2014

Günther Anders, Nach «Holocaust» 1979, C.H. Beck, München 1997; trad. it Dopo Holocaust, 1979, traduzione e postfazione di Sergio Fabian, prefazione di Davide Bidussa, Bollati Boringhieri, Torino 2014, ISBN 978-88-339-2588-2

Recensione di Claudia Terranova



Può una miniserie di stampo hollywoodiano sull’Olocausto, apparsa in Germania sugli schermi televisivi nel gennaio del 1979 – al di là di alcune critiche che l’hanno tacciata di falsificare la storia con banale sentimentalismo – rendere «perspicuo e rammemorabile» alla coscienza di milioni di spettatori l’evento più indicibile che la storia occidentale ci ha consegnato? Secondo il filosofo ebreo Günther Anders è possibile.

Quello che Anders descrive con grande lucidità nelle note diaristiche del suo Holocaust, 1979, uscito in Italia lo scorso ottobre per la casa editrice Bollati Boringhieri, è la forza dell’orrore che una produzione cinematografica è riuscita a diffondere tra milioni di tedeschi, ridestando la memoria fino ad allora assopita in una dimensione astorica, e inaugurando in Germania quella svolta epocale che ha dato vita all’età post-hitleriana. Considerando ridicole, anzi triviali manipolazioni, le critiche attribuite alla fiction televisiva da «una sedicente prospettiva puramente estetica» (p. 35) che scredita l’opera come ‘sentimentale’ e pura ‘merce’ per trarne profitto, Anders con un’acuta analisi fa luce sugli effetti dirompenti del film che, con tutta la forza del perturbante (das Unheimliche), fa disperare milioni di tedeschi che finalmente possono guardare in faccia l’indicibile e turbarsi.

Decostruendo ogni analisi dai contorni psicoanalitici, analisi attraverso le quali il dibattito culturale occidentale ha tentato di dare un nome al ‘mutismo collettivo’ dei tedeschi di fronte ‘alla ripugnante trasvalutazione dei valori che avevano collettivamente fatto propria’ (p. 88) e alla loro incapacità di riflettere sulla colpa, Anders fa cadere ad uno ad uno i concetti di ‘rimozione’, ‘incapacità di elaborare il lutto’, ‘mancata elaborazione del proprio passato’ ritenendoli inadeguati e semplici espressioni fumose. La rimozione, sottolinea Anders, presuppone sempre un trauma, un turbamento, ma di tutto questo non vi fu traccia nelle loro coscienze; “la loro “totalizzazione” fu tale che di fatto non videro ciò che non dovevano vedere; anzi non percepirono ciò che non dovevano percepire. Era stata loro tolta ogni autonomia emozionale e intellettuale” (p. 38).

Non diversamente nei trentaquattro anni che precedono la miniserie televisiva. Nessun trauma, nessuna vergogna, nessun rimorso aveva accompagnato l’esistenza dei tedeschi che negli anni del dopoguerra, impegnati spasmodicamente nella ricostruzione del paese, non guardarono a ritroso ‘a quella dozzina d’anni millenaria’ (p. 31) che aveva pianificato il genocidio, per lasciarsi invece trascinare nel vortice del nuovo soggetto storico, il consumo, che li aveva immobilizzati nella dimensione astorica del presente intenti a soddisfare rapidamente i desideri di ‘casa, cibo, televisione, viaggi, sesso’ (Ibid.). Paradossalmente, a ridestarli dal sonno della memoria, scrive Anders, a offrire loro, anche se troppo tardi, la chance della continuità storica fu proprio la miniserie televisiva Holocaust, uno dei tanti prodotti commerciali legati alla logica del consumo. È stata la finzione cinematografica delle vicende tragiche delle famiglie Weiss e Dorf, “a produrre quella luminescenza capace di scalfire il buio, di riempire il vuoto scavato dall’oblio” (p. 94) donando la forza e il coraggio per interrogare i sedimenti del passato.

Ma perché la finzione è riuscita a produrre nell’opaca coscienza nazionale quello shock che, come sottolinea Anders, avrebbe dovuto prodursi anni prima di fronte alle innumerevoli immagini “dei lager, dei forni, delle montagne di cadaveri” (p. 38), ripresi dagli alleati dopo la liberazione dei campi di concentramento? Perché una ricostruzione fittizia di un passato ormai lontano, costrinse milioni di tedeschi non solo a prendere atto delle atrocità commesse ma finalmente a disperarsi? Perché l’orrore, spiega con grande acume Anders, “davanti alla morte, anche davanti al crimine, decresce all’aumentare del numero dei cadaveri mostrati” (p. 39); le immagini per quanto violente mostravano solo gli esiti del crimine, non i criminali e le vittime. La muta cifra di sei milioni di vittime, anche se ripetuta incessantemente, non esprimeva “il gemito dei torturati e gli sghignazzi dei torturatori” (Ibid.) ma veniva percepita come un’entità anonima, la cui smisuratezza non arrivava alle orecchie, agli occhi e ai cuori. Il film è riuscito invece a ritrasformare quella cifra in essere umani e a “mostrare come i sei milioni di gassati siano stati sei milioni di individui” (p. 34).

I personaggi del film, vittime o carnefici che fossero, entrando nei comodi salotti tedeschi costrinsero i telespettatori alla fatica del pensiero, a misurarsi, per dirla con Hegel, con “la febbre del negativo”; facendo sì che la smisuratezza del dato si trasformasse in tragedia vissuta: “Il film fa vedere come ciò che in quel luogo fu trattato come ‘ultima materia’, un tempo avesse pronunciato «io» e «noi», avesse sperato e amato, fosse stato dunque una ‘persona’” (p. 33).

L’ora della verità, scrive Anders con toni incisivi, è giunta fino a casa per i tedeschi, l’indicibile è arrivato da fuori, caduto dal cielo come un “colpo di fortuna”: “non sono stati loro a girare il film, non sono stati loro a ‘fare pulizia davanti a casa’ (come pretendono arrogantemente sempre dagli altri)” (p. 58), ma l’orribile parvenza trasmessa dal mezzo artistico. Perché Holocaust per Anders è più di un veicolo di intrattenimento o commozione, “è un’opera politico-morale e come tale è stata recepita” (p. 59) da milioni di tedeschi che, immedesimandosi nei protagonisti, amandoli e odiandoli, hanno potuto far luce sul loro mostruoso trascorso. E se non possono più vergognarsi, possono almeno inorridire e turbarsi: “il turbamento è, di fatto, la condizione per una possibile ‘guarigione’ morale” (p. 42).