2005

U. Allegretti, Diritti e Stato nella mondializzazione, Città aperta, Troina 2002, pp. 303, ISBN 88-8137-033-6

Finora non sono stati molti gli studiosi italiani impegnati nell'analisi della dimensione giuridica e politica della globalizzazione. Alcuni lo hanno fatto tendendo a ridimensionare fortemente la portata e la profondità delle trasformazioni in corso. Altri ne hanno enfatizzato la novità, attraverso eleganti esposizioni che hanno finito per rivelarsi simpatetiche, se non entusiastiche. Umberto Allegretti, per contro, propone un approccio nettamente ed esplicitamente critico, che muove dal riconoscimento delle eclatanti sperequazioni nella distribuzione globale del reddito e del potere, alla ricerca del 'senso' dei processi in atto e delle possibili prospettive.

Allegretti propone di indicare con 'mondializzazione' "un complesso - economico, politico, ambientale, culturale, sociale - in virtù del quale le modalità e il senso anche di fatti per sé puntuali e localizzati vengono condizionati dal riferimento ad una totalità che si estende fino all'intero pianeta"e con 'globalizzazione' "la forma attuale assunta dalla mondializzazione, con l'equiparazione alla liberalizzazione e economica e con gli altri fenomeni ad essa collegati" (p. 14). Ed egli propone un approccio multidisciplinare utilizzando ampiamente i contributi della riflessione filosofica e le analisi degli storici, degli economisti e dei politologi. In particolare nei processi di mondializzazione la dimensione simbolica e lo spazio dell'immaginario, sulla scorta delle analisi di autori come Cornelius Castoriadis e Serge Latouche. Ma il momento istituzionale è senza dubbio centrale nel suo discorso.

L'autore muove da una sintetica analisi dei 'trenta anni gloriosi' della storia mondiale - fra il 1945 e il 1975 - senza tacerne le ambiguità. È in quell'epoca che nasce la globalizzazione "come organizzazione di un potere mondiale" (p. 34), che tuttavia rimane 'diviso' dalla Guerra fredda. È comunque fin dagli accordi di Bretton Woods del 1944 che si delinea un progetto liberista globale che realizza "una rete di obblighi internazionali"tali da condizionare "a fondo la natura dell'ordine interno degli Stati". Ma tutto questo lasciava un ambito significativo ai poteri statali: si è realizzato insomma un compromesso generale fra gli impegni internazionali e gli impegni interni degli stati, come pure fra i 'nemici fratelli' del capitalismo e del socialismo realizzato.

Allegretti individua la radice dei processi attuali nel dispiegamento dell''individualismo possessivo', che segna l'economia, la politica e la cultura della modernità fin dalle loro origini. Il processo, tuttavia, è intrinsecamente dialettico: "l'affermazione dell'individuo genera immediatamente l'incontro con il suo contrario: l'elemento globale" (p. 59). E l'individualismo produce aporie: soggetto di una 'libertà infinita' che si afferma dalle teorie di Hobbes fino alle pratiche dei movimenti del sessantotto, l'individuo rompe il suo legame con la natura e con la comunità umana: "La perdita dell'altro - che comprende non solo gli altri uomini ma la biosfera e il cosmo - è la controfaccia inevitabile dell'imperialismo dell'io" (p. 64). E "l'altro misconosciuto riemerge inevitabilmente come totalità, come collettivo impersonale che impone la propria prevalenza" (p. 67): l'individualismo rimanda al totalitarismo.

Il 'passaggio di soglia' verso la forma contemporanea della mondializzazione si colloca negli anni Settanta. Sono gli anni della crisi economica, di "un abbassamento della redditività del capitale avvertito come incompatibile con il livello di potenza conseguito dagli investimenti industriali nella lunga fase espansiva del dopoguerra" (p. 77). Le risposte a questa crisi sono note: l'avvio delle forme postfordiste di organizzazione del lavoro, l'internazionalizzazione degli scambi, degli investimenti e dei movimenti finanziari. Il ruolo della rendita finanziaria diviene sempre più esorbitante, fino a ridurre ad una dimensione percentualmente marginale il volume degli scambi - e dei profitti - legati all'economia 'reale'. Il modello del processo economico - nota Allegretti - è sempre meno espresso dalla formula marxiana D-M-D' e sempre più da quella D-D', nel contesto di un declino di lunga durata della crescita economica reale. Allegretti sostiene che "la mondializzazione è la via trovata dal capitalismo, coordinando una serie di elementi, per realizzare quello sfruttamento delle differenze dei prezzi sui vari mercati nella quale consiste da tutti i tempi [...] la sorgente generatrice dei profitti più elevati". Ma, a differenza che in passato, "queste concezioni e le forze che ne sono portatrici hanno dichiarato la propria superiorità, il proprio supremo diritto all'esistenza" (p. 79).

Un'altra soglia decisiva è rappresentata dal 1989 e dalla successiva affermazione della strategia geopolitica unilaterale degli Stati Uniti. La leadership statunitense è giustificata attraverso una identificazione degli interessi economici e geopolitici americani come valori etici di portata universale. La libertà economica si presenta come il valore guida, cui di fatto si subordina la democrazia.

Un tentativo di interpretare l'orizzonte di senso della globalizzazione deve, sostiene Allegretti, riconoscere che "le idee che muovevano l'età precedente hanno continuato la corsa, accentuando la loro presa sull'intero corpo sociale, e insieme si sono prodotte in una nuova versione: un'inedita combinazione tra dismisura individualistica e imposizione della totalità" (p. 100). Lo sviluppo della tecnica e la subordinazione della natura assumono un carattere totalitario: ne consegue una 'acutizzazione del problema della relazione'. Nell'interpretazione di Allegretti, la mondializzazione risponde ad una profonda aspirazione umana. Ma occorre sottoporla a due vincoli: "la preservazione dell'io e della sua separazione e con esso dell'altro, degli altri che come lui stanno nella loro ipseità" e "l'introduzione di un modo di concepire il lontano, a quello che si dice il globale; non come globale indifferenziato, totalità, ma come molteplicità di enti, anch'essi contrassegnati dalla sua singolarità e dunque dalla separazione e dall'ipseità" (p. 125).

