2005

B. Accarino (a cura di), La bilancia e la crisi. Il linguaggio filosofico dell'equilibrio, Ombre Corte, Verona 2003, pp. 146, ISBN 88-87009-34-1

Le figure del pensiero che Bruno Accarino fa giocare attorno al concetto di equilibrio, come quella della bilancia e della compensazione, formano una costellazione capace di disegnare lo spazio all'interno del quale operano le diversi forze implicate nell'ordinamento delle relazioni internazionali nel vecchio continente. Ripercorrendo alcuni momenti classici della riflessione europea, da Leibniz a Kant, da Burke a Nietzsche, l'autore, da un lato, riesce a mettere in evidenza alcuni elementi peculiari del concetto di equilibrio, che non risulterebbero comprensibili attraverso il limitato riferimento alla fase del così detto "equilibrio del terrore" successiva alla seconda guerra mondiale, dall'altro riconsidera problematicamente l'idea stessa di Europa e dei suoi confini, sia interni che esterni. La "chimera Europa" è interpretata da Accarino come un potente collettore capace di tenere insieme le diverse istanze dei rapporti internazionali per l'intera parabola temporale coperta dal così detto "Stato moderno": tale riferimento funziona da permanente bacino ideologico funzionale sia alla mobilitazione dell'equilibrio delle forze che si oppongono ai progetti di unificazione europea, sia al sostegno di uno sforzo di concentrazione di queste forze verso l'unità. Ciò dimostra, secondo l'autore, l'impossibilità dell'archiviazione dell'equilibrio in quanto concetto politico, e ne palesa la crucialità anche in un epoca segnata dagli imperativi della globalizzazione. Il tema dell'equilibrio si ripropone, dunque, sia di fronte alle spinte bipolari ancora presenti nel panorama internazionale, anche se con differenti determinazioni ideologiche, sia attraverso la sua costante permanenza nella cornice dell'unificazione europea.

Attraverso questa prospettiva, Accarino tenta una riconsiderazione dello scenario attuale atta a palesarne tutta l'intrinseca complessità. Questa è da intendersi principalmente come lo svolgimento di un continuo processo di differenziazione, all'interno del quale l'aumento della varietà endogena propone sempre la possibilità di un nuovo equilibrio sistemico. In questo quadro, l'accelerazione di tutti gli aspetti legati alla vita del "sistema-mondo", che accompagna intrinsecamente il fenomeno "globalizzazione", sembra essere condizione necessaria per la possibilità stessa di un equilibrio (da intendersi evidentemente come concetto completamente slegato da ogni riferimento alla staticità). Da questo punto di vista, risulta chiaro che sarebbe il rallentamento di tale processualità ad essere portatore di squilibrio. Dunque, la caratteristica peculiare del "sistema-mondo", inteso come complesso eterogeneo di relazioni umane ed ambientali, è senza dubbio la mutevolezza: in una tale situazione ogni riferimento all'ordine risulta necessariamente labile, mentre l'idea stessa di equilibrio, per essere recuperata in tutta la sua centralità, deve essere compresa nel suo incessante rinnovarsi.

Considerato sotto questo aspetto, l'equilibrio sembra ormai uscito in modo definitivo dall'ambito proprio del compromesso, per entrare nel territorio difficilmente delimitabile delle pratiche immunitarie. In tale situazione, la vita dei corpi sociali (intendendo con questa definizione tutti i diversi attori che popolano lo spazio globale) sembra autoregolarsi e ritrovare l'equilibrio tra i suoi diversi organi attraverso l'intrecciarsi di differenti funzionalità e momenti di inevitabile disfunzione. Forse può apparire paradossale, ma se è vero che la modernità è definibile come il tentativo sistematico di neutralizzare, ad ogni livello, il conflitto, allora tale quadro si propone come tutto interno allo spazio del moderno, e, proprio per questo, esso riemerge come momento radicalmente problematizzante dello stesso. Il profilo immunitario della modernità si esplicita nella scoperta di poter "combattere il male con il male", cioè, appunto, di immunizzare ricorrendo alla potenza del germe patogeno: ciò, per Accarino, risulta essere l'aspetto costitutivo proprio del moderno concetto di equilibrio. L'equilibrio, poiché risulta comprensibile solo se riconnesso ad una strutturale precarietà, lontano dall'essere un'effettiva e stabile neutralizzazione, sembra poggiarsi su di un focolaio permanente di nuovi irrazionalismi, di nuove crisi, di nuove guerre.

La seconda parte del testo, attraverso il saggio di Antonella Brillante, cerca di ricostruire lo scenario bipolare che, dal secondo dopoguerra alla fine degli anni '80, si basava sulla minaccia della distruzione nucleare. La fine di tale bilanciamento fondato sul terrore, inteso come specifica tipologia di ordine, lungi dall'aver dato luogo a nuovi equilibri, sembra essere la causa prima di nuovi conflitti e di nuove guerre. La tesi argomentata dall'analisi dell'autrice è che la possibilità di un ordine nella forma dell'equilibrio rimanda necessariamente al superamento del carattere contingente delle relazioni di forza tra i soggetti: in questo senso la deterrenza nucleare, cioè l'equilibrio del terrore considerato nei termini strategici della dottrina della mutual assured destruction, rappresenta non solo la declinazione, cronologicamente ultima, del bilance of power, ma anche la forma ordinativa concettualmente più compiuta dell'equilibrio.

