempo autoconferma la cornice comune dell'"essere-francesi", che ricuce a priori uno strappo troppo lontano nel tempo per essere ancora una fonte importante di lacerazioni e conflitti.

Orazio Irrera