È in questa prospettiva che va collocato il discorso sui diritti soggettivi. Proprio in quella che è stata definita 'l'età dei diritti' il conflitto fra i differenti modi di concepirli si fa particolarmente acuto: da un lato si insiste sul loro ruolo redistributivo, che rimanda a doveri e responsabilità, dall'altro "quello consolidativo degli assetti fattuali prodotti dallo stato delle forze sociali" (p. 128), che rimanda all'individualismo. La mondializzazione comporta lo sviluppo, la specificazione, la diffusione dei diritti. Ma vede anche l'affermazione di un'assoluta priorità della libertà economica e di impresa e della proprietà senza vincoli. Si profila una "smobilitazione della supremazia delle costituzioni e del diritto internazionale imperativo" rispetto alle logiche dell'economia globalizzata e una affermazione della lex mercatoria e del modello giuridico nordamericano.

Se i diritti ambientali, economici e sociali vengono subordinati ai vincoli delle istituzioni economiche internazionali, ciò non significa che i tradizionali diritti civili non siano a repentaglio. In particolare, l'ideologia della 'guerra umanitaria' rappresenta il tragico paradosso di una "difesa dei diritti umani e della democrazia che si traduce [...] in una colossale soppressione dei diritti umani di popolazioni" (p. 166), a cominciare appunto dal loro diritto alla vita. A tutto questo si aggiungono le minacce alla libertà, nel quadro di un'ossessione sicuritaria che mette a repentaglio lo Stato di diritto, e un processo di deperimento della democrazia, rispetto al quale l'Italia del berlusconismo rappresenta un caso di scuola.

Nello scenario globale non mancano, tuttavia, segni di speranza. Il radicamento degli ideali della democrazia e dei diritti umani fiorisce nelle 'operazioni di resistenza' e negli atti di dissidenza, dalla 'resistenza costituzionale' in Italia, all'opposizione alla globalizzazione commerciale, militare e culturale, alle proposte di ATTAC. E Allegretti segnala la capacità critica e di elaborazione costruttiva dimostrata dai nuovi movimenti, a cominciare dal Forum di Porto Alegre.

Il 'riposizionamento dei diritti sociali' rimanda all'individuazione di un nuovo quadro istituzionale, ad una ridislocazione della rete dei poteri. Allegretti affronta la questione del ruolo e della crisi della sovranità: "più che parlare di declino dello stato in termini generali o troppo allusivi, meglio osservare l'intricata mescolanza di parziali 'espropriazioni' di poteri, di 'limiti' e 'vincoli 'al loro esercizio e di 'condizionamenti' che essi subiscono [...] è bene dare il giusto rilievo al fatto che, poiché crescono le funzioni in condominio tra più stati [...] la loro responsabilità non viene meno ma si sposta sulla capacità e sul modo con cui partecipano all'elaborazione, prima, ed alla gestione, dopo, degli accordi e delle istituzioni da essi fondate" (p. 225). Sono gli Stati a scegliere se agire in determinati ambiti - dai servizi sociali, alla politica militare, alla cultura, alla difesa dell'ambiente - in presenza di condizionamenti internazionali. Il declino dello Stato - sostiene Allegretti in opposizione a tesi ottimistiche come quelle che emergono, ad esempio, in certe pagine di Toni Negri - aprirebbe un pericoloso vuoto di potere. La sovranità statale - contro una linea interpretativa che va da Hans Kelsen a Luigi Ferrajoli - viene così considerata una 'carta di riserva' da giocare per tutelare i diritti fondamentali. D'altra parte, un ruolo essenziale è attribuito ai contrappesi rappresentati dai poteri locali e dall'autonomia sociale.

L'immagine che Allegretti propone non è quella di una struttura normativa gerarchica, ma quella di una rete di poteri: non è possibile identificare oggi un luogo del governo centrale, analogo a ciò che lo Stato ha rappresentato per la dimensione nazionale: la global governance non si identifica con il governo globale. Tuttavia Allegretti - contro critiche radicali come quelle di Danilo Zolo - attribuisce un ruolo-chiave alle Nazioni Unite. L'involuzione delle istituzioni internazionali che si è delineata dopo il 1989 non era fatale ed esse sono ancora riformabili nel senso di una maggiore democraticità e di un aumento dei loro poteri, in particolare nel governo dell'economia globale.

Di fronte alle spaventose diseguaglianze di reddito e di potere, al carico di sofferenze che segnano la globalizzazione, al processo di 'mondializzazione militare', Allegretti propone un quadro interpretativo e critico che rifiuta il determinismo, che insiste sulle 'biforcazioni', sulle possibilità aperte e sul rilievo delle scelte volontarie: "Come l'impulso verso la mondializzazione è stato volontario e in passato ha già conosciuto interruzioni, così si può pensare di guidarlo secondo decisioni parzialmente libere". La mondializzazione non si identifica necessariamente con la crescita delle libertà economiche, l'aumento delle disuguaglianze sociali e del potere basato sulla violenza. Occorre "allontanarsi dall'idea di una cultura unica, del diritto di dominio di un'idea superiore e di una parte del mondo più illuminata, moralmente, intellettualmente più elevata delle altre" (p. 276). Non a caso, il libro si conclude con le parole "un altro mondo è possibile".

Luca Baccelli