Il saggio prende le mosse dalla constatazione della necessità di ripensare a Hobbes per guadagnare un luogo di osservazione privilegiato sul nesso ordine-equilibrio: nella riflessione hobbesiana sembra emerge, infatti, una radicale divaricazione tra ordine interno ed ordine internazionale. L'analisi della costruzione hobbesiana permettere di porre a tema questo punto fondamentale: la condizione essenziale che deve essere soddisfatta, affinché l'uguaglianza produca equilibrio, è l'azzeramento della contingenza. Se in natura la mutevolezza delle circostanze pone anche l'individuo più debole in condizione di uccidere il più forte, allora solo l'artificio contrattuale che introduce la dimensione verticale del comando politico può produrre ordine. Tale costruzione elimina la naturale contingenza dei rapporti tra gli individui. Sul piano dei rapporti internazionali, invece, non emerge la necessità di un simile artificio, poiché tra gli Stati il livello possibile di contingenza delle forze è estremamente inferiore: l'equilibrio internazionale è dunque pensato da Hobbes su una reciproca capacità di offesa mai del tutto imprevedibile e, contemporaneamente, sulla assoluta invulnerabilità interna.

Brillante sostiene che la mutual assured destruction, perdurata per più di un trentennio tra Stati Uniti ed Unione Sovietica, ha prodotto il massimo dell'equilibrio quando è stata raggiunta sul piano tecnologico la perfezione di una capacità di ritorsione reciprocamente invulnerabile, ossia quando ambedue le superpotenze hanno conseguito il massimo della vulnerabilità. Dal punto di vista filosofico, ciò ha reso possibile quell'eccesso di potere di cui sono privi gli individui hobbesiani, ponendo così le condizioni per una cristallizzazione dei rapporti di forza. Confrontando questo scenario del passato con la situazione attuale, ci si accorge che se è possibile prospettare il ripetersi di un simile approccio strategico da parte degli Stati Uniti di fronte a nuove potenze nucleari (ad esempio la Cina), risulta del tutto impossibile una sua applicazione nei confronti di soggetti deterritorializzati o che potrebbero rifiutare la logica della punizione-distruzione (reti terroristiche internazionali). Ciò a cui ci troviamo di fronte sembra essere, allora, lo scenario hobbesiano dello stato di natura, riprodotto su scala internazionale, nel quale anche il soggetto più debole è in grado di colpire il più forte. Sotto questa prospettiva, l'11 settembre 2001 testimonia inequivocabilmente l'impossibile immunità anche dell'ultima superpotenza rimasta, gli Stati Uniti. Dunque, pur senza rimpiangere l'epoca del balance of terror, l'autrice vede riempito lo spazio internazionale, lasciato vuoto dalla dissoluzione dell'equilibrio bipolare, dalla possibilità di una "guerra infinita" tra l'Occidente e un terrorismo globale e destatualizzato. In questo passaggio le due differenti epoche devono intendersi come strettamente connesse tramite una consequenzialità che era già inscritta nella struttura del passato ordine bipolare.

Il testo si chiude proponendo, come contributo alla chiarificazione del concetto classico di equilibrio, un testo del 1806 di Friederich Gentz (collaboratore di Metternich), curato da Nicola Casanova. L'autore tenta di fornire una serie di massime rigorose in grado di sostenere una teoria complessiva di un equilibrio nel mondo politico internazionale, in cui l'originaria disuguaglianza dei partecipanti deve considerasi come condizione provvisoria ma necessaria per l'intero sistema.

Concludendo, va segnalato che l'indagine proposta nel testo curato da Accarino ha senza dubbio il merito di concedere al pensiero la possibilità di agire criticamente nello spazio delimitato dal rapporto tra filosofia e politica, un luogo la cui determinazione risulta strutturalmente problematica, e di cui spesso è stata posta in questione la legittimità epistemologica. L'ambito concettuale implicato nella tematizzazione dell'equilibrio, infatti, si struttura attorno a plessi argomentativi capaci di porre in evidenza questioni cruciali per il "politico", che nello stesso tempo si impongono come percorsi obbligati per ogni attraversamento "filosofico" che di esso si voglia tentare. Nel concetto di equilibrio si mostra il nesso tra norma ed eccezione, elementi che determinano sia la possibilità di pensare alla forma giuridica di un ordine politico, sia la cogenza di una comprensione filosofica necessitata proprio dalla mancanza di strumenti categoriali capaci di situare l'eccezione. Se ciò e vero, allora l'analisi proposta ha il merito di sciogliere il concetto di equilibrio dal pregiudizio di essere associato a stereotipi di apologia dell'esistente, e di riproporre tutta la ricchezza filosofica scaturante dal concetto di ordine, troppo spesso ancorato ad un repertorio immobilistico che non sempre gli pertiene. Il tentativo suggerito dal testo è dunque quello di riaprire il dibattito sul concetto di equilibrio e sulle figure del conservatorismo, al di là di immobilismi ideologici e pregiudizi intellettuali, a partire dal presupposto che ogni "crisi" va compresa iniziando proprio con l'accertamento di quell'ordine di cui v'è crisi.

Mauro Farnesi Camellone